Riflessioni sul saggio di George Orwell Nel ventre della balena di Lorenzo Vanni
È almeno dall’Ottocento e forse anche prima che in letteratura viene affrontato il problema del rapporto tra politica e arte ogni volta declinato in modi diversi a seconda dell’urgenza del momento. Una fine al dibattito non è mai stata raggiunta e probabilmente non si raggiungerà mai: una volta Oscar Wilde poteva permettersi il lusso di dire che conta solo l’arte e la produzione del bello, però, da quando si è entrati nel Novecento e sempre di più procedendo verso la sua fine, il ruolo dello scrittore è diventato mediatico e l’isolamento di cui poteva godere Wilde non è più contemplato. Non solo la letteratura è mediatica, ma la vita stessa lo è. Come uno scrittore non può godere di isolamento, così non può goderne la persona comune. Ian McEwan è uno scrittore che arrivato a settantaquattro anni si trova per la prima volta a interrogarsi su questo: il suo breve saggio Lo spazio dell’immaginazione è pubblicato da Einaudi per ingannare l’attesa prima dell’uscita del nuovo romanzo a marzo 2023. McEwan introduce la sua riflessione parlando dell’incontro tra George Orwell e Henry Miller: Orwell è ancora sconosciuto e Miller ha pubblicato da poco Il tropico del cancro, Orwell vorrebbe partire per la Spagna e dare il proprio contributo alla causa antifascista. Siamo nel 1940 e si organizza la resistenza alla dittatura franchista; Orwell è un autore politico mentre Miller vive solo per l’arte. Quel che ci dice McEwan attraverso questo incontro è che un autore che si rispetti è diviso tra due sentimenti, uno che gli dice di rivolgersi interamente alla causa artistica non per rappresentare il mondo come è, ma un po’ meglio; l’altro sentimento è quello che gli suggerisce di gettarsi nella mischia politica e contribuire con la sua opera ad alimentare la rivolta contro le storture del mondo. Questa divisione si percepisce tanto di più oggi in cui nessuno può godere di isolamento, requisito principale per uno scrittore. Inondati di notizie di guerra e apocalisse nucleare, lo scrittore dovrebbe sentirsi preso in causa e intervenire per incastonare nella storia un momento in cui l’umanità con le sue speranze e le sue paure ha ceduto, ma ha anche trovato la spinta per agire con più determinazione. Ci sono dei problemi tecnici qui che McEwan evidenzia: uno è la mancanza di isolamento e l’altro è che nella maggior parte dei casi manca un ingrediente fondamentale. Quel che determina la riuscita di un buon romanzo politico è che questo si colleghi a un’esperienza personale abbastanza forte perché non solo si deve fare politica, ma si fa soprattutto arte e i personaggi per funzionare devono essere vivi. Se per portare avanti un’agenda politica, si sacrificano i personaggi e, in breve, la vita, la propria opera avrà un impatto e una durata limitata nel tempo. Scrivendo un romanzo politico si fa una scommessa sul futuro: che il tema trattato in quel preciso momento sia talmente topico da essere rilevante anche a distanza di decenni se non secoli. L’inganno a cui ci espone il mondo mediatizzato è che tutto sia importante e che l’autore dovrebbe dire la sua sempre e comunque, poi però ci si guarda indietro dopo pochi anni e si conserva solo un ricordo sbiadito dei temi centrali del dibattito pubblico. Ogni scrittore dovrà in qualche modo confrontarsi con questi problemi e trovare una propria via. Perché se il ruolo dello scrittore è rimasto lo stesso, il mondo tutto intorno è cambiato e richiede risposte di cui si disinteressa una volta appagata la curiosità. Fonti immagini: einaudi.it
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Febbraio 2023
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