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6/1/2017

Strange Fruit alla cerimonia di insediamento di Trump?

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di Alice Marrani

I mandati di Barak Obama furono inaugurati dalle voci di artisti del calibro di Aretha Franklin, Bruce Springsteen, Bono, Mariah Carey. Essere invitati alla cerimonia di insediamento del presidente degli Stati Uniti è certamente un grande onore ma anche una grande responsabilità artistica. Il 20 gennaio Donald Trump entrerà ufficialmente alla Casa Bianca ma c’è ancora incertezza sui nomi di chi accetterà di prestare la propria musica alla cerimonia. Troppo rischioso associarsi ad un personaggio così controverso nell’opinione pubblica mondiale, tanto che a pochi giorni dalla cerimonia i dubbi sono ancora  tanti e i rifiuti si accumulano uno sull’altro. È di pochi giorni fa il tweet di Rebecca Ferguson, seconda classificata ad X Factor UK nel 2010. La carriera in ascesa e una richiesta: sì a Trump ma solo se potrà cantare Strange Fruit.
"Una canzone di immensa portata storica, una canzone reputata talmente controversa da esser stata bandita negli USA. Una canzone che parla a tutti i non-bianchi trascurati e oppressi negli Stati Uniti. Una canzone che ci rammenta quanto l'amore sia l'unica cosa che vincerà tutto l'odio che c'è in questo mondo, allora accetterò gentilmente il vostro invito e ci vedremo a Washington."
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La prima volta che Billie Holiday cantò questa canzone era il 1939. Era l’anno di Via col vento, ma la storia d’amore contornata dalla pacifica convivenza fra le popolazioni nere e i bianchi del Sud non corrispondeva alla realtà. Tempo prima, Abel Meeropol, un insegnante del Bronx, aveva scritto una poesia che conteneva tutto l’orrore dei linciaggi verso gli afro americani, al tempo ancora esistenti. L’aveva pubblicata sotto lo pseudonimo di Lewis Allan e ora era lì, nel repertorio della cantante, pronta per il pubblico di New York. Billie aveva ventiquattro anni e una vita tormentata dalla violenza. Suo padre era stato ucciso dalla polmonite che nessun ospedale aveva voluto curargli in tempo, il razzismo era una realtà quotidiana che anche lei sopportava sulla propria pelle ogni giorno. Era nel Cafè Society di New York, l’unico club che consentiva un pubblico misto di neri e bianchi e aveva paura di non rendere il senso del brano e che questo non sarebbe piaciuto. “Southern trees bear a strange fruit, blood on the leaves and blood at the root, black body swinging in the Southern breeze, strange fruit hanging from the poplar trees”.
I corpi che penzolano dai pioppi come in quella foto che probabilmente aveva sconvolto Abel Meeropol e che lo aveva portato a scrivere di ciò che ancora accadeva. La sua voce, che raccontava con cruda esattezza ogni parola, riempì la sala.    
Quando la canzone finì calò il silenzio: “mi venne il sospetto di aver fatto un grosso sbaglio e che forse era meglio che non l’avessi cantata. Alla fine del pezzo non accadde nulla, non ci fu neppure un briciolino di applausi, non il più leggero brusio. Poi attaccò un isolato a battere timidamente le mani e in un attimo gli applausi scrosciarono giù da tutte le parti”.

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È quel momento di muto stupore che la canzone si è trascinata dietro per anni, quella timida paura di iniziare un applauso, il ripercuotersi di un sonoro e pesante schiaffo. La Columbia Records si rifiutò di registrarla, fu così pubblicata dalla Commodore Records, una piccola casa discografica di New York. Non poteva essere cantata ovunque ma diventò uno dei dischi più famosi di Billie Holiday e tutt’oggi legato indissolubilmente al suo nome.  
Un brano di denuncia intriso dello spirito di protesta che anche nei decenni successivi rimase immerso in una sensazione di timore, sia in altri interpreti che nelle radio, causato da quel porre in modo terribilmente crudo alla luce del sole i lati oscuri della società. Un primo grido esplicito contro il razzismo che dalla voce evocativa della cantante è rimasto impresso nella cultura americana e mondiale come esempio del potere che l’arte e la musica possono avere nell’innescare difficili e contrastati processi sociali.   
Nell’autobiografia di Billie Holiday si può leggere: “attraverso gli anni mi sono trovata in una quantità di fatti curiosi per via di questa canzone. In un certo senso mi serviva a distinguere la gente veramente in gamba da quella col cervello bacato”.



Per anni è rimasta in un limbo: troppo impegnata, troppo politica, troppo difficile da poter interpretare ponendosi al posto di colei che l’ha incisa la prima volta. Una delle poche che ci ha provato è stata Nina Simone e negli ultimi anni tanti hanno dato nuova voce al brano di Meeropol: Sting, Dee Dee Bridgewater, Tori Amos, Cassandra Wilson, Annie Lennox ed altri. Quello di Rebecca Ferguson è un invito che non sappiamo se sarà accolto. Certo è che Strange Fruit rimane uno dei brani americani più politicamente significativi, capace di segnare profondamente e di lasciare alla sua conclusione, come quella prima volta, un attimo di sospeso silenzio in grado di scuotere qualsiasi anima.

Fonti:
https://twitter.com/RebeccaFMusic
Billie Holiday, La signora canta il blues

Immagini tratte da:
-https://twitter.com/RebeccaFMusic
-https://commons.wikimedia.org/wiki/File%3ABillie_Holiday%2C_Downbeat%2C_New_York%2C_N.Y.%2C_ca._Feb._1947_(William_P._Gottlieb_04251).jpg William P. Gottlieb [Public domain], via Wikimedia Commons

 
 

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