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23/1/2021

Ora e sempre ricordare la Shoah: Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza

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di Tommaso Dal Monte
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Mercoledì 27 gennaio si celebrerà la Giornata della Memoria, in ricordo dell’ormai settantaseiesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Tra le molte commemorazione di cui si costella il calendario, la Giornata della Memoria ha un particolare impatto emotivo: troppo grandi sono state le sofferenze subite da milioni di esseri umani, sconfinata la metodica precisione omicida perpetrata non da un gruppo criminale, ma da uno stato nazionale.
Probabilmente per elaborare l’evento, intorno alla Shoah è nata una letteratura memorialistica, romanzesca e storiografica che non ha eguali, a testimonianza di un massacro che rimane unico nella storia. Un motivo che accomuna tutti i testi sulla Shoah è il richiamo emozionale che suscitano nel lettore. Credo che la chiave per affrontare questo trauma non sia il tentativo di analisi razionale, ma proprio l’immersione emotiva nel dolore altrui, volta ad una compassione che si configura come un rispettoso esercizio morale. La conoscenza di cui anche Primo Levi parla ‒ «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario» ‒ è inclusa in questa operazione, giacché non si dà conoscenza, non questo tipo di conoscenza almeno, senza dolore.
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 Tra i tanti testi possibili, ho scelto di parlare di Perché gli altri dimenticano, il memoriale scritto da Bruno Piazza, ebreo triestino sopravvissuto ad Auschwitz, edito per la prima volta nel 1956. La testimonianza è stata scritta nei mesi immediatamente successivi alla liberazione dal campo di concentramento per non essere più riveduta e corretta, dato che Bruno Piazza è morto nel 1946.
Già il titolo indica le intenzioni dell’autore e chiarisce il senso, nonché la forma, dell’opera: chi scrive lo fa perché gli altri, cioè coloro che non hanno vissuto l’esperienza del lager, dimenticano o dimenticheranno. Il testo nasce per questa causa e, a sua volta, cerca di contrastarla: a fronte di un probabile oblio si redige un «documentario» ‒ come Piazza definisce l’opera ‒ affinché Auschwitz non venga dimenticato. L’autore non teme che si perda la memoria di sé in quanto vittima, ma l’esperienza coercitiva, vessatoria e in ultima analisi concreta della vita nel campo. Per questa ragione la narrazione non è incentrata sulla sua personale esperienza di deportato o sulle sue riflessioni, ma sui tanti dettagli oggettivi – organizzazione gerarchia e spaziale del lager, pasti, punizioni, organizzazione del lavoro… ‒ che scandivano la vita ad Auschwitz.
Coerentemente con la sua funzione, il documentario adotta uno stile prevalentemente impersonale, con un tasso di figuralità ridotto al minimo. È tuttavia notevole sottolineare, anche alla luce degli esiti in Primo Levi, come spesso venga evocato l’immaginario infernale dantesco per rendere pensabile la vita nel campo. Così la condizione delle latrine e degli addetti alla pulizie è paragonata a quella della bolgia dei lusingatori e adulatori, mentre l’oggetto dell’opera è così inverosimile che, quasi a scusarsi con il lettore e allo stesso tempo per rivendicare la necessità del suo parlare, Piazza prende in prestito i versi con cui Dante anticipa la presentazione del mostro Gerione («Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna | de’ l’uomo chiuder le labbra quant’ei puote | però che senza colpa fa vergogna»).
Il testo scorre in maniera tristemente nota tra soprusi, punizioni arbitrarie, rituali di metodica ma incomprensibile precisione (le docce, l’appello), la salvezza guadagnata da Piazza, deportato quando aveva già quarantasei anni, per una serie di scelte fortuite e per il fatto di essere stato internato come prigioniero politico.  

 Un’analisi formale più approfondita di un testo documentario non avrebbe molto senso, anche perché il memoriale non nasce per un fine estetico, ma conoscitivo. Tuttavia due considerazioni sono doverose: studiare come funziona un testo è importante per capire l’intenzione del suo autore e porsi in modo costruttivo di fronte ad esso. Inoltre, anche se è problematico dirlo, le vittime non sono le migliori interpreti delle vicende che le hanno coinvolte. Ma se, come detto, riteniamo che l’approccio più appropriato alla Shoah sia quello emozionale più che quello estetico-razionale, ogni testimonianza ha un intrinseco valore basato sull’atto stesso del raccontare. In questo modo il genere letterario della memorialistica si trova nel particolare statuto del non poter produrre che opere letterarie di valore, o almeno che adempiono la propria funzione emozionale.

  Immagini tratte da:
-Immagine non coperta da copyright
-Immagine 2 da Amazon.it  

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