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24/1/2019

Musicalbox Gennaio 2019 // I candidati come miglior colonna sonora agli Oscar 2019

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di Carlo Cantisani
Il mondo dello spettacolo scalda i motori in vista della novantunesima edizione degli Academy Awards, la notte in cui verranno assegnati i famigerati premi Oscar americani. L’appuntamento è per il prossimo 24 febbraio (in Italia il giorno seguente), e non stanno mancando sin da ora le polemiche per alcune scelte riguardanti l’inserimento di titoli quali Bohemian Rhapsody, Black Panther e A Star is Born fra i nominati per i premi più ambiti – quello per miglior film in primis. Polemiche ingenue visto che sembrano non tenere conto che si parla pur sempre di quella macchina da soldi e celebrità targata Hollywood. Se la scelta di A Star is Born è da un certo punto di vista comprensibile, in quanto appartenente ad un filone di storie molto caro alla tradizione hollywoodiana (il film con Lady Gaga è la quarta versione di un film del 1932 dall’emblematico titolo A che prezzo Hollywood?), gli altri due costituirebbero per i cinefili la pietra dello scandalo poiché prodotti meramente commerciali, “indegni” di concorrere insieme a pellicole come Roma, Blackkklansman o La Favorita. Black Panther, in particolare, segna l’esordio per il Marvel Cinematic Universe nella categoria miglior film, dimostrando ormai l’enorme peso che il brand Disney sta sempre più imponendo nel mondo dell’intrattenimento. Ma questa pellicola chiama in causa anche un altro aspetto, quello politico e sociale - al quale l’ambiente liberal di Hollywood non è mai stato estraneo - incarnato questa volta dalla questione “black”, quella riguardante gli afroamericani e la loro rappresentazione negli Stati Uniti di oggi, dopo le polemiche delle passate edizioni. Proprio questa caratteristica sembra essere stata condivisa nella scelta dei candidati per la migliore colonna sonora degli Oscar 2019: su cinque titoli, tre riguardano o chiamano in causa proprio gli afroamericani. La scorsa edizione dei premi aveva visto Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead e outsider dell’ambiente hollywoodiano, concorrere per la statuetta per la miglior colonna sonora grazie al suo lavoro su Il Filo Nascosto, nonostante ci fossero concorrenti più noti, con candidature di più lungo corso; gli Academy musicali del 2019 continuano su questa strada e il risultato è, forse per la prima volta dopo svariati anni, un gruppo di nomi più vario e meno monopolizzato rispetto ai soliti noti (come ad esempio Hans Zimmer, John William, Thomas Newman), riflettendosi anche sotto il profilo meramente musicale. Una piccola, bella sorpresa, che potrebbe far riflettere sul ruolo alquanto marginale nel quale è stato relegato il premio come miglior colonna sonora, che sebbene riscuota l’interesse soprattutto degli addetti ai lavori, non ha nulla da invidiare ad altri riconoscimenti (come per il miglior film, miglior regia e miglior attore e attrice protagonista). D’altronde, il sonoro e, in particolare, la musica hanno completamente rivoluzionato il cinema: una manifestazione nota come gli Academy Awards dovrebbe ricordarsene più spesso.
Foto
Terrence Blanchard – Blackkklansman
Blackkklansman, ultimo film di Spike Lee, è indubbiamente la testa di ponte per la questione afroamericana portata sotto i riflettori degli Oscar di quest’anno, e non potrebbe essere altrimenti vista la centralità delle problematiche razziali negli Usa sviluppata all’interno della poetica del cineasta di Atlanta. Ad accompagnarlo ancora una volta, ma alla sua prima candidatura per gli Academy, c’è Terrence Blanchard, trombettista e jazzista di lungo corso, almeno dagli anni ’80, da quando cioè ha dato inizio la sua carriera con i seminali Jazz Messengers di Art Blackey per poi raggiungere in seguito il successo internazionale e i giusti riconoscimenti, non solo commerciali. La colonna sonora di Blackkklansman è l’ennesima testimonianza del sodalizio con Spike Lee, portato avanti dal 1991, anno di uscita di Jungle Fever, e che per l’occasione sfodera una musica divisa fra orchestrazioni eleganti ed avvolgenti, dal sapore quasi retrò, e alcune incursioni orientate sul funk, grazie all’uso di chitarra, basso e batteria. Il risultato è fra l’epico e il drammatico.

Ludwig Goranson – Black Panther
Quale miglior strumento se non un cinecomic americano per lanciare prepotentemente al centro dell’attenzione mediatica la questione afroamericana? Black Panther segna un record per un film sui supereroi grazie alle sue sette candidature, fra cui rientra anche quella per la migliore colonna sonora, curata dallo svedese Ludwig Goransson. Compositore e produttore per l’ambiente rap (ha collaborato a tre album di Childish Gambino ed è tra i fautori del successo della hit This Is America dell’anno scorso), Goransson non è nuovo ai blockbuster, avendo lavorato alle musiche per i due Creed, ma nonostante ciò ha deciso di adottare per Black Panther un approccio diverso, che si potrebbe quasi etichettare come “sperimentale” nell’ambito delle colonne sonore marvelliane. Goransson ha infatti unito alla solita pomposa e magniloquente orchestrazione dei cinecomics, sonorità appartenenti alla tradizione africana, in particolare quella senegalese, affiancate dalla voce di Baaba Maal, cantante e chitarrista particolarmente noto in patria. Fra talking drum, tambin, un coro in lingua xhosa (una delle lingue ufficiali dell’Africa meridionale) e ritmi marziali e ossessivi, il risultato è intrigante, fermo restando quel senso di “esageratamente costruito” che accompagna ogni musica di questi prodotti. Alla fine lo sforzo è encomiabile nel suo volersi distaccare dal seminato, e sicuramente più riuscito della stessa pellicola che accompagna.



​Nicholas Brittell – Se la strada potesse parlare
Il giovane compositore di New York Nicholas Brittell non è nuovo all’approcciarsi a pellicole che trattano di storie riguardanti gli afroamericani (e a dire la verità non solo quelle, visto che ha composto anche le colonne sonore di Free State of Jones e di Vice, pellicola fra l’altro candidata a miglior film). A partire dal 2013 con 12 Anni schiavo e passando poi per la nomination di tre anni più tardi con Moonlight, si giunge ad oggi con Se la strada potesse parlare, dramma intimo e tragico tratto dall’omonimo romanzo del 1974 di James Baldwin. E così come il film scritto e diretto da Barry Jenkins, così pure le musiche di Brittell racchiudono dentro di loro tutta la tragicità della vicenda e la fragilità dei personaggi, senza però mai dimenticare di far trapelare un senso di forza e di rivalsa, grazie agli emozionanti crescendo degli archi ed alle ariose aperture melodiche che questi sanno creare. Una musica che fa del trasporto emozionale il suo centro, e che grazie al suo approccio volutamente minimale riesce ad ottenere il massimo con il minimo sforzo. Un accompagnamento perfetto per le immagini su schermo ma ugualmente godibile anche da solo.

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Alexandre Desplat – L’isola dei cani
Alla sua decima nomination, il francese Alexandre Desplat è il nome di più lungo corso in questa edizione degli Oscar. Dopo la vittoria dello scorso anno per le musiche dell’acclamatissimo La forma dell’acqua di Del Toro, il compositore ritorna in lizza per il premio come miglior colonna sonora con un altro film che ha riscosso parecchi elogi, L’isola dei cani di Wes Anderson (in corsa anche per la categoria miglior film d’animazione). Come per La forma dell’acqua, anche questa volta Desplat non rinuncia al suo senso del fantastico, con delle differenze che lo immergono in tutt’altra atmosfera, dai contorni più cartooneschi e che declinano volentieri nel farsesco. La peculiarità della colonna sonora sta, da una parte, nel contrasto fra la solennità delle percussioni marziali, dei cori baritonali da Grande Impero Giapponese e le ritmiche ossessive dei fiati e, dall’altra, nelle semplici melodie, divertite e infantili, che fanno capolino sopra questo insieme. Ascoltare la musica dell’ultimo film di Wes Anderson è quasi come osservare ipnotizzati un vecchio giocattolo rotto inceppato. Una musica che riesce a divertire divertendosi – che tributa anche Kurosawa con brani presi direttamente da I sette samurai e L’angelo ubriaco - un piccolo, imperfetto meccanismo dove ogni parte cozza con l’altra.

​Marc Shaiman – Il ritorno di Mary Poppins

Dopo Desplat, è Marc Shaiman l’altro grosso nome in gara per la migliore colonna sonora originale, un compositore a trecentosessanta gradi per quanto riguarda l’entertainment statunitense, attivo sia nel cinema che in tv e in teatro, soprattutto per le produzioni di Broadway. Quest’anno Shaiman ritorna sul grande schermo firmando un prodotto che più classico non si può, disneyano al cento per cento, ovvero Il ritorno di Mary Poppins. Trattandosi di un sequel ambientato venticinque anni dopo i fatti raccontati nel primo film, chi ama il classico del 1964 troverà, musicalmente parlando, tutte le caratteristiche che hanno reso popolare la storia creata dalla scrittrice inglese P. L. Travers. Parliamo quindi di melodie accattivanti, perennemente cangianti e dal tono quasi descrittivo, che si adattano alle varie situazioni del film e ai personaggi. Un’Academy Awards che non poteva puntare più sul sicuro di così.
Immagine tratta da: nerdmovieproductions.it

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10/1/2019

Faber

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di Enrico Esposito
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L'11 gennaio di questo anno Faber muore per la ventesima volta, mangiato dalla malattia un altro anno ancora. In più ci sono le lacrime di chi, come me, non l'ha conosciuto, o era troppo piccolo e privo di malizia per poter capire di cosa parlasse nelle le sue canzoni: e nei romanzi in cui narrava di meravigliose puttane, trasformandole in dame pittoriche. Non ho pianto, non me n'è importato nulla quando l'11 gennaio 1999, mentre aspettavo a tavola coi miei genitori che il pranzo fosse pronto, il Telegiornale aprì con la notizia della morte di un cantante che non conoscevo, perché non l'avevo mai visto in televisione. Infatti in televisione non si vedeva mai. Mica come Lucio Dalla, Ramazzotti, Zucchero! Nella mia mente di bamboccio Fabrizio De André non esisteva, e non ci restò certamente dopo quell'annuncio al telegiornale dell'una e mezza.La mia crescita insieme a De André avvenne solo più tardi, durante le medie, le superiori, l’università e la disoccupazione post-università… Mi sento fortunato ad essere nato con un'inclinazione naturale per l’italiano, e di conseguenza non dover compiere sforzi nell'apprezzare il fascino inconfutabile di canzoni come "Un malato di cuore", e provo una sensazione fantastica a starmene disteso sul divano in salotto o su un muretto con una spiga di grano in bocca oppure arrendendomi al sonno, lasciando che le parole e le melodie di "Marinella" e di "La Canzone dell'Amor perduto" si uniscano armonicamente in una magnifica sinfonia. E accurate sono le covers che omaggiano gli chansonniers d'oltralpe George Brassens e Jacques Brel, o i folksingers americani Leonard Cohen, Bob Dylan, fenomeni assoluti che con le loro intuizioni divine regalano la vera bellezza al proseguimento della vita. La più grande traduttrice italiana di cui io abbia memoria, Fernanda Pivano, aveva ovvia ragione quando disse che Bob Dylan poteva essere ritenuto il Fabrizio De Andrè americano, e non viceversa.

​Ogni volta che per un attimo passo in rassegna tutte le opere che ha avuto il tempo di ultimare prima che ci lasciasse, l’unico confronto che dentro di me ritengo accettabile è quello con Leonardo Da Vinci. Faber, il genovese a cui piacevano le matite colorate Faber Castel, il terribile scavezzacollo nutritosi di un topo per una scommessa persa con Paolo Villaggio. Faber, cantore dall'insopportabile timidezza e dalla morale indecente, fautore di una lotta possibile e forte senza l'obbligo di fasce e bandiere. Faber, pastore sardo indiano, navigatore, amante cronico dell'amore. Faber filologo dei testi dimenticati per sempre dalla religione, e di quelli spilorciamente custoditi dai suoi conterranei. Faber, il Leonardo Da Vinci della musica.

Per approfondire:  il sito ufficiale è  
http://www.fabriziodeandre.it/
Immagini tratte da pagina facebook https://www.facebook.com/Fabrizio-De-Andre-46135857528/

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10/1/2019

La Flog omaggia Fabrizio De Andrè con una performance esclusiva della Via del Campo Tribute Band

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Auditorium Flog W LIVE – Via M. Mercati 24/b
venerdi 11 gennaio 2019 open 21.15/live 22.30
VIA DEL CAMPO Tribute Band in concerto
In occasione dei 20 anni dalla scomparsa del grande FABRIZIO DE ANDRE', una serata tributo per celebrarlo nel miglior modo possibile: con le sue indimenticabili canzoni.
  • INGRESSO € 10 / 7 rid
Foto
L'11 gennaio 1999 se ne andava per sempre uno dei più grandi cantautori italiani, FABRIZIO DE ANDRE', che con le sue canzoni ha impresso l'immaginario di varie generazioni.

Ed esattamente venerdi 11 gennaio l'AUDITORIUM FLOG W LIVE di Firenze vuole ricordarlo con una serata a lui interamente dedicata, con la Tribute Band VIA DEL CAMPO che per l'occasione eseguirà l'intera scaletta, con i relativi arrangiamenti, del tour che DE ANDRE' intraprese 40 anni fa insieme alla PFM e che ha segnato un apice e un punto di svolta epocale nel fare musica in Italia. SOLO per questo concerto la band VIA DEL CAMPO suonerà alcuni brani mai eseguiti prima, oltre a tutti i classici che propongono di solito. Inoltre sarà sul palco come settimo elemento della formazione anche la funambolica violinista Serena Moroni.

Quindi un lungo concerto, unico ed emozionante per celebrare la musica e la poesia del grande, inarrivabile artista, un viaggio sulla sua “cattiva strada”.
​

VIA DE CAMPO è una delle più conosciute De André Tribute Band; provenienti da esperienze diverse e con diverso background musicale, i componenti hanno l’eterogeneità necessaria per interpretare le molteplici sonorità del grande Faber, mettendo un pizzico della propria personalità nell’eseguire i brani pur rimanendo attenti a mantenere intatto lo stile e il sapore originali.
Segue HUGOLINI Dj Set

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4/1/2019

"New Horizons"- Brian May torna con un omaggio alla storia

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di Enrico Esposito
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Il 2019 musicale e non inizia con un'ottima novità. Sua Maestà Brian May a vent'anni di distanza dal suo ultimo album "Another World", datato 1998, ha pubblicato su Youtube il video di un suo brano inedito dal titolo di "New Horizons". Non sono state ancora raccolte indiscrezioni relative alla possibilità che il singolo in questione anticipi l'uscita di un nuovo lavoro per l'ex-Queen, anche perchè la genesi medesima di "New Horizons" appartiene a un evento di grande importanza avvenuto in ambito astronomico, che May ha seguito in prima persona in virtù di suoi interessi personali. "New Horizons" è infatti il nome di una sonda spaziale della NASA che è stata inviata circa dodici anni nello spazio con l'obiettivo di raggiungere il corpo celeste più lontano dell'universo, "Ultima Thule", un asteroide lontano 6,4 miliardi di chilometri dalla Terra. Noto come MU69 2014, l'oggetto speciale si situa all'interno della Fascia di Kuiper, una regione dello spazio immersa in un'atmosfera buia e gelida distante 1,6 miliardi di chilometri da Plutone. Le prime foto di "Ultima Thule" scattate da "New Horizons" ci presentano un "pupazzo di neve" della lunghezza di trentadue chilometri (come Washington) e della larghezza di sedici. 
Foto
La prima foto di "Ultima Thule" fornita dalla NASA

Cosa c'entra Brian May con tutto ciò? L'ex chitarrista di Freddie Mercury, che ha un dottorato in astrofisica, è affiliato al progetto "New Horizons", che nel 2006 è stato inaugurato con lo scopo di giungere a "pochi passi" dal corpo celeste più remoto sinora scoperto. Alle 6-33 italiane la sonda ha sorvolato "Ultima Thule" e confermato alcune ore dopo con una telefonata via radio il sensazionale traguardo. Come gli altri membri del progetto, May ha gioito a questa notizia e deciso di festeggiare presentando il brano in anteprima mondiale all'interno del quartier generale della NASA, nel Maryland. "New Horizons" è una riflessione a tinte rock scritta a quattro mani con il paroliere Don Black, che a partire dai successi della missione spaziale invia un messaggio di ottimismo e speranza che coinvolge l'intera vita dell'uomo. I nuovi orizzonti di cui parla il testo rappresentano delle mete non ancora conquistate ma per questo inseguite con maggiore forza. Non è assolutamente certo che le ipotesi, i sogni si possano effettivamente realizzare, ma d'altra parte l'uomo e il progresso che ha partorito grazie alla sua tenacia e intelligenza, consentono oggi di poter credere che la storia stessa dell'universo possa essere ripercorsa sino alle sue origini. "La canzone è diventata lo spirito umano che necessita di esplorare oltre i suoi orizzonti e andare oltre" ha rivelato May, che si è detto esaltato dal lancio della sonda tredici anni fa per la velocità mai vista prima da essa raggiunta, e ha paragonato la sua forma a quella di un gigantesco pianoforte a coda. E all'interno della traccia, ricreata mediante un sintetizzatore elettronico, è possibile ascoltare ad un certo punto la dichiarazione che Stephen Hawking, il grande astrofisico scomparso il 14 marzo dell'anno appena trascorso, rilasciò in omaggio al team di "New Horizons" nel luglio 2015, quando la sonda raggiunse Plutone. Storia raccontata nel fascino della musica. 


  Immagini tratte da :

- Immagine 1 da www.blastingnews.com
- Immagine 2 da twitter ufficiale NASA

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