di Enrico Esposito "Irlanda in Festa" è il nome con cui da circa dodici anni sono riuniti in un unico significativo festival tutti i concerti e le iniziative sul territorio nazionale volti a onorare al meglio le celebrazioni in onore del Saint Patrick's Day 2018 e lo spirito folk di tradizione millenaria che le pervade. L'Audiitorium Flog di Firenze ha recitato anche quest'anno la parte del leone all'interno di questa rassegna, con un calendario di tre appuntamenti nelle serate del 16, 17 e 24 Marzo. Tre appuntamenti dall'ottima risposta di pubblico che hanno visto alternarsi sul palco del club fiorentino nomi importanti del settore appartenenti al panorama italiano e non, che hanno servito al pubblico un menù articolato e spumeggiante, con l'obiettivo di dimostrare l'evoluzione in termini internazionali della ricerca nell'ambito della storia del folklore. Ma Irlanda in Festa non ha conquistato solo Firenze. Alla Flog le danze si sono aperte venerdì 16 marzo con un Jagger protagonista. Non Mick dei Rolling Stones ma uno di famiglia tuttavia. Chris Jagger, classe 1947, è infatti il fratello minore del vulcanico rocker, e dopo aver lavorato come giornalista e produttore per la BBC, ha imbracciato dagli anni '70 la chitarra per avviare una lunga carriera solista e in collaborazione con altri musicisti. Tra questi soprattutto il bassista e contrabbassista David Hatfield e la violinista Elliet Mackrell con i quali ha costituito il Chris Jagger's Acoustic Trio, una folk band apprezzata e incisiva accompagnata in alcuni suoi brani dai vocals di Mick e dai riffs di David Gilmour. Jagger jr. e soci hanno fatto tappa a Firenze nell'ambito del tour europeo di promozione al suo ultimo album "All the Best", rilasciato lo scorso anno. Un ensemble tradizionale per rendere omaggio alla festività irlandese, che ha lasciato posto nel corso della serata a un collettivo, stavolta italiano, e dal genere musicale più sperimentale e internazionale. Stiamo parlando dei Folkabbestia, la band di musica popolare pugliese che dal 1996 si è fatta conoscere al pubblico italiano e Oltralpe grazie al suo effervescente mix di folk irlandese, ritmi balcanici e la tradizione millenaria del Mediterraneo italiano e maghrebino. "Una vera festa itinerante" come si definiscono i membri stessi di un progetto che attraverso le molteplici influenze di ska, rock e funk, mette in mostra un autentico carrozzone di vivacissimi suoni, racconti e consuetudini che affondano le loro radici in epoche lontanissime come il Medioevo e storie attuali vissute nella realtà nostrana e al di fuori di essa. Anche per il giorno successivo, il 17 Marzo e St Patrick's Day per eccellenza, il palco della Flog è stato calcato a turno da due formazioni molto diverse tra loro per conformazione, proposta musicale e povenienza. Da una parte infatti i made in Ireland Drunken Lullabies, band che prende il nome da un brano omonimo della rock band statunitense dei Dropkick Murphies. Originari di Thrones, i Lullabies hanno offerto agli spettatori uno spettacolo double-face che ha collegato i grandi classici del folk come "Wild rover" e "Whiskey in the jar" a gustose rivisitazioni in salsa popolare di brani di successi tratti da altri generi come il rock dei The Killers. Geograficamente distante e non solo è invece il Power Gypsy dei BARO DROM ORKESTAR, una band di casa, che ha trasportato il pubblico verso dimensioni ai confini del continente europeo grazie al suo sound trasversale che raccoglie eredità musicali dalla cultura armena, dal Salento e dalla penisola balcanica. Uno mosaico di ispirazioni che i quattro componenti del collettivo hanno portato dal vivo attraverso un violino elettronico, una fisarmonica e una forte dose di rock per un lungo viaggio come recita il loro nome , "BARO DROM", in lingua romanì. Sebbene sia trascorso oltre il suo consueto giorno di celebrazioni, alla Flog "l'Irlanda in Festa" è continuata anche la settimana successiva, culminando nella serata di sabato 24 Marzo con il concerto dei Modena City Ramblers, la storica formazione emiliana che nel ventisettesimo anno della sua stepitosa carriera sta ancora una volta percorrendo senza soste l'Italia da cima a fondo nel nome del suo conclamato folk dalle interrelazioni letterarie e sociali. Un successo quasi trentennale per la più importante realtà folk italiana di sempre, che con il recente album "Mani come rami, ai piedi radici" (2017) ha aggiunto un ulteriore tassello a una produzione invidiabile e instancabile, che ogni anno chiama a raccordo un numero altissimo di fans desiderosi di saltare ed emozionarsi al ritmo di musiche dal potere evocativo eccezionale e contenuti multidisciplinari, che spaziano dalla memoria partigiana ai sogni romanzeschi di Garcia Marquez per arrivare alla cronaca delle vicende di eroi contemporanei come Peppino Impastato. Immagini tratte da: Immagini 1, Galleria 2 e Immagine 6 da www.flog.it Immagine 2 da www.rollingstone.it Immagine 3 da www.ondaalternativa.it
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27/3/2018 Lo show multidimensionale di IOSONOUNCANE e Paolo Angeli nell'Anteprima del Wøm Fest 2018Read Nowdi Enrico Esposito Paolo Angeli e Jacopo Incani, in arte IOSONOUNCANE (rispettivamente classi 1970 e 1983), tredici anni e l'80% della Sardegna che distanziano l'uno con l'altro. E anche sul palco del Cinema Moderno di Lucca si schierano ai due estremi del palco, nettamente distanziati. Ma nonostante esistano queste separazioni indipendenti dalla loro volontà oppure invece pensate per la massima efficacia scenica, la passione con cui essi esercitano il loro mestiere di musicisti è la stessa, condivisa nella volontà della creatività e del folklore. Sono loro i protagonisti di una serata magnifica che costituisce l'anteprima del Wøm Fest, il festival di musica Indie che nel weekend del 24-25-26 maggio nella meravigliosa cornice di Villa Bottini a Lucca darà luogo a una sua terza edizione che promette di stupire. Dopo l'ottimo successo della passata edizione che ha visto protagonisti Gazzelle, Giorgio Poi e Lucio Leoni, la kermesse si appresta a realizzare altri tre giorni intensi all'insegna della musica, dello street food e market, grazie anche ai proventi derivati dalla campagna crowfunding lanciata su Eppela. A giudicare dal gustoso antipasto servito in tavola nella serata dello scorso 16 marzo, si può dire senza indugi che le aspettative per fine maggio sono decisamente alte. Molto presto ne sapremo di più ma intanto facciamo un salto indietro a dieci giorni fa, alla serata in cui il Cinema Moderno è stato spogliato della sua maestosa storicità perché trasportato interamente tra i meandri di una realtà parallela, ancestrale e metafisica. Si sono conosciuti in “Buio”, una delle tracce di “DIE”, il disco del 2015 acclamato da critica e pubblico che ha lanciato il talento di IOSONOUNCANE nelle duplici vesti di compositore ed esecutore. Un'opera simbolica sviluppata in sei racconti estesi e concitati che raccontano la storia di un uomo e di una donna, proiettandoli all’interno di una realtà immersa tra echi naturali e distorsioni artificiali. Rombi, versi animali, urla umane sono solo alcune delle voci riprodotte dagli scarichi della loop station che Incani governa con maestria dividendosi tra sintetizzatori, campionature ed effetti innovativi derivati dall'impiego di oggetti di norma slegati dalla musica come una busta di cellophane schiacciata con i piedi. Uno spettacolo di floydiana memoria che acuisce la sua intensità grazie alle incursioni liriche della chitarra a diciotto corde suonata da Paolo Angeli, il cultore di Palau che ha ereditato sin da piccolissimo la passione per lo strumento. Fu il padre a trasmettergli la devozione teorica e pratica, a riversare nelle vene l'amore per la fabbricazione stessa, in un percorso quarantennale che nel 2004 ha condotto Paolo a completare la chitarra sarda preparata, il suo orgoglio, l'arma dalle dimensioni di un contrabbasso snello che ha stregato Keith Jarrett e gli ha permesso di alimentare ulteriormente una fama eccellente, dovuta ad anni e anni dedicati a lavori multimediali, produzioni folkloriche e tanto altro. Angeli, sornione e composto, sul palcoscenico del Cinema Moderno raccoglie le saettare del suo collega per estenderle oltre un campo di forze magnetiche e rivestirlo di una valenza arcana, spirituale, onirica. “Tanca”, “Carne”, perfino “La macarena su Roma” rispondono al nome di consacrati successi di IOSONOUNCANE che gli interventi di Paolo Angeli contribuiscono a trasportare insieme agli ascoltatori in uno stato di sospensione nel tempo e nello spazio, per il quale si diffonde senza resistenza la sensazione universale di perdita dell’importanza di sapere come ci si chiami, da dove si viene e perché ci si trova in quel luogo preciso. Si assiste a una svalutazione così desiderata, a una fuga dell’attualità e dalla singolarità a favore di un ritorno all'ancestralità, alla considerazione di valori millenari come la percezione dei sensi, il contatto con gli altri esseri, le funzioni primarie, che la terra madre del duo in scena custodisce immacolata da oltre due millenni. E alla fine non importa se “Stormi” non è inclusa tra le righe della scaletta che sfiora l'ora e mezza, non importa se ne avremmo voluto ancora. Bisogna invece fare veri complimenti a due artisti che svolgono con professionalità massima il loro mestiere di musicisti, che si concedono forse nemmeno cinque pause tra un pezzo e l'altro è annullano quasi di netto le parole al di fuori dei suoni, rivelando un'esposizione visiva, musicale e sensitiva. Immagini tratte da: foto e video dell'autore (Giovanna Leonetti), ad eccezione della foto numero 2 tratta dalla pagina Facebook del Wøm Fest
di Carlo Cantisani
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Jóhann Jóhannsson è sempre stato capace di far respirare la sua musica. Di dotarla di una capacità unica che le permettesse di riempire lo spazio circostante e, automaticamente, di fermare il tempo, comprimendolo nel breve minutaggio di un pezzo il quale, paradossalmente, sembrava poter durare in eterno. Quella del compositore islandese è una musica fatta di crescendo via via più tumultuosi che poi si risolvono in parti più distese e quiete, che dialoga col silenzio per far risuonare ogni singolo suono, stratificando armonie e strutture costruendo eteree ma solide composizioni su un terreno al confine fra tradizione classica e modernismo (lo stesso terreno condiviso con altri grandi musicisti della “nuova” classica, come Max Richter e Nils Frahm). Una narrazione in musica che connota ambienti e situazioni osservati ora con uno sguardo intimo nei momenti più distesi, ora con uno più distaccato e quasi austero in quelli maggiormente incalzanti, ma sempre e comunque attraversati da un’emotività lacerante, totalizzante, assoluta.
Jóhannsson, scomparso lo scorso nove febbraio, era ormai diventato nel giro di pochi anni uno dei più interessanti nonché quotati compositori di musica da film. Dapprima la pellicola di Denis Villeneuve – col quale instaurerà un profondo legame artistico – Prisoners, del 2013, l’aveva fatto notare al pubblico internazionale; seguiranno due altri lavori per il cinema, McCanick e I am Here, sino alla definitiva consacrazione con La Teoria del Tutto del 2014, vincendo anche un Golden Globe. E poi ancora con Villeneuve per le soundtracks di Sicario, Arrival e Blade Runner 2049 (per quest’ultimo film scartato poi a favore di un più ovvio e prevedibile Hans Zimmer). Aronofsky lo vorrà per la sua ultima pellicola, Madre!, per la quale Jóhannsson ricoprirà il ruolo di music and sound consultant, decidendo coraggiosamente di eliminare completamente lo score già precedentemente composto in modo da assecondare al meglio la complessità dell’opera. Mandy, Mary Magdalene e The Mercy (uscito in Gran Bretagna proprio il giorno della morte del compositore) sono gli ultimi tre lavori prima della sua scomparsa, oltre alla musica, rimasta però incompleta, per Christopher Robin, l’adattamento live-action della Disney ispirato a Winnie the Pooh, il progetto più grosso al quale Jóhannsson abbia mai lavorato. A tutto ciò va aggiunta un ulteriore mole di lavori per il teatro, tv, danza, cortometraggi, collaborazioni con artisti gravitanti nell’ambiente musicale più sperimentale come Tim Hecker, Pan Sonic, Sunn O))), Barry Adamson e tanti altri. E, naturalmente, i suoi dischi solisti. I dischi a nome esclusivamente Jóhann Jóhannsson hanno fatto da apripista per la sua futura carriera da compositore di colonne sonore, costituendo la chiave di lettura per buona parte del mondo musicale del musicista islandese. Fordlandia, il quarto album solista uscito per la 4AD nel 2008, può essere considerato come il simbolo del pensiero musicale di Jóhann Jóhannsson. L’album prende il nome dall’enorme proprietà terriera nel Brasile settentrionale acquistata da Henry Ford nel 1929 per farne un impianto industriale per la produzione di gomma per i pneumatici dell’azienda americana. Simbolo del capitalismo rampante e dell’utopia a stelle e strisce, Fordlandia non fu solo uno dei tanti stabilimenti americani ma, nella mente del suo creatore, anche una città a tutti gli effetti, andando incontro a un progressivo declino a causa di errate scelte gestionali e di una rivolta dei lavoratori che ne decretarono il prematuro abbandono. Da questa premessa concettuale, il lavoro di Jóhannsson si snoda attraverso undici brani che però non vanno a costituire un concept vero e proprio ma più che altro delle tappe di più viaggi che si intersecano fra loro. L’intero lavoro è incentrato sulla commistione di sonorità classiche, date dall’Orchestra Filarmonica e dal Coro della città di Praga insieme a un quartetto d’archi, un organista e un clarinettista, ed elettroniche, nella forma di percussioni che impreziosiscono e donano profondità alle composizioni con tocchi solenni e quasi alieni. Un primo nucleo – il più corposo – lo si può individuare nel terzetto Fordlandia, Fordlandia – Aerial View e How We Left Fordlandia: un lungo excursus sonoro guidato dagli archi perennemente intenti a disegnare melodie semplici e affascinanti nel loro essere emotivamente pregnanti, su tappeti armonici che innalzano i brani verso dei crescendo impetuosi e ariosi per aprirle poi in una quiete tendente quasi al silenzio. La title track, in particolare, ricorda i Sigur Ròs e l’andamento di certo post-rock, e non è improbabile infatti che il brano (come il resto del disco d’altronde) possa essere apprezzato da chi bazzica certe sonorità; l’ennesima dimostrazione, inoltre, di come Jóhann Jóhannsson riesca a ottenere molto con poco, puntando tutto sulla potenza sonora e sulla semplicità dei suoi arrangiamenti. Il mix di elettronica e strumenti classici dà vita a uno dei brani più coinvolgenti e interessanti del disco, The Rocket Builder (Io Pan!), che nel bel mezzo del brano si getta in un baratro oscuro grazie ai rintocchi degli accordi di pianoforte. Il suo ideale proseguimento, The Great God Pan Is Dead, sembra celebrarne il requiem, con coro e archi ad annunciare una messa solenne e, al contempo, dall’aria celeste; la stessa solennità riscontrabile in Chimaerica, dove l’organo fa da protagonista incontrastato. Melodia, suddivisa in quattro movimenti più un quinto a fare da sunto agli altri, scandisce l’andamento dell’album facendo da raccordo fra un brano e l’altro, mantenendo compatta l’unità sonora di base del lavoro. Esplicita, inoltre, in maniera ancor più diretta, la natura cinematica del modus operandi di Jóhannsson: una stessa melodia, appunto, viene riproposta e di volta in volta riarrangiata in modo diverso, suonata da differenti strumenti, pratica tipica delle colonne sonore. La capacità di narrare una storia, o più storie, tramite la potenza delle note fa sì che Fordlandia – secondo capitolo di una trilogia incentrata sulla tecnologia e l’archeologia industriale – sia la colonna sonora di un ipotetico film ancora da girare, ponendo così in primo piano il lavoro del musicista islandese nel panorama di quella classica cosiddetta “moderna”. Chi volesse scoprire il percorso artistico di uno degli artisti più significativi apparsi sulla scena cinematografica degli ultimi anni farebbe bene, prima di tutto, a partire da qui. Un passaggio essenziale, che non può che far rammaricare sulla prematura scomparsa dell’enorme talento di Jóhann Jóhannsson, un musicista che conosceva l’importanza del silenzio. Jóhann Jóhannsson – Fordlandia (4AD, 2008)
Immagini tratte da: www.cyclicdefrost.com Potrebbe interessarti anche: di Enrico Esposito Infedeli come lui, il suo concerto e uno sguardo sul mondo di larga condivisione. Lorenzo Urciullo, per tutti Colapesce, è a Pisa per la prima volta nella sua vita. Un battesimo, per restare in tema. Un battesimo trepidante per la foltissima folla dell'Ex Cinema Lumière che risponde alla grande alla chiamata del cantautore siciliano. Fans in fila dalle otto di sera per accaparrarsi gli ultimi biglietti rimasti e pronti ad attendere l'esibizione di un'artista eclettico, che nella serata tiepida di sabato 10 marzo costruisce un'esposizione musicale, teatrale, sociale. Lo vediamo saltellare dall'inizio alla fine dello show. Ronza con aria disincantata intorno ai componenti della sua Infedele Orchestra dai denti affilati, gente che suda, stuzzica gli strumenti fino all'orlo, e indossa un simil saio da prete sulle orme del suo maestro. Colapesce, che trae il suo nome da una leggenda medievale dalle ossa pagane, nel suo terzo album "Infedele" uscito iL 27 ottobre scorso, intraprende una missione artistica che dalla devozione prende le mosse per argomentare un discorso ramificato sul senso della vita e dei rapporti umani. Sul palco del Lumière il cantante di Solarino con disinvoltura e ingegno "incanta" subito il pubblico davanti a sè. A dirla tutta, in apertura, si rende protagonista di un sorprendente bombardamento visuale e sonoro quando dal buio profondo compare camuffato con una testa di unicorno gigante e al ritmo elettronico forsennato dell'intro "Aziz". Frenesia, martellamento da Cosmo, ma poco dopo rientro in scena e inizio della cerimonia vera e propria. Il sacerdote, che nella cover del disco è iniziato alla prima comunione attraverso "il test" dell'ostia, ha assimilato gli insegnamenti necessari e approdato nelle condizioni di poter illustrare ai nuovi fedeli la sua concezione. Dunque ecco spiegato lo pseudo-saio, l'aroma d'incenso propagato all'interno dello strapieno Lumière, e una ritualità nei gesti, nelle parole e soprattutto nella successione dei brani che obbediscono alla "funzione catartica" esercitata. Gli strumenti religiosi si ritrovano "piegati" in una funzione inedita, empia perchè vengono impiegati come artistico pretesto per stimolare gli ascoltatori a compiere un ragionamento personale. Spontaneamente si avverte il desiderio di guardarsi dentro e girare il volto di fronte agli altri, di alzare la testa e percorrere la sala a 360 gradi alla ricerca di espressioni particolari da cogliere. Una dimensione "totale" come recita uno dei nuovi testi e si compie l'intento di un'artista che ha sempre amato ragionare sul singolo e la pluralità. Una volontà di ispirazione che si manifesta in un alternanza esuberante di sferzate elettriche e raccoglimenti acustici che ricordano il passato tenue dei primi due Lp. "Infedele" e la sua trasposizione dal vivo trasmettono infatti uno sbalzo di intraprendenza da parte di Colapesce, la fine dell'attesa di liberazione da un cordone ombelicale adesso reciso nettamente. Colui che lo storico quotidiano Le Monde ha coraggiosamente investito della doppia eredità di Tenco e Battiato, ha ultimato la gestazione per poter diffondere appieno la sua metafisica. Il culto di Battiato si materializza concretamente nella metodologia di scrittura e nella proposta sonora, e a distanza non eccessiva affiora la chioma bronzea del Bowie di "Starman". Ma i paragoni, specie col passato, lasciano il tempo che trovano. Meglio pensare alla dimensione esclusiva raggiunta da Colapesce. Alla grintà quasi cieca nel concedersi ai suoi adepti, alla capacità di sospensione del pensiero rispetto al tempo e allo spazio, alle potenzialità significative di un'artista in pieno possesso della sua identità. Immagini tratte da pagina ufficiale di Colapesce musicadicolapesce di Enrico Esposito Al Cinema Teatro Nuovo di Piazza della Stazione è andata in scena venerdì scorso 9 marzo l'ultimo appuntamento dal vivo della stagione con l'Orchestra Archè, l'ensemble di musica classica e da camera nato nel 2009. Con l'evento “Le Donne di Puccini” il quartetto composto dal violino di Luisa Di Menna (presidente dell'Associazione), dal violoncello di Elisabetta Casapieri, dal flauto di Lucia Neri e dal piano di Angelica Di Taranto accompagnato dalla voce del soprano Mirella Di Vita, l’Orchestra ha voluto porgere in occasione delle celebrazioni dell'otto marzo un omaggio duplice al genio di Giacomo Puccini e alle numerose e memorabili figure femminili protagoniste della sue opere. Il concerto si è sviluppato in due parti, durante le quali si sono alternate sinfonie interamente orchestrali e arie cantate che hanno attinto a ritratti di donne molto diverse tra loro, dalla Manon Lescaut alla Madama Butterfly, fino ad arrivare al Gianni Schicchi. Reminiscenze di drammaticità, momenti di sconforto e smisurata ebbrezza si sono susseguiti sul palcoscenico con il risultato di trasportare il pubblico alla scoperta di sfaccettature del gentil sesso differenti per età, estrazione sociale e visione del mondo. Una performance intensa e carica di sensazioni che ha posto al centro della propria espressività la considerazione alta e accorata rivolta dal Maestro toscano nei confronti della delicatezza di carattere di tutte le donne, omaggiate doverosamente il giorno dopo le celebrazioni dell'otto marzo. Ancora una volta l'Orchestra Archè ha confezionato uno spettacolo sobrio e accurato, che ha messo a proprio agio un pubblico eterogeneo grazie all'intesa piacevole tra le musiciste e la voce dei melodrammi rappresentati. Un'esibizione di sole interpreti femminili, un aspetto di speciale fascino e trasporto per un omaggio artistico alle donne e alla loro festività internazionale celebrata il vicinissimo otto marzo. Preceduto dall'introduzione in solo del giovane pianista Fabio Forti, che ha eseguito i brani del Maestro russo Aleksandr Prèludes, il concerto ha rappresentato l'arrivederci per quest'anno al teatro in Piazza della Stazione dell'ensemble pisano, nato nel 2012 su iniziativa del Maestro Francesco Pasqualetti e diventato col passare del tempo un punto di riferimento significativo nel panorama di musica classica nazionale. L'Orchestra ha esordito al Teatro Verdi durante il Concerto di Natale nel Dicembre del 2012 riscuotendo un ottimo successo di pubblico e critica che l'ha portata a partecipare a celeberrimi festival come il "Cusano di Musica Antica" e il "Serchio delle Muse" e a essere diretto da personalità di primo piano tra cui il Premio Oscar Nicola Piovani e il pianista Maurizio Baglini. A breve il Termopolio incontrerà la presidente dell'Orchestra Luisa Di Menna per un'intervista all'interno della quale ripercorreremo passato, presente e futuro di una delle più belle realtà culturali cittadine. https://www.facebook.com/TeatroNuovoPisa/ Special guest: TOBJAH Preview del WØM FEST Venerdì 16 Marzo ore 21,00 Cinema Moderno Via Vittorio Emanuele II, 17 - Lucca Ingresso: 20 euro Dopo l’anteprima di Novembre avvenuta al festival Linecheck di Milano, IOSONOUNCANE e Paolo Angeli portano in tour la loro musica per una serie di date. IOSONOUNCANE e Paolo Angeli sono due voci autorevoli della Sardegna contemporanea. Nella loro musica, carica di elementi ancestrali e di evocazioni difficilmente catalogabili in un genere musicale, si respira l’isola con tutte le sue sfaccettature stilistiche. È un’espressione creativa che dipinge paesaggi sonori d’avanguardia e, allo stesso tempo, riporta al solco dell’aratro e alle variazioni minimali riportate in un arazzo realizzato al telaio. Innovatori con radici, Angeli e Iosonouncane costituiscono un esempio importante del come la tradizione debba trovare, nella società attuale, un’evoluzione dei suoi linguaggi arcaici, collocandosi nel difficile confronto con il presente, senza cadere nella tentazione dell’oleografia. La loro è una musica viva dove rumore e silenzio vanno a braccetto, dove la forza di una mareggiata di maestrale porta con se una risacca in grado di insabbiare i porti. Una voce consumata dal vento ci dice che i mari non sono tutti uguali. L’ultima volta che si sono incontrati questa distesa azzurra era avvolta dalla quiete della bonaccia, da quella sensazione struggente che ti ricorda che devi partire dalla tua terra per il gusto dell’avventura. Il chitarrista di Palau e il cantautore di Buggerru si sono conosciuti quattro anni fa ed hanno collaborato in "Buio", un brano tratto da DIE, capolavoro di IOSONOUNCANE uscito nel 2015, accolto dalla critica come uno dei dischi italiani più importanti degli ultimi anni. Dal vivo questi due musicisti straordinari condivideranno il palco suonando brani dai repertori personali e rileggeranno alcuni brani della tradizione musicale sarda. www.iosonouncane.it/ www.paoloangeli.com/ https://www.facebook.com/wommovement/
di Enrico Esposito
La maggior parte dei media parla di una notizia a sorpresa ma noi invece non siamo rimasti stupiti più di tanto. Anzi all'annuncio dell'uscita il prossimo 23 marzo del volume n.2 de "L'Amore e la Violenza", settimo album in studio dei Baustelle, siamo stati impossessati da un'attesa dolce mista a una sete ingorda e oscura. La band di Montepulciano dal 2005 fortificatasi intorno alla triade di "genitori" Francesco Bianconi (voce, chitarre, tastiere, testi), Rachele Bastreghi (tastiere, voci e percussioni) e Claudio Brasini (chitarre) ha pubblicato il primo volume del doppio disco, "L'Amore e la Violenza" per l'appunto, il 13 gennaio scorso dopo averlo preannunciato mettendo a disposizione un free download di un brano inedito, "Lili Marleen", nell'ottobre precedente e svelando il 30 dicembre sul proprio sito il primo singolo "Amanda Lear". Anche per l'Lp che si appresta a scrivere un nuovo capitolo importante della loro storia, l'ensemble toscano sta attuando una "campagna" di avvicinamento sorprendente nei contenuti espressi e nella veste accurata che li circonda e li rende vincenti. Questa volta infatti Bianconi & co "si sono divertiti" ad affidare l'annuncio ufficiale dell'uscita dell'album attraverso un teaser - trailer attraente che mostra i musicisti stessi travolti in un vortice di immagini angoscianti e gotiche che sembrano direttamente tratte dai film horror italiani cult anni '70 da Dario Argento a Lucio Fulci allo stesso Pupi Avati. Teste di bambole di plastica per nulla rassicuranti, ragazze terrorizzate e urlanti, gocce di sangue in un tumulto di psichedelie e cerchi concentrici che si risolvono in un Baustelle a tinta rossa in orbita, il titolo del nuovo lavoro e una didascalia "Dodici pezzi facili", che con ironia e charme descrive la particolare ispirazione che sta investendo la band in questa fase della sua carriera giunta oltre il ventennale. Dopo aver prodotto con "Fantasma" del 2014 un approfondimento di proporzioni ampie su un sound sinfonico e orchestrale, i Baustelle si sono trovati dinanzi a un bivio fondamentale: proseguire nella medesima direzione dando una svolta ancor più innovativa alla loro carriera, oppure ritornare a dettare le regole di una restaurazione del genere pop. Hanno scelto la seconda via, la dimensione che permette loro di penetrare a fondo nei pensieri loro e degli ascoltatori, coetanei o no. "L'Amore e la Violenza" in tal senso aveva messo in chiaro le cose sin da subito. L'immagine hippy, erotica e anni '60 di due belle donne che si abbracciano e sorridono. Un'efficace nostalgia retro, dell'epoca d'oro del cantautorato italiano di Tenco, Endrigo, De Andrè, considerato da Francesco Bianconi il miglior periodo in assoluto per la musica contemporanea. Non può essere che lui l'autore di tutti i testi del primo come del secondo volume dell'album, lui compositore affermato per molti altri colleghi, nello stile, nel portamento e nell'imperturbabilità della sua voce mod di seconda generazione. "L'Amore e la Violenza" raccoglie come un diario di fotografie dal fronte storie molto spesso con protagoniste femminili ("Amanda Lear", "Betty" "Veronica, n.2", primo singolo della seconda parte del disco svelato da pochissimi giorni), storie di amore, di adattabilità al mondo di oggi, di disagio, sullo sfondo di una realtà in conflitto e violenza, il contraltare. L'amore e la violenza, il lato a e il lato b della filosofia dei Baustelle. Due forze intrecciate e molto più vicine di quanto si possa pensare: perchè la violenza può essere commessa contro sè stessi ma per necessità di amore, di estasi. E così l'amore può essere considerato "un'idiozia di questi anni" ( "Il Vangelo di Giovanni"), ma le sue follie sanno prendere possesso completo della mente e con forza rendere vani i giudizi negativi altrui. I Baustelle de "L'Amore e la Violenza" sono magnificamente spietati nella fotografia della vita. Lasciano emergere in gran pompa quanto sia vitale la visione personale di ogni uomo o donna, l'elasticità nel prevaricare le opinioni comuni, le "borghesità" che sputano in faccia. E insegnano l'ammirazione sincera nei confronti di chi vive su linee di pensiero diametralmente opposte, senza prendere le distanze a prescindere dai nullafacenti, i tossici, i lacchè. "Veronica, n.2", singolo d'antipasto a "L'Amore e la Violenza" che sta arrivando, riparte dal palcoscenico elettronico di synth e percussioni campionate che hanno lasciato in soffitta orchestra e batteria, sublimato dai cori di Rachele Bastreghi e da uno stile narrativo che celebra la poesia, l'arte, la storia. Immagini tratte da: - Immagine 1 da www.rockon.it - Immagine 2 da www.rockol.it - Immagine 3 da https://www.facebook.com/baustelleofficial/ Martedi 27 febbraio al Teatro Puccini abbiamo partecipato alla tappa fiorentina dell' "Eclipse Tour" della cantautrice romana, che ci ha regalato un'esibizione appassionata e sofisticata. E a Burian non ci abbiamo pensato per un bel pò. di Enrico Esposito Fa freddissimo a Firenze. Burian, Big Snow e i loro scagnozzi non hanno ancora sferrato la loro raffica di proiettili sotto zero ma le prime cartucce sì e fa un certo effetto leggere sui display alle fermate dell'autobus delle allerte neve annunciate dalla Protezione Civile. Fa strano imbattersi in una decina di persone a stento in via delle Cascine e trovarne ancora meno in Piazza Puccini, laddove raggiungo la meta della mia serata. Alle 21:00, tra le eleganti pareti adottate da Sergio Staino che nel 1991 inaugurò l'apertura del Teatro nella sua conformazione stabile (la struttura risale al 1940 e in precedenza era adibita a sala da ballo e arena per gli incontri di boxe), mi aspetta un concerto che attendo da un po' di tempo con curiosità e aspettative importanti perchè Chiara Civello attraverso la sua musica sa condurre per mano i suoi ascoltatori dalle spiagge soleggiate del Brasile a passeggiate in abito sera lungo le strade della Capitale e poco dopo tra i fumi densi di un jazz club di New York (città in cui vive), fino a salire nelle atmosfere sublimi e immortali create dai magnifici cantautori italiani degli anni '60 (Luigi Tenco, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Jimmy Fontana). Non solo un'interprete, ma anche una polistrumentista, una ballerina caliente. Una show-woman a tutto tondo che da luogo ad un'esibizione sopra le righe. Chiara Civello ne "Il mondo" di Jimmy Fontana Click to set custom HTML
Sale sul palco preceduta dal tastierista Seby Burgio e dal batterista Federico Scettri che si dispongono ai margini della scena per lasciare il centro al suo microfono, alla chitarra e al pianoforte ai quali la cantautrice dalle radici siciliane si alterna con eleganza e vitalità. Il Teatro Puccini ospita la tappa toscana dell' "Eclipse Tour", la serie di concerti indoor nelle principali città della penisola con i quali Chiara presenta al pubblico le canzoni che compongono il suo ultimo album "Eclipse", il sesto di una carriera portentosa che vede il suo esordio discografico nel 2005 con "Last Quarter Moon" ma affonda il suo inizio alla metà degli anni '90 quando l'artista conosce gli insegnamenti di Edda Dell'Orso, angelo custode del maestro Ennio Morricone e vola negli Stati Uniti per una borsa di studio al Berkle College of Music di Boston. Il brano di apertura del disco è "Come vanno le cose", una ballata soffusa e d'imbrunire che pulsa di elettronica anni '70, una suite adatta alla comparsa sul palco della Civello, in un abito nero e rosso retro. Sorridente e vispa, la cantante ringrazia il buon numero di spettatori sopraggiunti nonostante le minacce di Burian e con brio dà il la a un concerto che affianca all'esegesi di "Eclipse" la proposizione di successi degli album interiori e l'omaggio consueto all'età d'oro della canzone italiana d'autore. Da "Eclipse" stesso, Chiara Civello "pesca" "Eclisse Twist", la cover di una canzone scritta da Michelangelo Antonioni e Antonio Fusco per Mina, che oltre a evidenziare l'amore profondo per il grande cinema italiano del passato, ha ispirato il titolo e i temi alla base della sua nuova raccolta. "Eclipse" è infatti un'opera sulla luce, una dimensione osservata dall'interno nelle sue emanazioni gigantesche e nei suoi squarci di buio minacciosi, momenti di blackout inevitabili perchè nella vita non può essere tutto rose e fiori e le sofferenze, le sconfitte e gli allontanamenti si rivelano benedetti per poter assaporare totalmente un fenomeno magico come l'eclissi. Da compositrice navigata ed espertissima (l'elenco delle personalità italiane e internazionali di spicco con cui ha collaborato è davvero esaltante, visto che parliamo di mostri sacri come Gilberto Gil, James Taylor, Chico Barque, Esperanza Spalding, Antonello Venditti solo per citarne alcuni), Chiara confessa tra la samba di "Sambarilove", il blues di "New York City Boy" (realizzato in tandem con Francesco Bianconi dei Baustelle) e l'omaggio alla "Leonessa" di Cremona in "Parole, parole, parole" una spiccata propensione per la condivisione della scrittura dei suoi testi, perché affascinata dalla ricchezza del confronto con altre anime, culture, visioni del mondo e dalla gioia di poter concedere a chi ha di fronte un'esperienza, un pensiero, un sogno. Chiara Civello e la sua band in "Problemi" Il pubblico approva, le rivolge applausi e cori entusiastici e, sotto il suo invito, canta, balla, seguendo la sua energia contagiosa, la sensualità che avvolge i suoi balli e le sequenze "in solitaria" al piano e alla chitarra in un finale maestoso che regala il "Mondo" di Jimmy Fontana e "Io che amo solo te" di Sergio Endrigo a fermare il tempo, lo spazio e il fiato per prepararsi in estrema ratio alle note scatenate di un reprise della celeberrima colonna sonora di "Metti una sera a cena" di Ennio Morricone. Il Puccini ritorna a essere una sala da ballo a tutti gli effetti, brulicante di passi e frenesie in un furore collettivo stimolato da un'interprete mai stanca di inneggiare al movimento, alla bellezza della musica e del folklore.
Immagini tratte da: - Immagine 1 da www.ventidieci.it - Galleria e videos dell'autore Un sentito ringraziamento a Marco Mannucci per la disponibilità e il materiale concesso
di Carlo Cantisani
Manca ormai poco alla notte degli Oscar, che quest’anno taglierà il traguardo dei novant’anni. La categoria per la migliore colonna sonora non sarà ritenuta popolare come quella per il miglior film, regia o attore e attrice protagonista, ma riesce comunque ogni anno ad attirare l’attenzione dei curiosi e di molti ascoltatori, appassionati di musica da film o meno. E quest’anno la novità più interessante riguarda il fatto che fra i candidati risulta un compositore alla sua prima candidatura assoluta per un Oscar: Jonny Greenwood, collaboratore ormai assiduo del regista Paul Thomas Anderson per il quale ha musicato Il filo nascosto e meglio conosciuto per essere chitarrista dei Radiohead. Se anche il musicista inglese non dovesse vincere, sarebbe comunque un notevole traguardo per una figura principalmente conosciuta ai fan della sua band madre e, in generale, a chi segue la scena musicale internazionale, raggiungendo così un pubblico più vasto (soprattutto in paesi come l’Italia, dove gruppi come i Radiohead sono ancora considerati non mainstream) e facendosi largo poco alla volta fra la rosa dei numerosi compositori hollywoodiani. Insieme a Greenwood, sono in lista Carter Burwell, alla sua seconda nomination grazie a Tre manifesti a Ebbing, Missouri, e tre colossi dell’Academy, John Williams, a quota ben cinquantuno nomination per l’ottavo episodio di Star Wars, Hans Zimmer alla undicesima con Dunkirk e infine Alenxandre Desplat per La forma dell’acqua alla sua nona candidatura. Rispetto alla scorsa edizione, dove la colonna sonora di La La Land era data praticamente per favorita, quest’anno il risultato potrebbe essere non del tutto scontato, anche se la gara sarebbe soprattutto fra i tre nomi più grossi, con Burwell che potrebbe sperare in una chance di vittoria puntando alla risonanza che il suo film ha avuto presso critica e pubblico.
Jonny Greenwood - Il filo nascosto Alla sua quarta collaborazione con Paul Thomas Anderson, dopo Il Petroliere, The Master e Vizio di forma, Jonny Greenwood firma uno dei suoi migliori lavori in assoluto lontano dalla band dei Radiohead. Lo score per Il filo nascosto, infatti, si colloca affianco a quell’altra piccola grande opera che è la musica per There will be blood del 2007, superandola in molte parti per complessità e cura impeccabile negli arrangiamenti. Diciamolo subito: quella di Greenwood è la migliore colonna sonora di questi Oscar e batte per originalità e capacità narrativa tutti i suoi concorrenti. Registrata con un’orchestra di circa sessanta elementi, le composizioni sono attraversate da tocchi delicatissimi ed eleganti dal sapore novecentesco e, grazie alla tessitura data da ogni strumento che riesce a ricavarsi il suo spazio, l’atmosfera risulta quasi impalpabile e sospesa. In bilico tra ricercatezza e semplicità, Greenwood firma un lavoro capace di dialogare con la pellicola ma perfettamente godibile anche da solo. Carter Burwell – Tre manifesti a Ebbing, Missouri Dopo la candidatura di due anni fa per Carol, Carter Burwell ci riprova firmando la colonna sonora di uno dei film più acclamati della stagione, Tre manifesti a Ebbing, Missouri. L’eleganza di fondo che aveva caratterizzato la musica del film con Cate Blanchett e Rooney Mara rimane, ma questa volta è “sporcata” da un tono generale più grave. Sonorità country e al limite del western stagliano la loro lunga ombra su composizioni capaci di restituire in pieno la psicologia dei personaggi e l’evolversi dell’intera vicenda. Una musica divisa fra giorno e notte, fra speranza e rassegnazione, quasi la trasposizione in note dell’espressione dura, ma pronta in fondo ad aprirsi, di Frances McDormand, che è penalizzata però da una mancanza di varietà di base che di certo non gioca a suo favore. Alexandre Desplat – La forma dell’acqua Con ben tredici candidature, la nuova pellicola di Del Toro, per la quale Alexandre Desplat ha scritto lo score, potrebbe avere un certo peso specifico per orientare l’ago della bilancia dell’Academy nell’eleggere il miglior compositore di quest’anno; l’opera del musicista francese può infatti contare sul supporto che il film riesce a dare alle sue composizioni, oltre che all’incredibile hype che ha accompagnato l’uscita di La forma dell’acqua. La musica di Desplat acquista forza con le immagini, condividendone candore e leggerezza dei personaggi positivi del film, senso del “meraviglioso” e una forte unità complessiva data dai singoli elementi nonostante una scaletta molto varia. Fortemente intrisa di jazz, di influenze disneyane e con una fisarmonica a dare quel tocco più fantastico (alla Amélie), la musica di La forma dell’acqua conquista soprattutto per il piglio melodico, il fulcro intorno al quale girano le composizioni, riuscendo ad arrivare dritto al cuore dell’ascoltatore veicolando perfettamente il mondo del film. Il tema principale è una piccola lezione di musica per il cinema, praticamente la controparte musicale del film. Hans Zimmer – Dunkirk Chi conosce il lavoro di Zimmer per le pellicole di Nolan può stare tranquillo: nella colonna sonora imbastita dal compositore tedesco c’è tutto quello che un amante della sua musica potrebbe chiedere. E quindi, commistione di strumenti classici con l’elettronica, tappetoni di synth a dare un senso di prospettiva in movimento e, soprattutto, tanta, tanta tensione. La fusione fra comparto visivo e quello musicale è talmente tanto alta in Dunkirk che lo stesso Zimmer ha affermato che “questo film è quello in cui ho avuto il più stretto rapporto con un regista e nonostante lui non abbia mai suonato nemmeno una nota, ha in qualche modo suonato ogni nota”. Il tempo è il filo concettuale che lega musica e immagini, alle quali sia Zimmer che Nolan hanno applicato la cosiddetta scala Shepard, un’illusione acustica che dà la percezione che ci sia un tono costantemente ascendente, e quindi un senso di tensione infinita pronta a esplodere ma che invece viene sempre rimandata. Date queste premesse tali da rendere la musica inestricabilmente legata al film e viceversa, l’opera di Zimmer va valutata in quest’ottica e il risultato è di per sé affascinante. John Williams – Star Wars: Gli ultimi Jedi Cosa bisognerebbe dire ancora sulla colonna sonora di Star Wars, arrivata oggi al suo ottavo traguardo? Cosa si può aggiungere ulteriormente ai fiumi di parole spesi su una musica che probabilmente è l’incarnazione stessa dell’idea di cinema entrata nell’immaginario collettivo? Di un uomo come John Williams che, all’età di 86 anni, si ritrova alla sua cinquantunesima nomination, il personaggio con più candidature, secondo solo a Walt Disney? Forse sarebbe anche superfluo attribuire tale premio ora, nel 2018, a un compositore di tale caratura; sembrerebbe quasi scontato, qualcosa che suona più come una formalità che come un riconoscimento. Perché, al di là di ogni tipo di sviluppo che i prossimi episodi sveleranno, Star Wars non ha certo bisogno di riconoscimenti. Star Wars è John Williams e John Williams è Star Wars: aggiungere altro sarebbe totalmente inutile. |
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Aprile 2023
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