di Carlo Cantisani ![]()
Non deve essere completamente semplice per una band come gli Alice In Chains restare a galla nella scena musicale contemporanea. E non sono tanti i gruppi che, seppur avendo alle spalle la stessa lunga storia, possono tranquillamente affermare di mantenersi su livelli musicali, se non proprio eccelsi, quanto meno buoni e/o decenti. Rainier Fog, quindi, potrebbe essere visto come un gesto di sfrontata cocciutaggine e anche - e soprattutto - di personale resistenza al passare del tempo. Con buona pace di chi vede le reunion come un’occasione per gli artisti di portarsi a casa un generoso assegno dalla loro etichetta discografica per imbracciare di nuovo gli strumenti. Perché, comunque la si voglia pensare, fare tre dischi “vecchio stampo” come il terzetto post-reunion Black Gives Way To Blue, The Devil Put Dinosaurs Here e quest’ultimo Rainier Fog, avulsi da tutto ciò che la scena continuamente vomita sulle orecchie degli ascoltatori e risplendenti di una luce tutta loro, senza perdere un grammo della propria identità costruita in trent’anni di carriera, è un atto di rispetto e di amore verso la propria musica.
Ascoltando questi tre dischi sembra che il tempo da quel lontano 1995, anno dell’ultimo omonimo full in studio, non sia passato per niente, senza lasciare tracce evidenti. Nonostante la tragedia di due perdite in seno alla band, nonostante i problemi di droga e alcol che chi è rimasto si porta ancora dietro, come un’ombra. E proprio all’omonimo album di 23 anni fa, Rainier Fog rimanda in più di un’occasione. La sua influenza aleggia lungo le dieci tracce del nuovo disco, e chiama in causa anche la produzione discografica solista di Jerry Cantrell, in particolare quel meraviglioso Boogie Depot del 1998 (non a caso molte tracce finite nel disco del chitarrista erano state scritte all’epoca per l’omonimo del ‘95). Un riallacciare vecchi discorsi, un mezzo ritorno a casa: ‘mezzo’ perché, volenti o nolenti, il grunge, gli anni ’90, le camicie di flanella e tutto l’immaginario che quell’epoca ha costruito intorno ai suoi protagonisti non potranno essere rimessi in piedi, mai più. E di questo sono consapevoli in primis proprio gli Alice In Chains, proprio coloro che, insieme a tanti altri, hanno contribuito al mito, a tramandarlo e alla sua (auto)distruzione. È nel vuoto lasciato dall’altra metà che si può porre il lavoro degli Alice In Chains (versione 2.0? Un po’ esagerato forse) attuali e della loro ultima opera. Rainier Fog conferma ciò che molti avevano cercato - in cuor loro e disperatamente - di scongiurare sin da quella specie di ottimo “reboot” del 2009: la pedissequa riproposizione di ciò che fu un tempo e che ora non potrebbe, per forza di cose, più essere. La forza di questi Alice In Chains sta proprio in ciò, nel suonare familiari come sempre ma senza essere la copia sbiadita e posticcia della band di Facelift, Dirt e Jar of Flies. Conseguire quest’obiettivo per la terza volta, dopo essere stati assenti dalle scene per tanto tempo, è già grandioso di per sé. Se poi ci mettiamo delle canzoni che nulla hanno da invidiare ai classici del gruppo per impatto, melodia, coinvolgimento e, in generale, scrittura, allora si è di fronte, forse, a qualcosa di unico. Per chi idolatra i ‘90s del grunge si potrebbe tirare in ballo il fatto che buona parte di Rainier Fog sia stato registrato nella loro Seattle, presso gli Studio X, oltre che nello studio privato di Cantrell. Si potrebbe, ma questo riguarderebbe sempre e solo quella solita narrazione che tira in ballo il passato solo quando fa comodo per idolatrarlo. Basta parlare di grunge, fenomeno dai contorni poco definiti, calderone nel quale è stato gettato dentro tutto e di più e che, a parte qualche notevole eccezione (Melvins su tutti), dal punto di vista musicale è stata una corrente molto passatista. Gli Alice In Chains, ormai, sono solo gli Alice In Chains: consapevoli del loro passato – come ad esempio fanno nella title-track, dove tributano la vecchia scena della loro città – e ben piantati nel presente, grazie a un cantante e chitarrista, William DuVall, che, come già dimostrato nei due dischi precedenti, non tenta mai, neppure per un secondo, di imitare QUELLA voce e QUELLA STESSA delicata disperazione. Un omofono, com’è giusto che sia per non perdere una parte assolutamente fondamentale dello stile Alice In Chains, ma non di certo una copia. A tutto il resto pensa Jerry Cantrell, un chitarrista ancora oggi troppo sottovalutato. Un uomo che, in disparte e senza fare tanto clamore, sembra essere devoto in tutto e per tutto alla sua band. In ogni riff e in ogni assolo degli Alice In Chains post-reunion si può percepire la stessa atmosfera, ora cupa, ora delicata e malinconica, di un tempo, ma con in più una spiccata maturità. La consapevolezza, forse, di chi ne ha passate tante, troppe, e che sa che l’unico modo rimastogli per esorcizzare tutta questa dannata storia è attraverso la musica. In Rainier Fog, infatti, il lavoro di chitarra è tremendamente certosino, mai esagerato e lasciato al caso. La strumento di Cantrell scava nei pezzi come un artigiano nella pietra e nel legno, come nella pesante e quasi metal Red Giant, con quella tipica cadenza lenta, dondolante, strascicata e piena di blues come in Drone, o, ancora, come il riffing più aperto e diretto, tipicamente rock, della title-track. Neanche la produzione aggiornata ai tempi, che rischia in alcuni frangenti di avvolgere l’album in una patina troppo fredda, riesce a scacciare quel retrogusto psichedelico e acido che ha sempre accompagnato il suono della sua chitarra. Cantrell, che canta anche in molti pezzi insieme a DuVall, crea quel giusto ambiente dove far risuonare appieno la sua voce e quella del suo compagno di band, quest’ultimo vero e proprio asso nella manica del gruppo, lasciando anche adeguato spazio alla sezione ritmica di Mile Inez e Sean Kinney, come al solito robusta, compatta e grezza il giusto. Grazie a questi elementi, Ranier Fog fila via tutto d’un fiato senza neanche accorgersene, arrivando alla fine dove ad attendere c’è il terzetto costituito da So Far Under, Never Fade e All I Am, probabilmente i pezzi migliori del disco. In generale, però, si percepisce come tutti i brani cavalchino la stessa linea d’onda rispetto a The Devil Put Dinosaurs Here, dove sono presenti pezzi come Hollow o Stone e dove era più facile affezionarsi a un brano rispetto a un altro; inoltre non gode dell’effetto sorpresa di cui invece ha beneficiato Black Gives The Way To Blue al momento della sua uscita. Ma è anche vero che la forza di Rainier Fog sta nella sua compattezza: si preme play e non lo si toglie più se non quando si arriva alla fine, assicurandosi ripetuti ascolti. E alla fine, riuscire a farsi ancora ascoltare e amare nel 2018, per una band di lunga data come gli Alice In Chains, non è un dato per niente scontato. Il mestiere, quando è accompagnato dalla credibilità, paga, riuscendo a convincere anche i più scettici. Alice In Chains – Rainier Fog (BMG, 2018)
Immagine tratta da: soundlab.com
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Marzo 2023
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