O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età! Sempre, parlando, ritorno a voi Dopo il Risorgimento, che, come suggerisce lo stesso titolo, segna il ritorno di Leopardi alla poesia dopo gli anni delle Operette Morali, le speranze presenti e future non esistono più: esistono le speranze di una volta, quelle antiche, di cui Leopardi parla nel componimento Le ricordanze rievocando il ragazzo che la sua vita ingannevole vagheggia. «Indelibata, intera il garzoncel, come inesperto amante, la sua vita ingannevole vagheggia, e celeste beltà fingendo ammira» indica che il fanciullo, come un amante privo di esperienza per la donna amata, sogna «vagheggia» che la sua vita piena di illusioni «ingannevol» sia intatta «intera», mai gustata da nessun altro «indelibata», e avendo immaginato «fingendo» la sua bellezza divina «celeste beltà,» la adora «ammira». Se al presente non c'è spazio per la speranza, il ricordo del passato è un'immagine fasulla «mero desio», un pensiero vano «la gloria», nient'altro che «nebbie sogni e fantasmi» che ingannano il poeta facendogli credere in qualcosa che non ha più ragion d'essere «se i nostri antenati hanno veduto chiaro perché la gente sia confusa e ingannata», dall'altra sono fonte di diletto per il poeta. Leopardi, infatti, esprime stupore nel ritrovarsi a Recanati, proclive ancora una volta alla contemplazione «contemplarvi». L'alternanza dell'imperfetto «solea», «credea» con il passato remoto «abitai», «vidi» attiva l'idea del ricordo-ripetizione in cui si passa da una situazione passata, il ricordo delle cose viste e ascoltate in gioventù (l'errare delle lucciole, il sussurrare del viale dei cipressi, le voci del palazzo, la vista del mare da lontano) al presente, in cui vince la Legge della Natura e del Vero «e delle mie gioie vidi fine». Si crea, pertanto, una contrapposizione tra le antiche speranze, unico vero tesoro in possesso del poeta, e la vita quotidiana, una realtà priva di scopo in cui al poeta rimane, dopo il disinganno, solo la morte «e sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m'avanza; sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto consolarmi non so del mio destino». Il ricordo dell'infelicità giovanile, combattuta tra pulsioni suicide e strenuo attaccamento alla vita «mi trovavo orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio id uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morir; e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore», finisce per prevalere sui ricordi positivi. É proprio il fallimento della memoria, secondo il Leopardi «e quell'imago ancora sospirar mi farà, farammi acerbo l'esser vissuto indarno, e la dolcezza del dì fatal temprerà d'affanno» ad accrescere il disagio interiore del poeta. Il ricordo non è fonte di consolazione, ma di dolore. Questa condizione della precarietà della vita trova conferma in alcuni passi dello Zibaldone «io ero oltremodo annoiato dalla vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi di uscire fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita illeso […] mi trovai orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire» e sfocia nel rimpianto ai versi 119-135 per i beni perduti. A partire da questi versi Leopardi fa un ritratto satirico della propria giovinezza «inusitata meraviglia», «destra scorrevole» in cui solo per finzione la gente gli porge la mano, lo aiuta e scusa i suoi errori. La giovinezza, quindi, non è altro che qualcosa di transitorio «fugaci giorni», un attimo della vita che si dilegua come un lampo. La rievocazione finale di Nerina, simbolo leopardiano della giovinezza insieme a Silvia, rappresenta la speranza defunta; mentre Teresa Fattorini ha “avuto” una vita «rimembri ancora», sognando un avvenire «studi leggiadri, sudate carte, beltà splendea, che speranze, che cori, o Silvia mia», l'esistenza di Nerina si è spenta in un lampo «passasti … ma rapida passasti …ahi tu passati … passasti». Nerina, oltre ad incarnare la fugacità della vita, personfica “l'assenza”: la finestra dove la giovane fanciulla era solita affacciarsi è deserta, la sua voce è muta «i giorni tuoi/furo; quando spegneali il fato». Mentre la voce di Silvia risuona e risuonava nelle stanze, Nerina è un'aura che si è spenta, silente, morta nel passato e nel presente. Nemmeno la forza del ricordo riesce a farla risorgere «scolorita», e se in A Silvia l'amore è qualcosa di ineffabile «lingua mortal non dice», in Nerina l'amore è una forza che supera la morte e che viene riacceso dal ricordo. Per la fanciulla non c'è primavera né amore, ma solo il ricordo vivo ed eterno di lei «ahi tu passasti, etetno sospiro mio: passasti». Fonti: Pietro Citati, Leopardi, Mondadori, Milano, 2010 Giacomo Leopardi, Operette Morali, Milano, Bur, 2008 Giacomo Leopardi, Lo Zibaldone, Milano, Mondadori, 1996 Giacomo Leopardi, Canti, Milano, Bur, 1998 Immagini tratte da:
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Maggio 2023
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