23/5/2020 Linguaggi della paura e del lutto - Antonio Scurati interviene in streaming per il Festival “Pistoia. Dialoghi sull’uomo”Read Nowdi Lorenzo Vanni In questi giorni di pandemia si è costretti a un ripensamento nel nostro modo di rapportarci con la realtà. Il ripensamento va indietro nel tempo e risale all’origine del pensiero chinandosi sulla propria epoca cercando di comprenderla. Torniamo indietro nel tempo di tre decenni: il 1991. La prima guerra del golfo. Per la prima volta viene trasmessa in diretta televisiva una guerra, mentre in passato sarebbe stata solo “notiziata”. Qualunque fosse il nostro pensiero sulla guerra anche se si trattava di un pensiero avverso o indignato, questo non avrebbe escluso che per noi la guerra sia stata una serata passata a sorseggiare una birra fresca. Questa era la nostra situazione paradossale. Questo fu uno spartiacque nell’immaginario occidentale: come predisse Jean baudrillard pochi mesi prima, «la guerra del golfo non si svolgerà». Intendeva che si sarebbe svolta, ma sarebbe stata disintensificata e per molti non sarebbe stata più di una “canonizzazione del telespettatore”. La guerra diventa la normalità perché distaccata dalla vita del telespettatore. Accelerò quindi un processo di lungo periodo diagnosticato da Walter Benjamin: il trionfo dell’inesperienza. Non solo perché il numero di esperienze mediate aumentò vertiginosamente, ma modificò la struttura delle esperienze stesse. Il salto qualitativo portò alla fictual, un universo di immagini di altre tragedie e sofferenze che non distingueva tra reale e fittizio; la distinzione non era pertinente, perché assistevamo a quello spettacolo come a uno show o un film di cui riconoscevamo il dato fittizio. Nasce l’estetica dell’osceno che rende impossibile la rappresentazione della sofferenza che genera empatia. Perdiamo lo sguardo tragico che rende possibile l’immedesimazione purificandoci. Questo corso si interrompe l’11 settembre 2001. Si parla di ritorno alla realtà: il regime confusivo tra finzionale e reale si interrompeva e si sperava che saremmo tornati al contatto con la realtà. Invece la tragedia, concepita come terrorismo mediatico, non fece che intensificare quello stato di cose già provata con la guerra del golfo. Un momento di irruzione del reale, del trauma. Quella violenza che sembrava un punto di svolta viene riassorbita nell’epidemia dell’immaginario (Zizek), si sottrae all’analisi critica e dilaga. Il terrorismo mediatico colpisce una persona come simbolo per moltiplicare gli effetti simbolici come sguardo paranoico. Una grande operazione ideologica che non attiene alla realtà e riassunta nello slogan della televisione via cavo per giustificare la seconda guerra del golfo: War v Terror. C’era menzogna, falsa coscienza, ideologia; nemmeno l’11 settembre ci riporta alla realtà, la politica si concentra sulla minaccia fantasma generata dall’immagine diffusa del terrorismo più che sulla manifestazione reale del terrorismo stesso. Arriviamo agli anni Dieci. Gli anni Zero sono stati il predominio dell’immaginario con la minaccia fantasma mentre il nuovo decennio si inaugura con il populismo politico: una brutalizzazione della politica riportata alla dialettica amico-nemico, un immaginario isterico di fine del mondo polarizzata agli estremi e la coscienza oscilla tra rassegnazione oppure distrazione e menefreghismo che porta a dire che non sta cambiando niente. Il proliferare del populismo sulla confusione tra reale e immaginario porta caos tra di noi, incapacità di elaborazione del lutto di fronte alla morte se non con la violenza fisica o verbale. Il nucleo paranoico è una politica della paura priva di oggetto reale, un nuovo terrore. Ripropone la tematica del nemico alle porte: l’orda dei popoli che migrano dalle coste dell’africa e dalle sponde d’oriente. Su questo si basa la propaganda del populismo mediatico con similitudini con quel che accadde negli anni Venti del secolo scorso con la fondazione dei Fasci di Combattimento. Credo che sia quel che sta di nuovo accadendo non solo in Europa, ma anche in Nord-America con il populismo preparato dall’epidemia dell’immaginario dei decenni precedenti. Arriviamo a oggi. Nelle settimane più drammatiche della pandemia che avrebbe segnato la fine di questo periodo della Storia si era pensato che si sarebbe tornati alla realtà. Ma forse non è così: ha mostrato l’immaturità della classe dirigente del paese, mancanza di sentimento tragico della vita trasformato dalla scomparsa della morte nella rappresentazione reale. Non riusciamo più a confrontarci con la morte, non siamo stati in grado di piangere i morti in forma collettiva, un gesto rituale necessario per riprendere la vita sociale e comunitaria. L’incapacità del lutto fa pensare che neanche la pandemia riporti al contatto con la realtà e al confronto con la morte come crisma. Immagini tratte da: https://www.elledecor.com/it/architettura/a28997305/11-settembre-2001-architetture-new-york/ https://www.youtube.com/watch?v=IbdEtNNGwG8
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