di Olga Caetani Prima regionale al Teatro Era di Pontedera per “La resa dei conti”, in scena sabato 27 e domenica 28 ottobre, da una coproduzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini e Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia. Niente è come sembra e nessuno è come appare nel dramma di Michele Santeramo, un atto unico che si dipana in poco più di un’ora, sotto l’attenta regia di Peppino Mazzotta, coadiuvato da Angela Carrano, senza tuttavia trovare una risposta univoca al susseguirsi di interrogativi, antichi come l’uomo, che accompagnano l’intero spettacolo. Il testo mette alla prova le coscienze dei due protagonisti, e, contemporaneamente, la bravura e la “resistenza” degli attori, i superbi Daniele Russo e Andrea Di Casa, in un’incessante botta e risposta, spesso rabbioso e urlato, interrotto soltanto da alcune pause, a tratti quasi grottesche, dettate da bisogni primari, come dormire, mangiare, andare in bagno. Il rumoroso dialogo si svolge entro le pareti di una scarna scenografia, allestita sul palcoscenico della sala Ryszard Cieslak del Teatro Era, che, piccola e intima, dall’acustica perfetta, pone in uno strettissimo contatto lo spettatore e gli attori. Una scomoda cassapanca, un basso sgabello, un secchio metallico sono gli unici complementi d’arredo all’interno della stanza, una sorta di bunker privo di porte e di finestre, parzialmente illuminato soltanto da giochi di luce, su disegno di Cesare Accetta, i quali, a seconda del calore e dell’intensità emanati, sembrano scandire le fasi del giorno e della notte, di un tempo attuale (lo capiamo, tra l’altro, dai costumi di Lino Fiorito), ma indefinito. Soltanto uno dei due personaggi ne conosce la via d’uscita e riesce a interagire con l’esterno: Gesù (Andrea Di Casa), un moderno - e piuttosto maturo – Salvatore, si rivolge, puntando gli occhi verso l’alto, al Padre, col tono confidenziale e litigioso di un figlio. Ha appena sottratto da morte certa un uomo (Daniele Russo), ora rigidamente disteso sulla panca, a piedi nudi, impedendogli di finire travolto da un’auto in corsa. Quando quest’ultimo pian piano si risveglia, lo spettacolo entra davvero nel vivo. Sebastiano Guerra - un cognome, che, non a caso, come scopriamo in seguito, è foriero dei conflitti interiori e dilanianti affrontati dal personaggio - è frastornato e dolorante, ha un terribile mal di testa. Spaesato, chiede dov’è capitato, cerca disperatamente una via d’uscita, crede di essere morto e di trovarsi, se esiste, all’inferno. Il fatto che il suo unico interlocutore sostenga di essere Gesù Cristo certamente non aiuta. Colui che inizialmente, con il suo monologo, ha fatto credere agli spettatori di trovarsi in una dimensione mistica e ultraterrena, in realtà, adesso, appare più come un vecchio pazzo, che probabilmente ha sequestrato un uomo, al quale, in questo momento, rinchiuso in un luogo angusto e nel suo dramma, va tutta l’empatia del pubblico. Sebastiano comincia a inveire contro “Gesù” e, nell’isterismo generale, rivela, lasciando tutti quanti di stucco, sul palcoscenico e al di fuori di esso, che non voleva essere salvato, perché lui sotto quell’auto ci si era buttato. Un gesto estremo, sì, che va contro la parola di Dio, e ciò che di più prezioso ci è concesso, la vita, ma dettato dalla disperazione, quella che non ha più speranze e che non lascia altra scelta. L’uomo, dopotutto, è dotato del libero arbitrio e può scegliere anche di togliersela, la vita. Che senso ha viverla, quando tua moglie ti abbandona da un giorno all’altro, senza una spiegazione, scomparendo nel nulla, e per cercarla perdi il lavoro, la casa, gli amici? Che cosa ti rimane? Quale scelta possibile? Qualcun altro, invece, una scelta non ce l’ha mai avuta, o, semplicemente, non ha mai avuto il coraggio di ribellarsi a una “scelta” imposta, e quando quel coraggio lo ha trovato, era ormai troppo tardi, infliggendosi così una fine di solitudine e isolamento da una comunità che può omettere e nascondere, ma non perdonare. “Gesù” era in realtà un prete, la cui vocazione giovanile è stata voluta dal padre, non quello Celeste, quello biologico. Partito missionario per l’Africa, ha conosciuto la miseria, vera e impietosa, la fame, lo strazio, la malattia. Ma non l’ha toccata con mano, non ce l’ha fatta. Con una profonda vergogna interiore, che sa tanto di liberazione, come da un peso tremendo e indicibile, sfinito dalle domande accusatorie e incalzanti di Sebastiano, urla che da tutto quel dolore lui era letteralmente schifato. Sebastiano si ammutolisce e comprende, forse. Il compagno di “cella”, ora svuotato, si sdraia sulla panca rigida, chiude gli occhi. Con la vita che gli rimane, tenta di espiare i suoi peccati, scontando una pena volontaria. Cala la notte oscura. Un fascio di luce squarcia l’oscurità e illumina parzialmente il volto di Sebastiano, accovacciato sullo sgabello in un angolo. Nel silenzio delle tenebre, si apre a un soliloquio spiazzante: sua moglie non è scomparsa perché ha deciso di andarsene da un amore ormai esausto, è stato lui, semplicemente stanco di lei, a ucciderla e a farla a pezzi con le proprie mani. “Gesù” ha ascoltato ogni singola parola, o, forse, conosceva già la verità. In silenzio, si alza, tocca con entrambe le mani una delle pareti della stanza e, con una lieve spinta, rivela un’apertura, illuminata da una luce calda, quasi divina. In silenzio, lascia Sebastiano libero di andare, ma il proprio senso di colpa, al di là del libero arbitrio, è una prigione dalla quale nessun uomo può scegliere di uscire e fuggire. Immagini tratte da: www.teatroera.it Potrebbe interessarti anche:
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Maggio 2023
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