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19/10/2020

Marta e la storia poco raccontata

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di Enrico Esposito

"Mare giallo" piacerebbe molto a Giorgio Gaber. Per ragioni diverse. L'importanza delle tematiche sociali e umanitarie, il ruolo significativo della musica, le tante maschere indossate dalla sua indemoniata protagonista. Si chiama Marta, Paganelli di cognome e Pisa nella nascita e nella carriera preziosa di attrice e sceneggiatrice di teatro, tra le schiere de La Ribalta in stanza al Teatro Lux e le collaborazioni attive con il Teatrino dei Fondi di Fucecchio. In un sabato sera "appeso" dinanzi alle disposizioni ministeriali anti-Covid il suo "Mare giallo" ha estraniato l'intera sala del Teatro Nuovo indorando una pillola amarissima e colpita da un'indifferenza secolare.
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T-shirt e jeans, la protagonista dello spettacolo sale sul palco trasmettendo già dal portamento il dinamismo che caratterizzerà il suo racconto. La accompagnano una sedia, una valigia e un'altra persona, in piedi sul lato sinistro della scena, appostata dietro a bidoni e percussioni. Lui è Pietro Borsò, che fungerà da fondamentale interlocutore, "Grilla parlante" e direttore di un orchestra anticonvenzionale, risuonante di sacchette di riso, scrosci d'acqua, colpi di nocche. La rappresentazione non si apre in "medias res". Un vivace preambolo meta-teatrale è necessario per poter arrivare a comprendere che cosa sia il mare giallo di cui parla il titolo e Marta intenda spiegare con la forza della sua consapevolezza. Dunque osserviamo e soprattutto viviamo con solidarietà nell'antefatto  le ansie tipiche di una consueta quotidianità: a partire dalla sveglia messa alle 6:50 per poi essere posticipata fino alle 10:00, il rito dello scroll veloce (che poi ma unico e veloce non è) delle notifiche social e della colazione, le infinite distrazioni che possono derivare dal trovarsi in casa. Marta descrive in un climax esilarante il backstage della sua attività di scrittura, un dramma che raggiunge il culmine nel momento in cui sta si siede finalmente al computer per iniziare il suo nuovo progetto di spettacolo ma la scoperta di un appuntamento fissato di lì a dieci minuti lascia partire l'ennesimo "merda" della giornata. Ma proprio quell'incontro non procastinabile lascia scoccare nella sua mente una scintilla solida, dalla quale si dipana un cammino spaziale e mentale affrontato dalla protagonista in un nutriente scontro tra sarcasmi, ripensamenti e liberazione, che diventerà spontaneamente il suo nuovo spettacolo.
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Marta ha infatti intrapreso nella vita al fuori del palcoscenico un viaggio autentico, di alcune settimane. Non una vacanza di piacere. Niente alberghi di lusso, cocktail in riva al mare, visite a musei spettacolari. La sua meta è un luogo praticamente recintato: da una parte l'immensità sabbiosa del Sahara, il mare giallo per l'appunto, che si mostra ai suoi occhi per la prima volta di notte sotto l'aspetto di un'immensa distesa nera. Dall'altra, un muro lungo 2720 km, per estensione al mondo inferiore solo alla Grande Muraglia Cinese, "rinforzato" da un campo minato dalla smisurata capienza, eretto nel corso degli anni Ottanta dal Marocco per "difendersi" dagli atti di guerriglia attuati dal Fronte Polisario, il movimento politico sorto per difendere il diritto all'indipendenza della popolazione dei Saharawi. I Saharawi sono un'antichissima civiltà di stirpe arabo-berbera sorta intorno al VII secolo a.C nella regione del Sahara Occidentale, territorio ricco di fosfati e per questa ragione oggetto di conquista prima ad opera dei coloni spagnoli, e a seguito del Marocco che grazie alla marcia verde del 1975 ottenne lo sgombero da parte dei militari europei e poté avviare la sua veemente invasione. Nonostante i Saharawi avessero istituito la RASD, riconosciuta da 87 stati membri dell'ONU, l'esercito marocchino aveva continuato a portare avanti le proprie azioni belliche costringendoli ad abbandonare il versante occidentale del deserto per ripiegare a est, nei campi profughi che ancora oggi li ospitano tra tendopoli e primordiali fabbricati di lamiere privi di acqua ed elettricità. Insieme ad altri volontari dalle marchiate età e motivazioni, Marta prepara la sua valigia ma evidentemente non è pronta. Il grillo parlante al suo fianco si inserisce furbescamente nei suoi pensieri, mettendo a nudo il fatto che non solo non abbia ben presente la sua destinazione, ma soprattutto la mancanze di un motivo vero che la spinga a partire. Lei non può fare altro che confermare i dubbi che la attanagliano ma anche la certezza assoluta che non può rinunciare a questa decisione.
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Il viaggio allora comincia avvolto nelle tenebre della notte maghrebina, sulla scorta delle milizie saharawi al riparo dal pericolo di rapimenti, in direzione di Tindouf, la città algerina nei cui pressi si erige la tendopoli abitata dai profughi costretti ad abbandonare la loro terra ad occidente. I volontari vengono accolti da Fatma, che farà da interprete e guida alla scoperta di una cultura e di una quotidianità nei confronti delle quali Marta vive momenti contrapposti di incontro/scontro. L’esperienza nei campi mescola infatti componenti radicalmente lontane dell’esistenza: da una parte il viscerale attaccamento dei Saharawi alle tradizioni conviviali, il rilievo della recente memoria politica e civile, l’accettazione della perenne indifferenza dimostrata dall’ONU stessa nei confronti della loro situazione di prigionia. Dall’altra il desiderio di poter introdurre tra la propria gente granelli raccolti dalla scoperta in prima persona della società italiana, che Marta inaspettatamente giunge a ritrovare nel deserto: Tinder utilizzato da Fatma per conoscere il suo fidanzato, la pizzeria aperta da una giovane donna che aveva iniziato cuocendo le pizze in un piccolo fornetto. Impreparata a imbattersi in tali esperienze, Marta reagisce nella maniera più autentica, ossia manifestando una catena di sentimenti che si alternano più di una volta dentro di sé. Dalla tranquillità respirata in un luogo isolato, alla difficoltà di adattamento agli usi e costumi locali, come la mancanza di privacy anche all’interno degli alloggi, ai ritardi infiniti delle allieve del suo corso di teatro, alla convinzione da parte di alcune persone di condurre una vita felice nella situazione che stanno convivendo. Con spietata schiettezza e sarcasmo Marta registra alcuni episodi nell’atto di scrivere il suo diario, sottolineando tuttavia anche il fascino innegabile della fermezza dei Saharawi e la soddisfazione di poter rendersi protagonista di uno scambio profondo con i rappresentanti di un’altra cultura. Così allora ne viene assorbita, ricordando gli insegnamenti ricevuti anche attraverso il canto di brani popolari saharawi (dalle iniziali musiche scanzonate e mainstream si è verificato un deciso passaggio al sapore di suoni prodotti dalla natura e dalla tradizione del popolo africano) e l’ultima sentita riflessione che chiude il suo memoriale. Più che una narrazione, questa consiste in un fotogramma. Accingendosi ad affrontare il viaggio di ritorno in Italia, Marta fa la conoscenza di un bambino di appena cinque anni che partirà con lei. Non è la prima volta che compierà questo viaggio, anzi è costretto a ripeterlo adesso, come molte altre volte a causa della malattia. Il suo è un biglietto di andata e ritorno sospeso: non sa quanto tempo dovrà trascorrere lontano dalla sua famiglia, tantomeno se potrà riabbracciarla. Il suo sguardo sorvola però tutto questo e trasmette il senso più alto del dono della vita.

Immagini gentilmente fornite dall'Ufficio Stampa del Teatro Nuovo, eccetto per l'immagine 2 tratta da teatrinodeifondi.it

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