di Lorenzo Vanni Quando venne premiata a ottobre di quest’anno con il Premio Nobel per la Letteratura, Louise Glück era sostanzialmente sconosciuta, nonostante negli Stati Uniti venga considerata una leggenda vivente nell’ambito della poesia. La sua raccolta poetica più celebre è “L’iris selvatico” del 1992, oggi ripubblicata da IlSaggiatore nella traduzione di Massimo Bacigalupo che è anche autore della postfazione. La poetica di Glück viene fatta rientrare nel genere della poesia confessionale di cui fanno parte anche poeti come Sylvia Plath e Robert Lowell anche se con variazioni, infatti, pur essendo presenti elementi autobiografici, questi non appaiono così invasivi da rendere la scrittura autoreferenziale: il dato biografico è semmai un elemento in più che contribuisce alla ricchezza del testo. In “L’iris selvatico” ci troviamo in un giardino del New England e osserviamo lo scenario dalla prospettiva di un fiore che nasce dalla terra. Da subito notiamo il parallelismo che si crea tra il fiore che si rivolge agli umani e, su un livello più elevato, gli umani che si rivolgono a Dio. C’è come uno slittamento continuo tra l’io-fiore e l’io-umano tanto da far pensare che sia in atto una sorta di identificazione tra i due; se da un lato questo rientra in una prospettiva ontologica che consiste di fatto nell’interrogazione del divino (un uomo-dio per il fiore), dall’altro si rende possibile un processo di naturalizzazione dell’io poetante. L’io che diventa natura pone in essere la blasfemia di considerare l’uomo divino riconoscendosi in ogni elemento del mondo circostante. Questo tratto pone in luce la tematica del panteismo, dell’identificazione dell’uomo con il tutto, e l’immaginario a cui si fa ricorso è quello pagano: sono numerosi i riferimenti a riti sacrificali pagani (il corpo rinchiuso nel tronco di un albero), all’alto riflesso nel basso (“come in cielo così in terra”, espressione presente nelle preghiere cristiane e derivato direttamente dal Neoplatonismo, perciò pagano e di interpretazione originariamente esoterica). Poi però le cose si complicano. Perché il giardino del New England non è solo un classico locus amoenus, ma è anche una sorta di raffigurazione altra del Giardino di Eden, ma reso adatto alla vita dannata dell’uomo. Dannata perché è la vita che gli spetta dopo la cacciata dal vero Eden, e per questo è costretto a lavorare i campi, a trarre frutti dal proprio lavoro e dalla propria fatica fino alla fine per poi morire. È questo il punto: l’invocazione a Dio rappresentata da alcune di queste poesie contiene in sé un interrogativo fondamentale sulla natura di Dio, sulla sua esistenza, ma soprattutto sul fatto che sia importante che esista. Anche in questo caso abbiamo un’opposizione netta: da un lato la disperazione per il fatto di sentirsi abbandonati da Dio che, interrogato sullo scopo dell’uomo nel mondo, risponde con il silenzio; dall’altro c’è un’incapacità di gestire la libertà che deriva dall’essere un tutt’uno con il mondo. A questo segue quindi la domanda: è importante che esista Dio? La risposta implicita dell’io poetante è no, perché le capacità dell’uomo non permettono di percepire Dio in ogni cosa dove pure si dice che sia e quindi, Dio o no, è come essere soli. Tanto più che a un’interrogazione diretta non risponde. A una lettura tra le righe, verrebbe da pensare che l’intera riflessione portata avanti nelle poche pagine dell’opera di Glück sia in realtà la constatazione di come non si possa vivere al di fuori di una cornice filosofica tragica e nichilista nonostante si voglia che non sia così. Questo non è quindi un manifesto panteista, ma più genericamente agnostico; di chi vorrebbe credere, ma non trova motivi razionali per farlo. Immagini tratte da: https://www.unionemonregalese.it/2020/10/10/louise-gluck-vince-il-nobel-per-la-letteratura-2020/ https://www.amazon.it/Liris-selvatico-Louise-Gl%C3%BCck/dp/8842829684
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Maggio 2023
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