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26/5/2021

Non abbiamo mai letto Dante

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di Tommaso Dal Monte
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Titolo provocatorio, da interpretare, ma in buona sostanza esatto. Per gli addetti ai lavori non è certo una notizia, ma forse in questo anno dantesco non è stato concesso abbastanza rilievo ad un dato di fatto: che non conserviamo alcun testo, o frammento di testo, scritto direttamente da Dante Alighieri. Mi sono accorto in questi mesi, parlando con amici, che questa rivelazione suscitava sempre grande stupore e reazioni che andavano dal complottismo letterario – come facciamo a sapere che la Divina Commedia sia stata scritta da Dante, se non ne possediamo gli originali? ‒ a quello ontologico – ma allora Dante è esistito davvero?
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In filologia, la disciplina che si occupa della ricostruzione dei testi in mancanza degli originali, si definiscono autografi i testi scritti direttamente dall’autore. Come detto, di Dante non possediamo alcun autografo: né della Commedia, né delle altre opere come la Vita Nova, il Convivio, il De vulgari eloquentia o le Egloghe, e nemmeno una delle carte ufficiali che Dante deve aver redatto quando svolgeva incarichi politici a Firenze o nelle città dell’esilio. La mancanza di autografi è uan situazione comune per tutti gli autori classici e per la maggioranza dei medievali – anche se, ad esempio, possediamo autografi petrarcheschi e boccacciani – e lo scopo della filologia è proprio quello di ricostruire, basandosi sulle testimonianze conservate, un testo quanto più simile alla volontà dell’autore. Ma come ricostruirlo?  
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 Da sinistra verso destra Codice degli Abbozzi e Hamilton 90

Il filologo deve raccogliere i testimoni, cioè tutte le copie che trasmettono il testo e che non sono mai uguali l’una all’altra, confrontarle tra loro secondo metodi assai precisi e, in modo induttivo, restituire un testo che mira ad essere quanto più simile all’originale. Il metodo però non è del tutto meccanico e possono essere compiuti errori, scelte diverse da parte dei filologi, preferenze accordate all’uno o l’altro testimone: in tal modo risulta impossibile affermare con certezza che il testo che stiamo leggendo corrisponda perfettamente a quello realizzato dall’autore. Teniamo poi presente – ed è il caso di Dante ‒ che, fino all’invenzione della stampa da parte di Gutenberg a metà ‘400, i testi erano realizzati e diffusi solo in forma manoscritta, il che implicava un grandissimo numero di differenze tra un esemplare e l’altro, poiché il copista, vuoi per distrazione vuoi per altre ragioni intenzionali (modernizzare la lingua, assimilare la lingua del testo a quella del proprio uso, censure o interventi ideologici…), non poteva non modificare il testo da cui stava copiando.
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La tradizione testuale dantesca è ricchissima di testimoni, soprattutto per quanto riguarda la Divina Commedia, segno della vasta e precoce diffusione del testo. Essa conta di quasi ottocento manoscritti, molti dei quali risalenti già alla prima metà del Trecento. Il testimone più antico della Commedia è un frammento che riporta appena tre versi (precisamente Inferno III, vv. 94-96) datato 1317, dunque addirittura precedente alla morte del poeta. I tre versi infernali furono trascritti da un notaio, ser Pieri degli Useppi da San Gimignano, in margine ad una sentenza giuridica per occupare la parte finale del foglio, in modo che nessuno potesse intervenire posteriormente per modificare il contenuto del documento: raccolto insieme ad altri frammenti, esso fa parte dei così detti Memoriali bolognesi. Il gran numero dei testimoni e la loro diversità, sia per la veste linguistica, sia per il contenuto dei singoli passi, ha reso assai difficile il lavoro di ricostruzione testuale, in cui si sono cimentati alcuni tra i più grandi filologi italiani. La versione attualmente più diffusa del testo è quella curata da Giorgio Petrocchi nel 1966-1967, La Commedia secondo l’antica vulgata, della quale, fin dal titolo, si comprende la scelta filologica adottata, cioè quella di scegliere e confrontare solo i testimoni più antichi ‒ precisamente quelli anteriori a Boccaccio, che di Dante fu grande studioso ed editore.
Foto
Trivulziano 1080

La mancata conservazione degli autografi danteschi non può certo dirsi un mistero, viste le condizioni di vita del poeta fiorentino, costretto a spostarsi frequentemente in Italia per via dell’esilio che lo colpì all’alba del ‘300. La stessa vasta circolazione della Commedia, probabilmente diffusa a gruppi di alcune decine di canti mano a mano che l’opera veniva allestita, deve aver favorito la copiatura del testo, elemento che, alla lunga, ha reso meno necessaria la conservazione degli originali. Sicuramente, fino ad un certo momento gli autografi sono esistiti, prima di essere andati distrutti, perduti o dimenticati. Alcuni aneddoti sui manoscritti danteschi della Commedia sono riportati da Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, una biografia e introduzione alle opere del poeta fiorentino, e nella Esposizioni sopra la Comedìa, una raccolta di lezioni tenute da Boccaccio sulla Commedia. In entrambi i testi si racconta prima del fortunoso ritrovamento dei primi sette canti dell’Inferno, realizzati da Dante prima dell’esilio e rimasti a Firenze in uno scrigno, nascosto Gemma, la moglie di Dante, durante le razzie ai beni del poeta; poi del sogno in cui Dante apparve al figlio Iacopo per indicargli il luogo in cui erano riposti gli ultimi canti del Paradiso, apparentemente perduti.
Insomma, la storia degli autografi danteschi nasce all’insegna del mito e dell’avventura: è un argomento che non smette di affascinare e tiene viva la speranza, o forse il desiderio, che, un giorno, possa compiersi il favoloso ritrovamento.

Immagini tratte da:
​Immagine 1: Studio P. Crisostomi
Immagine 2: Arte e Arti
Immagine 3: Biblioteca Trivulziana Castello Sforzesco   ​

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