Domenica scorsa il primo concerto del Festival unito ai festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno del maestro. Silenzio. Bacchetta alzata, fiato sospeso, un poderoso accordo a piena orchestra riempie la sala per poi sciogliersi sulle dita di Sir AndràsShiff che scivolano lungo la tastiera del pianoforte. Così comincia l’Allegro del Concerto numero 5 op. 73 di Beethoven e così si apre il 79° Maggio Musicale Fiorentino. Non un’apertura consueta quest’anno: domenica 24 aprile cade all’indomani del giorno che Firenze ha dedicato a Zubin Mehta. Di origini indiane e di fama mondiale, compie 80 anni il 29 di aprile. Firenze lo ha già omaggiato sabato 23 con una serata aperta al pubblico a lui dedicata in Palazzo Vecchio, alla presenza del sindaco Nardella e del sovraintendente Bianchi. Riassumere la biografia di un artista di tale importanza senza lasciare fuori qualcosa di rilevante non è facile. Viennese di formazione, in Toscana arriva alla fine degli anni ’50, a Siena. Stringe amicizia con Claudio Abbado e Daniel Barenboim. Lo hanno visto dirigere tanti fra i più importanti teatri al mondo, dal Covent Garden alla Scala, al Metropolitan di New York. L’importanza della sua carriera è unita alla grandezza della persona. Intervistato proprio il 23 aprile ripercorre alcune delle sue esperienze più importanti indirizzate alla realizzazione di un grande credo personale: la musica come mezzo che porta civiltà, uguaglianza, pace e cultura. Nel 1994 diresse l'Orchestra Filarmonica di Israele in India, riallacciando rapporti diplomatici fra i due paesi ormai persi da decenni. Ha portato la Turandot a Pechino nel 1998, quando ancora di occidentale in Cina c’era ben poco. E così come ha portato la musica occidentale a Sarajevo, ha espresso la volontà di portare un’orchestra (magari proprio l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino) fra le macerie di Palmira e a Lampedusa. Nel 1964 dirige la sua prima opera a Firenze e dal 1985 è direttore principale del Festival (direttore onorario a vita dal 2006). Il Festival del Maggio Musicale Fiorentino nasce nel 1933, espressione di quelle antiche celebrazioni della primavera che ruotavano attorno al Calendimaggio che si svolgevano a in una Firenze invasa da musica, fiori e rappresentazioni teatrali. Cinque i direttori artistici fino ad oggi, fra i quali Vittorio Gui, che fu il primo, Riccardo Muti e proprio Zubin Mehta. E’ Beethoven quest’anno il filo conduttore, protagonista del concerto di inaugurazione e di varie iniziative collaterali come la serie di concerti a Casa Martelli, i concerti “Beethoven al fortepiano” e un ciclo di eventi cinematografici a lui dedicati presso lo spazio Alfieri,Controcampo Beethoven.Tanti i nomi fra i concerti in programma da quest’ultima settimana di aprile a luglio, fra i quali: Brad Ludman, Peter Rundel, Daniele Rustioni, Alexander Mayer. Tre le opere in programma: Iolanta di Čajkovskij, Albert Herring di Benjamin Britten e Lo specchio Magico di Fabio Vacchi. Importanti anche i concerti che fanno parte dell’ “extra festival”: La filarmonica della Scala, i Wiener Philarmoniker con Daniele Gatti, i Berliner Philarmoniker con Yannick Nézet-Séguin e l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo con Jurij Temirkanov. Non usuale la scelta di aprire con un concerto al posto di un’opera. Il concerto numero 5, chiamato l’ “Imperatore”, ha un carattere maestoso. Il pianoforte la fa da padrone e gioca con le altre sezioni dell’orchestra creando un incredibile dinamismo. Le mani di Sir Andràs Shifflo rendono al meglio, morbido ma protagonista nel suo carattere. A seguire gli archi intonano l’atmosfera indefinita dell’inizio della Nona sinfonia in Re minore op. 125. Come scrisse Wagner “dopo di essa non è possibile alcun progresso”. Di fama mondiale, di enorme respiro, di carattere “universale”. Dopo il concerto, scritto da Beethoven all’inizio della sua carriera, la sintesi della sua vita artistica conclude il concerto di inaugurazione nell’ottantesimo anno di vita del maestro Mehta. Innovativa per la presenza per la prima volta della voce umana, pietra miliare per le caratteristiche musicali. Il Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini canta l’inno alla gioia, un inno alla fratellanza universale che sicuramente si accorda perfettamente con quanto precedentemente detto del carattere di Zubin Mehta. E’ risaputo che Beethoven, dopo la prima della Nona, a Vienna nel 1824, a cui assistette ormai completamente sordo, non si accorse dell’ovazione del pubblico fino a che il primo violino non glie lo indicò. Zubin Mehta invece rimane sul palco tutti i lunghi minuti di applausi che il teatro dell’Opera di Firenze gli regala, simbolo del grande legame che lo lega alla città ormai da decenni. Si mostra commosso quando il coro gli canta “tanti auguri”. In un momento storico-politico in cui le divisioni e le differenze culturali la fanno da padrone è enorme l’importanza di persone di grande professionalità che credono invece nell’unione, nell’uguaglianza e nel potere della cultura e della musica. Immagini tratte da:
- https://i.vimeocdn.com/video/462370165_1280x720.jpg
0 Commenti
![]()
Essere trasportati nelle atmosfere dei primi cinema del secolo scorso, quando ancora il sonoro era assente e la musica dal vivo di un semplice pianoforte accompagnava le immagini in bianco e nero dello schermo: un’esperienza più unica che rara quella che si è svolta martedì 19 presso il cinema Arsenale di Pisa dove, per celebrare l’International Jazz Day indetto dall’UNESCO, il pianista Andrea Pellegrini e il violinista Steve Lunardi hanno musicato dal vivo una selezione dei primi cortometraggi della Walt Disney. Piccoli frammenti della storia dell’animazione come Steamboat Willie, The Gallopin’ Gaucho, Plane Crazy, The Fire Fighters e tanti altri (tutti con protagonista Topolino) hanno trasportato la sala gremita direttamente degli anni venti del novecento: a ricreare la giusta atmosfera un po’ vintage ci hanno pensato anche i due musicisti toscani avvezzi all’improvvisazione e al dialogo con le immagini cinematografiche.
L’affiatamento fra violino e piano è evidente, consolidato da anni di collaborazioni, contribuendo quindi alla buona riuscita dei vari commenti sonori tutti molto vari e finalizzati sia alla creazione di un tema ben preciso per ogni corto e sia per sottolineare particolari scene e situazioni dei personaggi. Considerando che i musicisti non hanno visionato anticipatamente le opere, l’improvvisazione ha avuto un ruolo fondamentale, permettendo di giocare con i fotogrammi e di non fossilizzarsi solo su un mood jazzistico ma spaziando anche in altri ambiti con piccoli accenni folk e sonorità più d’atmosfera. La musica seguiva meticolosamente il susseguirsi delle immagini senza mai sovrastarle o rubando loro la scena: un lavoro impeccabile e pieno di stile, di chi ancora crede che per fare jazz bisogna avere il coraggio di rischiare.
Com’è nata l’idea di musicare questi primi corti della Walt Disney?
Andrea Pellegrini: Poiché al cinema Arsenale c’è la tradizione di fare musica improvvisata su vari tipi di pellicole, dai cortometraggi ai film muti, abbiamo pensato di farlo anche per questa occasione. È un’operazione che facciamo ormai da diversi anni e che ha una valenza particolare soprattutto durante il mese di aprile in cui in tutto il mondo cade la Giornata Mondiale del Jazz. Parlando del vostro lavoro, com’è stato impostato? A. P.: Si tratta totalmente di improvvisazione libera e quando capitano questo tipo di operazioni spesso non abbiamo neanche visto prima il film col quale ci dovremo confrontare. Delle volte può capitare di trarre qualche idea dalle musiche originali della pellicola oppure di visionare il materiale segnandoci degli appunti, ma la maggior parte delle volte non guardiamo nulla quindi ciò che esce è pura improvvisazione. Ci si relaziona con l’immagine che vediamo lavorando per imitazione, per contrasto, per pura evocazione e spesso anche lasciandoci andare al caso.
Sempre presso il cinema Arsenale, la settimana scorsa è stato proiettato Ascensore per il Patibolo, il film di Luis Malle con la colonna sonora di Miles Davis. In sede d’intervista, Davide Malvisi descriveva il metodo di composizione ed improvvisazione del trombettista come estremamente rigoroso e parsimonioso nella scelta delle sfumature sonore. A vostro avviso, cosa scatta nella mente di un musicista quando si pone in relazione alle immagini in tempo reale come farete questa sera?
A. P.: È un’esperienza bellissima nonché molto divertente perché sei libero di suonare quello che senti sul momento; inoltre il confronto è più stimolante rispetto al suonare da soli o a condurre una performance di musica improvvisata perché è una sfida, quindi un gioco. Il nostro approccio è abbastanza differente rispetto a quello di Davis in quanto lui si preparò un canovaccio di accordi sui quali poi improvvisare, ma il punto è che nessuno dei due metodi è meglio dell’altro, semplicemente sono due stili e tecniche diverse. Se hai una serie di accordi già preparata puoi dedicarti con più calma al timbro, riesci a capire cosa aspettarti, quindi quello che si fa è in realtà composizione in estemporanea; se invece non hai nulla di tutto questo allora sarà pura improvvisazione nella quale il caso, l’ascolto e l’interplay giocano un ruolo fondamentale. Sono approcci diversi ma in ogni caso rimane un’esperienza bellissima.
L’evento di questa sera riporterà indietro nel tempo agli albori del cinema quando le pellicole non erano dotate del sonoro e tutto era affidato alla bravura dei musicisti (specialmente dei pianisti visto che nelle prime sale era presente soprattutto un pianoforte) che sul momento dialogavano con le immagini. Cosa può dire ancora oggi un approccio del genere al mondo del cinema e anche del jazz? Lo ritenete ancora valido? Steve Lunardi: Penso proprio di si, lo riteniamo adattissimo. Ogni musicista si abbandona completamente a sé stesso e non si sa cosa succederà: in ognuno di noi possono scaturire delle emozioni date da quello che sta succedendo nel film, dal dialogo fra i musicisti o anche da chi ascolta fra il pubblico. Fondamentali sono anche le nostre esperienze così come i nostri ricordi in base a film già visti in passato che magari non c’entrano nulla con quello che avviene sullo schermo ma che in noi rievocano dei collegamenti che diventano idee; queste idee si devono poi sviluppare dapprima attraverso un tema formale o informale, cioè suonato con note reali o con degli effetti sugli strumenti, e poi subire ulteriori sviluppi nel corso della composizione. L’obiettivo quindi è quello di creare delle vere e proprie composizioni, ma se il risultato sarà positivo questo sarà tutto da vedere: l’importante è rischiare. A. P.: Il jazz dovrebbe confrontarsi sempre con il rischio. Sempre più spesso oggi si suona jazz o cose simili al jazz con poco senso dell’avventura, con poco amore per il rischio, senza mettersi in gioco producendo alla fine cose abbastanza asfittiche. Non bisogna accettare il rischio solo quando si fa musica libera ma anche quando si fa musica scritta c’è sempre un margine di improvvisazione e quindi di avventura. S. L.: Ogni idea ti apre una porta, anzi un mondo: bisogna entrare in questo mondo e visitarlo. Se ciò che vedi e senti ti piace allora continui altrimenti chiudi quella porta e ne riapri un’altra. Il fine è questo: spostarsi da una parte all’altra continuamente in viaggio. ![]()
Cosa pensate dell’attuale scena jazzistica italiana e di quanto jazz c’è bisogno oggi in Italia?
A. P.: C’è un enorme bisogno di jazz. Non riesco ad immaginare un altro stile musicale di cui c’è più bisogno oggi da un punto di vista strettamente sociale: riesce ad abbattere le barriere fra le diverse generazioni, i popoli e le culture in senso generale. C’è bisogno di più jazz anche da un punto di vista più musicale e tecnico perché dà l’opportunità a tutti di entrare in relazione col suono in una maniera relativamente semplice attraverso la musica d’insieme, l’improvvisazione, il gioco. Per quanto riguarda il jazz in Italia, ma così come in tutto l’Occidente visto che si è abbastanza uniformato il modo di fare questa musica, da una parte c’è un’enorme offerta nei conservatori, nelle scuole di musica, nelle accademie e nelle università così come una maggiore possibilità di poter ascoltare qualsiasi cosa attraverso internet, ma dall’altra si trova un grande appiattimento. Sicuramente in Italia il livello tecnico e delle conoscenze si è alzato tantissimo ma si è persa quella che è la poesia del jazz, ovvero il lato artigianale e la componente del fare, sommersi come siamo da un sacco di progetti e di gruppi in più ma che raramente lasciano davvero il segno. È probabile che prima un musicista era più motivato ad incidere sulla scena nazionale ed internazionale visto che era più difficile apprendere determinate tecniche jazzistiche e potersi ritagliare il proprio spazio; uscivano meno cose ma erano quasi sempre rivoluzionarie, basti pensare a Massimo Urbani, Bruno Tommaso, a Pino Minafra, alle prime cose di Fresu o a Franco D’Andrea che è stato un colosso assoluto. Oggi sono tantissimi che fanno jazz ma quella poesia nel fare musica lasciando un segno e un significato si è persa. Forse in Italia ancor più che all’estero faticano a trovare spazio ed a emergere nuovi suoni e correnti, come la commistione fra jazz ed elettronica che sta prendendo sempre più piede. Questo è solo un esempio, e probabilmente fra i più ovvi e lampanti, ma dà già una certa indicazione della necessità di un ricambio di creatività in Italia. A. P.: Questo è vero ma c’è da aggiungere che c’è una sempre minore presenza di poesia e significato nella società, e personalmente riesco a spiegarmelo solo in parte. A mio avviso siamo in un periodo molto buio e di regressione dal punto di vista culturale in cui i mezzi di comunicazione sono posseduti solo dai più potenti e tutte le manifestazioni dal basso vengono sostenute sempre di meno; c’è un conflitto sempre più acceso fra le vecchie generazioni di rettori, insegnanti, presidi e gli insegnanti e gli allievi più giovani. Precedentemente capitava di suonare molto di più e soprattutto percepivi che chi ascoltava era molto più reattivo: giusto per fare degli esempi, l’applauso dopo il solo, la chiacchierata a fine concerto, lo scambio di opinioni con chi voleva conoscerti dopo un live sono tutte piccole cose che si stanno perdendo man mano gettando nell’anonimato i musicisti e la loro arte. Le persone faticano ad emozionarsi e bisognerebbe che si torni ad un rapporto molto più diretto e attivo, magari veicolato dalla classe dei maestri di musica che anche a costo di insegnare una scala o un autore in meno potrebbero lavorare con i ragazzi in questa direzione. È questo che fa il jazz.
Immagini tratte da:
foto dell'autore
La letteratura, il cinema, la musica, la vita stessa continuamente mettono in luce risvolti affascinanti e fuori dal comune che caratterizzano le ore della Notte, quando tra il calar delle tenebre e prima della comparsa dell'Aurora si producono storie incredibili che alla luce del giorno non potebbero altrimenti realizzarsi. Dopo essersi fatti introdurre all'interno delle Mura della città, i Greci sfruttarono la distrazione della notte per conquistare Troia. In "Sogno di una Notte di Mezza Estate" William Shakespeare dirige il suo concerto di scherzi amorosi, incantesimi di spiriti e burle paradossali tra gli estremi del tramonto e dell'alba, mentre nel film noir "Fuori orario" di Martin Scorsese il protagonista immerso nelle profondità della giungla del quartiere Soho di New York City si imbatte in tipi l'uno meno normale dell'altro, arrivando a rischiare l'osso del collo per poi ritrovarsi scaraventato davanti alle porte del suo ufficio all'orario d'apertura mattutino. In "To be alone with You", una delle sue classiche ballate di inizio carriera (targata 1969), Bob Dylan invece recupera l'atmosfera magica unica della notte per realizzare pienamente il momento d'amore: "Night-time is the right time to be with the one you love", cioè la notte è il tempo migliore, il momento eletto per starsene da soli con l'unica persona, quella vera, che ami".
Il 2 Ottobre del 1981 sulla cresta dell'onda del successo del loro terzo album "Making Movies", la rockband britannica dei Dire Straits pubblicò il singolo "Tunnel of Love", ballata musicata e composta dal frontman Mark Knopfler che in 8:55 si riproduce in un'incalzante cavalcata battuta sino all'esplosione finale tanto dalla cornice musicale quanto dal racconto dell'incontro bruciante con una sconosciuta avvenuto all'interno di un Luna Park. Introdotto da un valzer distorto ripreso dal musical Carousel del 1945 che gira nella mente seguendo il movimento della ruota panoramica, il viaggio si apre nella voce in prima persona di un uomo sicuro di sè al quale basta nominare con tinte poetiche le Montagne Russe, la Casa degli Specchi e l'Autoscontro per condurre l'ascoltatore al suo fianco, o meglio di fronte a lui, tutto d'un fiato sopra la sabbia stracalpestata del Parco dei divertimenti. Poche presentazioni prima di finire travolti attraverso un cerchio urlante di facce dentro il volto di lei ("In a screaming ring of faces, I saw her standing in the light") , perfetta sconosciuta bellissima nella luce in cui compare, con in mano un biglietto per un'altra corsa proprio come il nostro narratore, già cotto, descritto come un folle giocatore di poker e trapassato dalla freccia di Cupido ("There was an arrow through my heart and my soul").
"Tesoro, lasciamo le cose come sono." E' un gioco da ragazzi ora, solo un giretto" dice la pupa, vittima della notte e lesta a lanciarsi a capofitto nel vortice della libertà del divertimento alla vista dei neon che si ingrandiscono in modo sempre più pericoloso. L'avventura nel pieno della notte scoppia nel Tunnel of Love, sostenuta sin dall'inizio da un rock scoppiettante orchestrato dal tono aspro di Mark Knopfler.
La bussola è ormai saltata, i due protagonisti si danno l'uno all'altra, si fermano ad ammirare altri amanti, retrocedono mente e corpo allo stato infantile quando i genitori li accompagnavano per la prima volta alla Spanish city (Lunapark di Londra) portandoli a scoprire il tiro a segno, i flippers e le marionette. Le parole mancano ad un certo punto, si sfilacciano, affogano nel galoppo della musica della band che senza battere ciglio continua a tenere alta l'attenzione sullo spettacolo. Finchè ripreso fiato e terminata un'altra corsa, lei si volta tra un bacio fugace ed un medaglione d'argento sfilato nella tasca di lui, e nel ruggito dei motori fumanti scappa via ("And in the roar of the dust and diesel I stood and watched her walk away") lasciandolo lì impalato a inseguirla con lo sguardo, ma trattenuto da una forza ignota ed incapace di correrle dietro. Immobilità assoluta in quei muscoli che un minuto prima si rovesciavano in forma quasi inumana nella febbre dei sensi, sogno notturno che invece per il protagonista non conosce comunque soste anche dopo aver perso la sua lady per sempre. Eccolo infatti poco dopo intento a cercarla tra le giostre e gli ambulanti ma ormai non più per ritrovarla, bensì per cogliere le vibrazioni ricevute dalle gioie altrui e i ricordi delle tante promesse sentite nel passato. Ed intanto, parallelamente, il passo da falcata della band è scemato, si è abbassato gradualmente fino a concentrarsi tutto su un poderoso assolo finale del protagonista, di Mark Knopfler.
Solo sulla scena, l'epica Stratocaster rompe il silenzio della voce affranta di nuovo dal ricordo dei caroselli fanciulleschi. "Girl it looks so pretty to me like it always did, Like the spanish city to me When we were kids" Nella mente affiorano vivissimi profumi e sensazioni lievi come la prima parte dell'assolo, in preda ad una tensione emotiva profonda e impaurita che non da accenno a concludersi. Lento avviene il ritorno alla realtà della notte nel carnevale delle giostre, fortissima immediatamente dopo l'esplosione finale che in un rapido crescendo dettato da una piattata secca della batteria riporta alla scoperto i Dire Straits nella loro totalità e concede un'ultima sorsata allo show eccezionale della notte. Immagini tratte da: - Immagine 1 da ebay.it - Immagine 2 da Youtube
sostanzialmente mancava al suo film per renderlo grande, ma anche il rapporto fra jazz e cinema: due mondi paralleli e perennemente in contatto grazie alla loro capacità di fare del movimento la caratteristica portante delle rispettive poetiche, tramite la narrazione registica e delle immagini per il cinema e l’improvvisazione per il jazz. Ad introdurre il film erano presenti due fra i più importanti jazzisti della scena italiana, il contrabbassista Gianmarco Scaglia e il sassofonista Daniele Malvisi, profondo conoscitore dell’arte di Miles Davis e autore del recente album “Virtuous Circle Of Miles Davis”, originale omaggio al musicista americano uscito ad ottobre dello scorso anno. L’importanza di un album epocale come “Kind Of Blue”, la rivoluzione del jazz modale, la storica svolta “elettrica” di Davis così come ricordi ed aneddoti personali hanno accompagnato le parole e la musica del duo che ha eseguito in una veste inedita classici come Blue in Green, Milestone e Jean Pierre per una sala gremita ed immersa nel più completo silenzio. Un’occasione più unica che rara per ricalcare un pezzo di storia della musica accompagnati da chi quella musica la vive ogni giorno riuscendo nello stesso tempo a trasmetterne il coinvolgimento e l’apertura: ed è per questo che abbiamo fatto quattro chiacchiere con Daniele Malvisi che si è gentilmente offerto alla nostra curiosità per scoprire di più sul complesso mondo dell’arte di Miles Davis e del jazz in Italia, mentre in sala il bianco e nero del film dettava il ritmo (naturalmente jazz) della storia fatta di amori assoluti ed impossibili e di assassinii. ![]() D: Se Ascensore per il Patibolo è il capolavoro che è riuscito a diventare è anche grazie alla musica di Miles Davis che non è semplicemente descrittiva ma aggiunge un’ulteriore dimensione narrativa alla pellicola come un film nel film. Davis era una personalità molto particolare e un musicista senza compromessi; da cosa deriva secondo te la forza della sua musica nel film di Malle? R: Non trovo grandi differenze fra le immagini e la musica. La musica infatti è stata composta in questo modo: Miles Davis chiese di far scorrere i fotogrammi senza i dialoghi, come un film muto, suonandoci praticamente sopra quasi ininterrottamente, facendo solo qualche taglio e qualche ritocco in determinati punti. Questa è una pratica che lui usava spessissimo quando doveva affrontare un lavoro particolarmente creativo, facendo in modo, nel caso del film, che alla fine uscisse un commento musicale molto suggestivo. Non bisogna infatti pensare alla classica figura del compositore che svolge il classico lavoro da colonna sonora, scrivendo vari leitmotiv per i personaggi, il tema principale e quant’altro. Il lavoro di Davis è stato l’esatto contrario: la sua è una colonna sonora che ha come sua essenza la suggestione che le immagini suscitarono in lui. Dette giusto qualche minima traccia, come delle tonalità o decidendo via via se suonare in modo più contrappuntistico o maggiormente aperto, facendo quasi da tappeto, tralasciando invece le indicazioni ritmiche; le indicazioni quindi furono poche e molto libere, lasciando generare tutto sul momento. Penso che questa suggestione che animò la musica di Davis sia un valore aggiunto al film e che si possa percepire in maniera forte. ![]() D: Si può dire quindi che il quintetto di Davis, composto principalmente da musicisti francesi a parte il batterista Kenny Clarke, jammasse a tutti gli effetti con le immagini del film. Dal tuo punto di vista cosa comporta un lavoro di questo tipo? Che cosa entra in funzione nella mente dei musicisti quando si trovano ad affrontare, magari per la primavolta nella loro carriera come lo è stato proprio per Miles Davis, un tipo di relazione così particolare come lo è quello fra immagini e suono in tempo reale? R: Una delle caratteristiche davisiane era che durante le prime fasi di lavoro lui ti metteva in difficoltà e in un vero e proprio stato di disagio, senza dare minimamente confidenza, parlando poco e trattando i musicisti come se non esistessero, anche se in realtà ascoltava qualsiasi cosa si stesse suonando. Si veniva a creare quindi un livello di concentrazione talmente alto che difficilmente emergeva qualcosa che non potesse funzionare: ogni nota era parsimoniosamente selezionata quasi automaticamente dai musicisti che erano obbligatoriamente messi in condizione di ascoltare e fare attenzione. Questo metodo altamente personale è stato usato da Davis anche per Ascensore per il Patibolo, dove le musiche sono frutto di una selezione emotiva del ventaglio creativo e improvvisativo molto alta. Inoltre, aveva un’attitudine verso le registrazioni e le session da “buona la prima”: al di là delle tecniche di registrazione che non erano naturalmente come quelle di oggi, era un suo modo di essere e di fare musica. Miles in sostanza ti costringeva a dare il massimo e a non mollare: lo faceva per ogni suo album, figuriamoci per una colonna sonora come quella del film di Malle dove esiste un equilibrio fra i musicisti e gli eventi musicali che è semplicemente unico. D: Stasera avete suonato con una formazione ridotta all’osso: come mai questa scelta? E com’è stato rapportarsi in duo con una musica creata da più musicisti come è il caso del quintetto per la colonna sonora di Ascensore per il Patibolo? R: Questa procedura è abbastanza tipica del jazz. Noi siamo abituati a suonare in diversi contesti e formazioni, accettando anche delle sfide che possono risultare creativamente stimolanti: suonare con una formazione così ridotta ti porta a far conto con i tuoi limiti, anche espressivi. In un contesto del genere, ad esempio, se non si suona si viene a creare un vuoto, e se proprio vuoto deve essere che sia per lo meno quanto più musicale possibile. A mio avviso è una sfida molto affascinante che porta a cercare dentro colui che sta suonando scelte musicali diverse che magari non uscirebbero fuori eseguendo qualcosa di più classico come può esserlo un accompagnamento. D: Ascoltando la vostra performance si notava infatti come il silenzio della sala vi influenzasse anche in maniera diretta, dando un’altra dimensione al suono e ad alcuni accorgimenti melodici che improvvisavate. R: Assolutamente. Questa cosa fra l’altro è molto davisiana: lui diceva che per essere dei buoni musicisti bisogna imparare a suonare anche le pause. Sono un elemento fondamentale per chiunque abbia a che fare con la musica, e che fra l’altro si lega al mondo della parola: una persona che sa parlare bene e ha una buona oratoria sa dosare i suoi spazi e prendere le giuste pause, dando anche la possibilità di rendere più avvincente ciò che racconta. La musica funziona nello stesso modo. D: Nella colonna sonora il contrabbasso a mio avviso riveste un ruolo fondamentale acquisendo ancora più fascino poiché il suo suono si lega perfettamente al bianco e nero della pellicola. Fra l’altro è l’unico strumento all’interno della colonna sonora che si ritaglia alcuni momenti completamente slegati dall’accompagnamento del resto dei musicisti: uno strumento solitario, come Jeanne Moreau che cammina lungo le strade al neon immersa nei suoi pensieri. Se riveste così tanta importanza nell’economia complessiva dell’opera è perché il suo suono deve aver colpito molto Malle. Cosa ne pensi del ruolo di questo strumento all’interno del film? R: Il contrabbasso è un elemento imprescindibile, in particolar modo in questa colonna sonora. Davis lo usa come un veicolo per passare da un affresco ad un altro: lasciare libero lo strumento che disegna una serie di figure melodico-ritmiche permette di essere portati non solo da una scena ad un'altra ma soprattutto da un mood ad un altro così come da un climax ad un altro. È tipico dei jazzisti fluttuare continuamente intorno a ciò che è stabilito, sia esso un giro di accordi o una progressione armonica; ebbene, mentre tutta la formazione fluttua, l’unico elemento stabile è il contrabbasso. È lui che ti dice dove sei gettando le basi per tutto ciò che si costruisce poi sopra. A ciò si unisce anche la capacità di disegnare figure ritmiche grazie alla walking bass: la funzione del contrabbasso è quindi duplice, ritmica e armonica, denotando quindi una grossa capacità narrativa e di sostegno per tutto quello che è l’apparato jazzistico in genere ma non solo, visto che si potrebbe estendere lo stesso discorso anche all’hip hop. È certamente uno strumento cinematico, il che lo rende perfetto per il discorso artistico di Louis Malle all’interno del film. D: L’anno scorso hai pubblicato l’album “Virtuous Circle Of Miles Davis” a nome Daniele Malvisi six group, dove omaggi il trombettista con un’operazione musicale molto personale, prima di tutto perché la tromba è assente e poi perché presenta arrangiamenti elettronici. Com’è nato questo progetto? E cosa rappresenta ancora oggi per te la musica di Miles Davis? R: La sua musica continua ancora oggi ad essere una scoperta. Ormai la sua figura è diventata quella di un guru e una delle cose più interessanti è che lui è stato un musicista che riusciva a suonare i musicisti stessi; pensiamo semplicemente alla quantità di talenti che sono passati da lui e che si sono formati sotto la sua direzione, come una vera e propria scuola. Sicuramente una delle cose che più mi affascinano di Davis è certamente la grande forza comunicativa che ha la sua musica che ha fatto da legame perenne fra stili, generi e correnti molto differenti fra loro. Leggendo a posteriori la sua storia ho notato che, in qualche modo, ha continuato qualcosa che già era successa in passato: basti pensare ad esempio a Benny Goodman, primo musicista bianco a far suonare un nero nella sua big band, e come lui così tanti altri. Traendo spunto da quest’etica comportamentale, Davis ha esteso questo livello d’accoglienza a stili e a modi di intendere la musica profondamente diversi da quelli del jazz, riuscendo ad essere all’avanguardia e anche a cavalcare l’onda, portando inoltre a far dire ad alcuni che lo facesse meramente per raggiungere il successo. Personalmente non so dare una risposta precisa su come ci riuscisse ma so di per certo che la musica di Davis ha una forza comunicativa intramontabile e profondamente totalizzante come solo i classici riescono ad avere. In particolare porto sempre con me quest’ultimo punto e me ne sono reso conto dalle piccole cose che inserisco negli arrangiamenti, nelle tipologie armoniche e negli assoli: il titolo del disco si riferisce proprio a tutto questo, ovvero a dei circoli virtuosi che ritornano costantemente in tutto ciò che fai da musicista. Sono dei modi di rapportarsi alla musica, così come dei modi di ascoltarla e di pensarla da prospettive parallele o differenti a quella del semplice musicista. D: Il jazz è sempre stato un genere molto cinematico, sia nel senso che ha cercato di guardare a nuove sperimentazioni nel corso della sua storia e sia perché fa dell’interplay e dell’improvvisazione fra i musicisti una delle sue caratteristiche portanti. Per questo il rapporto fra il film di Malle e la musica di Davis è più di una semplice collaborazione ma l’incontro fra due mondi molto simili e paralleli. Nel 2016 fra l’altro sono previste varie pellicole su alcuni personaggi del jazz fra cui Chet Baker e lo stesso Miles Davis: come vedi il rapporto fra cinema e musica jazz? Credi che bisognerebbe incoraggiare maggiormente questo legame? R: Trovo film come Ascensore per il Patibolo o Round Midnight opere molto rispettose verso il jazz, a differenza di tante altre che non fanno altro che diffondere un’immagine molto stereotipata dei musicisti jazz visti esclusivamente come tossicodipendenti e decadenti. Spesso alcuni registi ci vanno a nozze con visioni del genere ma questo tipo di operazioni personalmente mi danno molto fastidio. Ad esempio, pur amando alcuni film di Clint Eastwood, trovo che Bird non sia un buon film sul jazz perché secondo me mostra molto il dramma personale di Parker e molto poco quello che ha fatto di artistico… eppure quello che Parker ha fatto ha cambiato non solo la storia del jazz ma anche quella della musica! È molto delicato accostarsi a figure del genere perché si rischia sempre di far sovrastare la vicenda artistica da quella biografica e questo lo trovo una disattenzione un po’ grossolana: l’eredità che certi musicisti hanno lasciato è così grande che a mio avviso un regista sensibile ed intelligente non può tralasciare. Il film di Malle e Round Midnight e pochi altri questo per fortuna non lo fanno. Tolti i grandi nomi, ancora oggi i jazzisti fanno la fame e non esiste il merito neanche nel mondo di questa musica visto che tutto ormai non si gioca sui palchi ma tramite gli investimenti e i rischi correlati. Inoltre, per addentrarsi nel mondo della musica, bisognerebbe che ci fosse un forte background culturale che educhi alla scoperta e all’ascolto, un po’ come faceva la tv nei decenni passati, ma purtroppo questo non si fa più. Il mondo della musica è cambiato e molto probabilmente è molto più difficile che in passato riuscire ad emergere nonostante oggi ci siano un sacco di giovani musicisti pieni di talento. D: L’UNESCO ha istituito la Giornata Internazionale del Jazz, ovvero il trenta aprile, a dimostrazione di quanto ormai questa musica sia patrimonio artistico universale. Cosa pensi della scena jazzistica italiana attuale e di quanto jazz ha bisogno oggi la nostra scena culturale per cercare di strapparlo ai salotti e a una visione banalizzante che ancora purtroppo sopravvive? R: Il livello dei musicisti jazz italiani è molto alto e sono molto apprezzati all’estero anche per la loro poliedricità data dal fatto che, non essendo molto considerati in patria, devono adattarsi a varie situazioni. Questo fatto ti porta ad avere un approccio creativo più imprevedibile e che spiazza gli ascoltatori stranieri. Anche a livello di gestione e di tutela dei festival molte cose andrebbero riviste anche se qualcosa sta lentamente cambiando. A mio avviso il jazz è una musica libera e che ti educa al pensiero e a guardarti dentro ma per come è impostato il mercato, che mira ad avere un consumatore non pensante, puntare su questo tipo di musica è assolutamente controproducente, trovandosi di fatto contro questa forma d‘arte. In Italia la situazione si aggrava particolarmente in quanto ci sono vecchi dinosauri, come gli enti lirici, che si sono impossessati di mezzi e risorse lasciando al resto le briciole, creando delle contraddizioni tutte italiane come quella di dover sostenere dei costi esorbitanti per pagare un musicista nostrano invece che uno straniero. Tutto ciò non agevola il jazz italiano ma se mai lo relega in una posizione di retroguardia. Il discorso è molto ampio ma a mio avviso questi sono alcuni degli elementi più evidenti. Immagini tratte da:
- Locandina da cineblog.it. - Davis1 da discogs - Davis2 da repstatic.it Le restanti sono Immagini dell'autore Due anime che si incontrano in un album e si raccontano in un tour. Livornesi entrambi, entrambi dello stesso quartiere, legati da un filo sottile che passa per la loro biografia e finisce nella musica. Piero Ciampi nasce a Livorno nel 1934. Inizia gli studi universitari a Pisa ma li abbandona imbracciando il contrabbasso e tornando nella sua città natale. Suona qua e là con i due fratelli fino a quando, senza un soldo in tasca, va a Parigi. Scrive canzoni e le canta dove capita. Lo chiamano “l’italiano” e proprio come Piero Litaliano inciderà i primi dischi in Italia, poco tempo dopo, all'inizio degli anni ‘60. Una vita fatta di fughe, da e per Livorno, dal successo che non arriva mai. Fughe unite a quelle delle donne che ha sposato, dei figli che ha perduto. Poche cose sono rimaste ferme nella sua vita: il vino, la musica e la poesia. Scrive brani per altri cantanti, incide dischi ma non raggiungerà mai il successo. Il carattere difficile, antipatico, presuntuoso lo fa rimanere costantemente nell’ombra e senza un soldo, collezionando occasioni discografiche puntualmente perdute. Nonostante questo c’è chi lo apprezza. Si guadagna amicizie importanti nel mondo musicale e discografico, ma viene lodato solo dai giovani del tempo e da certi critici. Di sé stesso diceva di essere un poeta, appellativo che rivendicava con forza, tanto da farlo scrivere sul passaporto. ![]() Bobo Rondelli ha 17 anni quando Piero Ciampi muore a Roma per un tumore alla gola. Non è da oggi che è presente nella sua vita e nemmeno nella sua musica, una presenza che dai suoi venticinque anni non è mai svanita. Nell’album “Disperati, intellettuali, ubriaconi”, registrato con Stefano Bollani nel 2002, è già presente Io e Te Maria, brano che ritroviamo anche nel suo ultimo lavoro. Dopo l’album del 2015, Come i carnevali, realizzato in collaborazione con il cantante dei Baustelle, Francesco Bianconi, ne registra uno lo scorso 19 novembre, dal vivo, al Nuovo Teatro delle Commedie di Livorno, in occasione del concerto tenuto per il Premio Ciampi Città di Livorno 2015. Il doppio album che ne deriva, “Bobo Rondelli canta Piero Ciampi”, contiene 16 brani da lui interpretati e 19 brani di Piero. La volontà di far riscoprire il cantautore al pubblico è esplicita. Nascono così una serie di concerti a lui dedicati che prendono il nome di “Ciampi ve lo faccio vedere io”. Concerti che hanno riscosso un discreto successo visti anche i due sold out a Firenze lo scorso 1 e 2 aprile. Bobo Rondelli lo racconta: un palco spoglio ed essenziale, una bottiglia di vino e solo due strumenti, un pianoforte (Fabio Marchiori) e una tromba (Filippo Ceccarini). L’omaggio al poeta si fa intimo, raccolto. È una continua altalena fra l’ironia dissacrante e irriverente delle sue parole che alternano i brani, e l’intima dolcezza, il dolore raccolto di questi. C’è il leggero disagio di essere su un palco davanti ad un pubblico seduto e in attento silenzio, cosa a cui non è abituato e non ne fa segreto. Ma c’è anche una commozione sincera, una complicità con quell’anima un po’ maledetta, che arriva forte e tangibile al pubblico tramite la sua voce, quanto le critiche politiche, sociali, religiose, le battute, le imitazioni. Più volte non ha nascosto di aver scelto i brani che sente di più suoi (oltre che quelli che si accordano meglio con la scelta dell’arrangiamento minimalista), quelli che lo coinvolgono di più emotivamente e questo si sente. Porta con grande sensibilità chi lo ascolta direttamente dentro a quel palazzo di giustizia, di fronte alla separazione dolorosa dalla moglie (In un palazzo di giustizia), di fronte all’amore per i figli (Sporca estate), agli amori perduti e affogati nel vino (Il vino, Io e Te Maria). La scaletta si snoda fra i brani di Ciampi e alcuni suoi fra i quali il suo omaggio a quella Livorno, aspramente ironica, anarchica, città di mare che li ha cresciuti e mai abbandonati. Dopo Bologna, Milano, Roma e Firenze, dalla metà alla fine di aprile le ultime date, fra le quali 4 in Toscana: Siena (il 14), Treviglio (BG) (il 15), Terranuova Bracciolini (il 16), Prato (il 25) e Massa (il 29). Fonti:
- Premio Ciampi città di Livorno. http://www.premiociampi.it/index.php/pierociampi/intervista - http://boborondelli.de/ Immagini tratte da: Immagine 01 (Foto di Laura Lezza) http://iltirreno.gelocal.it/regione/toscana/2015/12/14/news/bobo-rondelli-canta-piero-ciampi-il-cd-in-edicola-da-sabato-19-col-tirreno-1.12618544 Immagine 02 http://www.rocklab.it/2016/03/18/le-date-del-tour-di-bobo-rondelli-ciampi-ve-lo-faccio-vedere-io/
Lunedì 11 aprile, Il Termopolio ha avuto il piacere di intervistare le Missteryke, una rock-band toscana tutta al femminile che ha visto, a dicembre 2015, l'uscita del loro nuovo album, Effettivamente.
Buona lettura! ![]() D: Il nome del gruppo è particolare, qual è il significato? R: Il nome è nato per gioco, per prenderci in giro: è l’unione di tre parole, miss = donne, mistery = misteriose e isteriche. L’obiettivo è quello di esorcizzare l’idea comune che le donne siano tutte isteriche (il che è vero, aggiunge ridendo). D: Com’è nato il gruppo? R: Anche il gruppo è nato semplicemente per gioco. Durante una cena fra amiche, che condividevano e condividono tutt'ora la passione per la musica, abbiamo deciso di creare un gruppo. Siamo nate nel 2005, dall’idea di Stefania Brugnoni al basso e Simona Tarantino alla batteria, poiché Greta Merli, la chitarrista, ed io, Monia Mosti, la cantante, siamo arrivate successivamente (io sono entrata nel gruppo nel 2007). D: Fate solo musica italiana? R: Ovvio che si, per scelta. Il nostro nome, avendo la Y e la K porterebbe ad una pronuncia inglese, invece questo nome deve essere letto in italiano. Questo perché la musica italiana è molto bella e purtroppo capita spesso di sentire band italiane che cantano in inglese. Da parte nostra è inconcepibile perché rimanda all'idea che il rock sia solo inglese o americano, ma ciò non è vero perché esiste anche il rock italiano che ovviamente avrà sonorità proprie. ![]()
D: Avete iniziato facendo cover, quali facevate?
R: Per le cover, poiché eravamo agli inizi e facevamo rock, abbiamo cantato alcune canzoni che hanno fatto la storia del rock e quindi spesso caratavamo canzoni non italiane. Facevamo cover in inglese di artisti come Patti Smith, Janis Joplin e poi piano piano è nata sempre più l’esigenza di cantare in italiano. D: Quali sono gli artisti che ascoltate con più piacere e dai quali traete anche inspirazione? R: Nel gruppo, sia per età anagrafica sia per gusti musicali, convivono più anime. Nel senso che abbiamo Simona Tarantino alla batteria che ama più il rock anni ’80, ad esempio i Pink Floyd; la bassista Stefania Brugnoni che ha un amore viscerale per la musica anni ’30, ’40 e ’50, io, essendo del 1986, ho vissuto il boom della musica Pop italiana e ho portato il mio interesse per la musica italiana all'interno del gruppo. Le mie passioni sono: Gianna Nannini dei vecchi tempi, Loredana Bertè, insomma donne che hanno dato uno spessore alla musica italiana. La chitarrista, Greta Merli, l’unica ad aver fatto della sua passione la sua professione, va dai Radiohead a Wallis Bird chitarrista e cantautrice irlandese, poco conosciuta in italia.
D: Si diceva che Greta è l’unica ad aver fatto della musica la sua professione. Ma andando indietro nel tempo, come vi siete approcciate alla musica? Siete autodidatte? Avete seguito corsi specifici?
R: Stefania Brugnoni ha studiato chitarra classica, mentre per il basso è autodidatta: ad un certo punto ha sentito il suono di questo strumento e le è piaciuto, riversando su di esso anche le conoscenze della chitarra. Simona invece, fino a quando abbiamo deciso di fare il gruppo, non suonava nessun strumento: si è messa in gioco, all’inizio suonando la batteria su bidoni della tinta vuoti, poi seguendo un maestro. Io ho studiato canto una decina d’anni, mi sono poi dedicata per altri dieci anni al pianoforte classico e al sax. La musica in qualche modo l’ho sempre un po’ macinata. Greta invece è insegnate di chitarra, ha una scuola di musica. Tra l’altro da Dicembre ha avuto la bellissima notizia che è diventata endorser della Eko e quindi rappresenta un marchio italiano di chitarre collaborando con Massimo Varini. Lei è professionista a tutto tondo. D: Chi scrive? L’idea viene da una di voi o da tutte voi insieme? R: Parlando di idea in quanto tale, è ovvio che l’idea arriva in genere da un singolo. Quindi solitamente una di noi, che non necessariamente deve essere sempre la stessa, porta l’idea all'interno del gruppo, che può essere solo la musica o solo il testo o tutte e due. Poi la parte di creazione, arrangiamento e sviluppo avviene all'interno di tutto il gruppo. Diciamo in sostanza che la creazione è sia singola che collettiva. D: In genere viene prima il testo o la musica? R: Di solito si creano insieme: a volte è successo, ma si parla di pochissimi casi, che Stefania, scrivendo molto, ha composto il testo ma non avendo la melodia l’ha passato a Greta la quale viceversa, masticando tanta musica, scrive meno ma suona di più. La maggior parte delle volte musica e testo nascono assieme, come nel caso della traccia Part Time: è l’unica canzone nata ad otto mani, scritta e musicata durante una cena. D: Come vi rapportate con questo mondo che è prettamente maschile? R: Questa domanda è giusta perché se ci viene fatta molto spesso è perché in italia le band rock al femminile sono praticamente inesistenti. Se noi fossimo stati uomini avremmo avuto meno difficoltà soprattutto nel passato. Se una cosa l’abbiamo ottenuta in tre anni, da uomini l’avremmo ottenuta in sei mesi. All’inizio è stata molto dura, soprattutto perché quando entravi nei locali sentivi, ma questo succede ancora oggi, gli occhi addosso un po’ per curiosità e un per lo spiazzamento che procuravamo. All’inizio, quando chiedevamo di suonare nei locali portando i demo ai proprietari dei locali questi ci rispondevano che a loro non interessava, in quanto bastava fossimo donne. Oramai con chi ci conosce nell’underground livornese e pisano si è creato un rispetto tale che non c’è più differenza fra uomo e donna, ma siamo musicisti alla pari. Ma se suoniamo in luoghi dove non ci conoscono troviamo ancora queste difficoltà. Non so se siamo in poche come band al femminile perché effettivamente poche o perché tante non riescono ad emergere. Pensate che Livorno, oggi, è la città italiana con più band emergenti e averne conosciute solo tre-quattro è significativo. D: Cosa ne pensate dei Talent Show? R: Quando ero solista feci le selezioni della prima edizione di X factor. Quindi non vi posso dire che dei talent show penso male. Con il gruppo abbiamo fatto domanda l’anno scorso, ma non era ancora uscito l’album e non avevamo ancora un progetto presentabile. Secondo me chi ne parla male a priori sbaglia, perché se esistono significa che la gente ci prova e che li guarda. Inoltre i talent show non saranno sicuramente la nostra strada sia perché ci piace stare sui palchi live e toccare con mano la situazione, sia perché se dobbiamo scegliere fra una band nata per strada e una band nata al talent preferiamo la strada del palco. Non la facciamo la nostra ragione di vita. Il brutto del talent è che molto spesso toglie la qualità.
D: Ed ora parliamo del vostro ultimo album, dal titolo Effettivamente, uscito il 18 dicembre 2015. R: Effettivamente è il nostro secondo album, il primo fu Tempismi Imperfetti uscito nel 2011. Rispetto al primo la differenza risiede innanzitutto nei mezzi utilizzati per la registrazione: Tempismi imperfetti è stato un album quasi casalingo che ha visto un passaggio in studio solo per la parte di mastering ed editing; era anche il primo approccio all'inedito e al mondo dell'autoproduzione. Questo invece è stato completamente creato e costruito in uno studio di registrazione professionale, Percorsi Musicali di Livorno, con un fonico altrettanto bravo, Daniele Pistocchi. La differenza è ovviamente di qualità e soprattutto di sound perché nel primo album c’era un’altra chitarrista. Si sa che quando un componente entra in una band porta una sua qualche caratteristica e se ad entrare è un chitarrista il sound cambia ancora di più. In questo album, con l’ingresso di Greta, siamo passate dal metal al rock e ciò ha rappresentato per noi l’apertura alla dimensione che stavamo cercando. Effettivamente è il nostro il primo passo da professioniste, è stato prodotto grazie a Musicraiser, una campagna crowdfunding, con la quale abbiamo raggiunto il budget: dobbiamo ringraziare quindi le persone che hanno creduto nel nostro progetto. A differenza di Tempismi Imperfetti, il cui titolo deriva da una traccia all’interno dell’album, con Effettivamente abbiamo cercato un significato più profondo. Non ci sono tracce con quel titolo, è un richiamo voluto a questa parola, molto usata in Toscana e spesso impiegata durante il confronto tra due persone: dicendo “effettivamente” uno sente qualcosa dentro di sé, si presuppone una sorta di consapevolezza anche del punto di vista dell’altra persona. Vorremmo che i nostri ascoltatori capissero, ascoltando le nostre canzoni, i nostri punti di vista. D: Qual è una canzone di questo album alla quale siete particolarmente legate o alla quale è collegato un aneddoto particolare? R: Ci sono tre canzoni che ci hanno toccato di più. Una è La mente non ha idee che è stato il singolo uscito in contemporanea con l’album ed è quello che ci ha consentito di girare il nostro primo videoclip professionale, caricato anche su You Tube per chi volesse cercarlo. Sicuramente ciò ha segnato uno step, l’approcciarsi con una nuova realtà. Un’altra è Part Time, ne parlavamo prima: le nostre canzoni sono molto autobiografiche o comunque parlano di cose, magari raccontate da persone che conosciamo, che in qualche modo ci sono rimaste addosso. In Part Time c’è il parallelismo tra la voglia di cercare un lavoro e la voglia di trovare un amore, quello vero. Un’altra canzone alla quale siamo molto legate e che è la ghost track dell’album, della quale, essendo ghost, non vi svelo il titolo (ride): vi posso dire che è dei Doors ed è stato un nuovo esperimento, nel senso che il regista Matteo Tortora, un regista fiorentino, ci chiese di realizzare la colonna sonora di un suo documentario, ancora in fase d’opera, e noi l’abbiamo fatta in stile “missteryko”. ![]()
D: Quindi dicevi che sono argomenti che vi sentite addosso ed è per quello che, anche nel cd, le canzoni sono scritte sulle vostre schiene?
R: Esattamente. In copertina c’è una schiena con un cancello che non si sa se è aperto o chiuso: essendo mezzo aperto c’è comunque un attraversamento ed uno sviluppo; in genere poi si associa il bagaglio culturale e di esperienze alla schiena, il bagaglio che ti porti dietro. E quindi abbiamo pensato di scriverci realmente, con carboncino, sulla schiena i titoli delle canzoni. Abbiamo tirato fuori anche argomentazioni molto forti, argomentazioni che comunque segnano e quindi abbiamo deciso, non essendo persone che girano intorno ai fatti, che il nostro album dovesse rappresentare, anche graficamente, il nostro pensiero. D: Il nome dell’album è Effettivamente, avverbio che indica una presa di consapevolezza della realtà. Quindi le vostre canzoni, come Part Time per il problema del lavoro, Annalucie per la violenza sulle donne ed Edi, rappresentano spaccati di vita? R: Si esatto! Edi tra l’altro è una donna realmente esistita nella vita di Greta Merli. È stata una delle prime ostetriche di Livorno, si è sposata tardissimo, andava in bikini al mare e fumava. Tutte cose che nell’Italia degli anni del dopoguerra creavano scandalo. È una delle poche donne che a quell’epoca si era laureata. A gennaio 2016 ci ha lasciati all’età di 90 anni. D: Quanto è forte allora la vostra componente sociale nelle vostre canzoni? R: La componente sociale è talmente forte tanto che noi definiamo il nostro rock sociale. D: La mente non ha idee è la prima traccia dell’album e può essere considerata come prologo? R: Si, è stata la prima canzone scritta per l’album e la disperazione di non avere idee in quel momento ha poi aperto la strada per tutte le altre canzoni dell’album. D: Ci sono anche canzoni d’amore? R: Si, come Ti lascio andare. Nella canzone Ti lascio andare non abbiamo dato una dimensione precisa dell’amore. Si parla dell’amore in generale. In qualsiasi rapporto dire:” ti lascio andare” è segno di maturità. Cuore in Coma invece parla delle morti sul lavoro. Parla di un amore-affetto, ma è quello del punto di vista di chi accudirà il proprio caro infortunato. D: Quanto è stato importante per voi rivisitare la canzone Annalucie di Alessio Santacroce? R: Noi con Alessio collaboriamo già da diverso tempo sia perché fece una recensione sul Tirreno del nostro primo album e soprattutto perché anche lui suona in un gruppo: I Quarta via. Questa canzone è l’unica che non abbiamo scritto noi. Alessio la scrisse ma non trovò la chiave di lettura e la lasciò nel cassetto. Poi decise di cederla a noi. La rivisitammo e gli piacque molto, tanto è vero che ci ha ceduto anche i diritti SIAE. È un regalo grandissimo che ci ha fatto.
D: State lavorando ad un altro album?
R: Ovvio che si. Anche se questo album è uscito da poco non vi abbiamo messo tutte le canzoni. Abbiamo già nuove idee, abbiamo scritto nuovi pezzi, alcuni li abbiamo già musicati e dunque stiamo lavorando per far uscire il terzo album. D: Prossimi concerti ed eventi? R: Il 30 Aprile saremo alla Birrosetria dei Golosi a Livorno. Il 22 Maggio alla Fiera dell’esposizione al palazzetto dello sport di Empoli per una rassegna che si chiamo Rock for life. Il 24 Giugno al The Grapes Pub di Pontremoli. Poi chi vuole vedere le nostre date può controllare la nostra pagina di facebook e di twitter. Sicuramente faremo un’estate di live e presentazioni; poiché abbiamo fatto una campagna promozionale su Music Raiser, per invogliare la gente a sostenerci, abbiamo messo a disposizione concerti a domicilio per chi ci finanziava. È una cosa particolare e bella perché in questo modo c’è la possibilità di conoscere persone nuove. Ci recheremo a Mantova e forse in Sicilia. D: Ultima domanda, dove si può trovare il vostro album? R: Il primo album è stato edito da una casa discografica che ci ha aiutato anche nel management, nel diffondere e nel distribuire il nostro lavoro. Stavolta abbiamo deciso di fare tutto da sole. Per ora il cd fisico si trova sia in alcuni negozi tipo Disco&Vinile a Carrara, in Via Ghibellina, a Pisa alla Galleria del Disco e al Gap Store. Inoltre vi è la possibilità, per coloro che non sono di queste zone, di contattarci su facebook per prenotare l’album e noi lo spediremo. Fra un mese circa saremo su tutte le piattaforme digitali. È vero, sono di parte ma avere il cd, secondo me, è un’altra cosa: è bello poter toccare la copertina di un disco. Inoltre la copertina di questo cd ha una particolarità: è più grande rispetto alla copertina di un album normale, sembra quasi la copertina di un 33 giri, perché è un brevetto studiato da una stamperia di Livorno. D: Se vuoi dire qualcosa ai lettori del Termopolio? R: Innanzitutto vi ringrazio ed anche le mie compagne Stefania Brugnoni, Simona Tarantino e Greta Merli vi ringraziano. Io sono Monia Mosti alla voce. Grazie di cuore, siete stati disponibilissimi e che dire? Se ci vedete nei locali non pensate “oddio queste donne!” Complimenti per l’ottimo lavoro che state facendo!
Immagini tratte da:
Immagini fornite dal gruppo o degli autori
Domanisera (9 aprile 2016) anche Pisa conoscerà l'atmosfera magica creata dalla voce della cantautrice Levante, al secolo Claudia Lagona catanese di nascita (cresciuta a Palagonia, vicino a Caltagirone), torinese di adozione dall'età di 11 anni ed oggi tra le più briose e rassicuranti realtà del panorama musicale italiano. Al Lumière andrà in scena una nuova tappa del suo "Abbi cura di te" Tour 2016, già sold-out in diverse date lungo la penisola per un successo di pubblico e di critica meritato per la giovane artista, che nell'estate del 2013 entrò prepotentemente nella programmazione radio e nelle orecchie di moltissimi con il suo primo singolo (e tomentone) "Alfonso".
"Che vita di merdaaa!" urlava in questo brano la venticinquenne Claudia, Levante in arte come l'alba e il vento che arrivano dall'Oriente ad illuminare e rinfrescare l'Italia intera, allevata in un clima familiare di creativi nati e avvicinatasi alla chitarra e alla scrittura ad 11 anni nel periodo in cui dopo la morte del padre si trasferì in quella Torino al giorno d'oggi porto felicissimo di numerosi arrivi culturali, e principalmente musicali. Università, prima Lettere poi Psicologia, il lavoro da barista per mantenerseli gli studi e andare a vivere da sola, una serie di incontri e tentativi purtroppo mal terminati nei primi contatti col mondo discografico. Nel mezzo un trasferimento in Gran Bretagna, vedi Leeds, alla ricerca di identità e strade con cui potersi confrontare, ed il riabbraccio decisivo con l'italiano e la pulsante scuola di talenti torinesi "venuti su" proprio come lei (su tutti i cantanti e musicisti Alberto Bianco e Daniele Celona) e lanciati dall'etichetta INRI.
Con produttore il fidato amico Davide Pavanello così Levante nell'estate 2013 si affacciò sul selvaggio mosaico della musica italiana riscuotendo click su click, recensioni positive ed una condivisa ammirazione per la bellezza della persona come della sua arte attraverso l'esordio fulminante di "Alfonso", cui seguirono l'apertura dei concerti del "Sotto casa tour" di Max Gazzè e l'invito da parte di Fiorello di esibirsi all'interno della sua trasmissione su Rtl 102.5 "L'edicola". La Stairway to Heaven, l'anticamera per l'uscita del primo album nel Marzo del 2014 "Manuale Distruzione", autoscatto dello spirito combattivo (bel biglietto da visita la traccia "Duri come me") di una ragazza desiderosa di rialzarsi dopo aver sofferto intensamente d'amore ("Memo" e "Sbadiglio", i due brani a mio avviso migliori vibrano di malinconia e dolore), che traccia con ironia e mancanza di vergogna il bilancio di sè. "Manuale Distruzione" conquista fan e critica perchè è un disco di un pop tanto ben scanzonato e ritmato quanto aperto ad un'analisi sentimentale non banale.
Di lì a poco il termine Levante a livello nazionale non viene più ristretto al campo geografico oppure ricordato estemporaneamente come il nome del protagonista de "Il Ciclone" di Leonardo Pieraccioni, dal momento che la sua "nuova portavoce" ormai è apprezzata a furor di popolo sia dai club e le piazze, tra cui Piazza San Giovanni a Roma per il Concerto del 1 Maggio 2014 e 2015, sia negli ambienti accademici della critica musicale italiana che riconosce il suo talento candidando "Manuale Distruzione" tra i finalisti al Premio Tenco per il "miglior album d'esordio". Claudia Lagona si accorge di aver compiuto un grande passo, al quale ne fa seguire da Ottobre 2014 quasi senza pause numerosi altri, come il passaggio alla storica casa discografica milanese Carosello Records, con la quale realizza il suo secondo disco "Abbi cura di te", mantenendo tuttavia ben saldo il legame con la INRI per la conferma della produzione da parte di Pavanello come dei componenti della sua band. Vede la luce dunque nel Maggio del 2015 "Abbi cura di te", l'opera di una Levante che sulla copertina a mento alzato e fiero fa il verso ad Amleto, sollevando un piccolo cuore al di sopra di un cervello enorme ma sgonfio, in un'immagine che sembra dire "ascolta e dai più importanza a ciò che senti dentro, e meno a quel che ti costruisci in testa". Guarita dalle ferite del passato, a cantare una sostanziale pace interiore e consapevolezza delle cose della vita è una donna sbocciata nei lineamenti come nelle liriche. Al messaggio centrale di preoccuparsi di riservare un occhio di riguardo prima per il proprio benessere e poi per quello altrui contenuto nella title - track "Abbi cura di te", si ricollega la scoperta di poter vivere momenti di profonda tenerezza amorosa ("Finchè morte non ci separi", cantata in coppia con la madre), di acuto orgoglio ("Ciao per sempre"), e di quotidiana saggezza ("Le lacrime non macchiano", canzone finalista al Tenco tra le migliori 5 italiane del 2015 come l'album intero).
Immagini tratte da:
- Immagine 1 gentilmente concessa dall'ufficio stampa del Lumière - Cover albums da www.inritorino.com Una carriera piena di titoli di successo che l’hanno imposto come uno dei più affermati compositori di musica da film hollywoodiani, senza però mai riuscire a vincere un Oscar: Thomas Newman, americano classe 1955, ha ricevuto la sua tredicesima candidatura durante l’ultima celebrazione dell’Academy per il film diretto da Spielberg e scritto dai fratelli Coen Il Ponte delle Spie.![]()
Se tutti quanti eravamo rimasti stupiti nel corso degli ultimi di anni di come Leonardo DiCaprio non fosse riuscito a vincere l’Oscar come miglior attore protagonista per una delle sue tante convincenti performance, cosa bisognerebbe allora pensare del destino beffardo di Thomas Newman? Nel corso della sua lunga carriera, iniziata col botto già a partire dal 1983 quando John Williams lo invitò ad orchestrare alcune sue partiture per il terzo film di Star Wars Il Ritorno dello Jedi, il compositore americano ha visto costantemente soffiarsi sotto il naso l’Oscar per la migliore colonna sonora originale. Non che Newman sia sempre rimasto a bocca asciutta: ai riconoscimenti mancati dell’Academy si affiancano invece un Emmy, due premi BAFTA e ben sei Grammy di cui uno vinto con il pezzo Down To Earth scritto insieme a Peter Gabriel per Wall-E.
Nonostante ciò è interessante notare come un artista della sua caratura, perfettamente inserito all’interno del contesto hollywoodiano e membro, come se non bastasse, di una famiglia di compositori per musiche da film (insieme a David e Maria, compositori entrambi, è figlio di Alfred Newman, uno dei più grandi creatori di colonne sonore del periodo d’oro di Hollywood), non sia riuscito a vincere un Oscar, a causa delle strane ed imperscrutabili logiche che regolano l’Academy. Eppure la musica di Thomas Newman è quanto di più hollywoodiano il cinema di massa possa richiedere: da Piccole Donne a Vi presento Joe Black, da American Beauty, Il Miglio Verde e Alla ricerca di Nemo, passando per lo 007 di Skyfall, Newman ha musicato alcuni dei prodotti cinematografici più di successo usciti dagli studios americani, quei prodotti che nonostante fossero dotati di un basso livello artistico per originalità e ricerca hanno saputo unire cura estetica e gusto della narrazione. È anche questo il caso del suo ultimo lavoro per Il Ponte delle Spie, film che segna l’esordio della collaborazione fra Newman e Spielberg il quale, per la prima volta dai tempi di Il Colore Viola del 1985, si è dovuto avvalere di un compositore che non fosse il fidato John Williams (impegnato come sappiamo con l’ultimo Star Wars e debilitato anche da alcuni problemi di salute non gravi). Nel lavoro scritto, arrangiato e diretto da Newman riecheggia l’influenza del compositore che ha reso grande Star Wars ma con delle differenze sostanziali che pongono i due artisti su piani differenti: se le musiche di Williams riescono ad acquisire una propria identità indipendentemente anche dalle immagini delle pellicole, quelle di Thomas Newman falliscono in questo aspetto per buona parte della sua durata. Il discorso cambia se la colonna sonora viene posta all’interno del contesto del film: lì acquista la sua forza, riuscendo a donare anche una buona profondità agli ambienti, ai dialoghi e ai volti dei personaggi. In particolare, i toni ora tesi dati dall’orchestra, ora invece più misteriosi delle piccole melodie del piano nel tema principale, si accordano molto bene con la fotografia del film, fredda e “sporca” quanto basta per dare un tocco vintage all’intera pellicola. Presa come musica a sé stante, la colonna sonora non presenta momenti di rilievo compositivi o che possa donare particolari guizzi emotivi; sembra quasi che le note scorrano sull’ascoltare come acqua, o come la neve della Germania Est dove è ambientata la vicenda: come quest’ultima si scioglie subito al sole così una volta finita la musica non rimane che un senso di indifferenza. L’unico momento musicale che smuove la situazione è il quartetto composto dalle brevi Private Citizen, The Impatient Plan, West Berlin e Friedrichstraße Station: più degli intermezzi che dei veri e propri pezzi, in pochi minuti riescono a sintetizzare l’atmosfera del film, a differenza delle altre composizioni che invece rimangono troppo chiuse su sé stesse e su una musicalità che punta tutta sulla limpidezza del suono dell’orchestra. Ma questo non basta assolutamente e anzi rischia di far appiattire il tutto su una mediocrità e banalità che un compositore sicuramente dotato come Thomas Newman potrebbe tranquillamente evitare se lo volesse. La sua musica rimane legata troppo alla pellicola, il che non è assolutamente un male, ma questo giustifica il fatto che anche nella scorsa edizione degli Oscar il premio gli sia sfuggito di mano: di fronte alla musica di The Hateful Eight, come anche a quella degli altri candidati, quella del Il Ponte delle Spie non regge il confronto. Provaci ancora Thomas.
Immagini tratte da:
cover, da www.discogs.com Thomas Newman, da Wikipedia, Simon Fernandez, CC BY 2.0
Compiere vent'anni di carriera quando gli "anta" ancora non li hai raggiunti, già di per sè rappresenta un primato di un certo orgoglio. Se poi a questo aggiungi che in questo ventennio di dischi ne hai portati a casa nove escludendo le raccolte e i live, che all'esordio nel 1997 hai spaccato di brutto e non solo in Italia, che hai vinto San Remo a 24 anni e, tra gli altri, hai cantato su un brano composto da Ennio Morricone per Django di Tarantino, beh ti chiami Elisa e la musica sai farla.
La cantautrice friuliana ha scelto il Venerdi Santo, 25 Marzo, una data molto poco "elettrica" come il sound che caratterizza questa fase della sua carriera per pubblicare il suo nuovo album "On", il nono della sua storia, lontano anni luce dai precedenti ma più dalla dolcezza dell'oro vivissimo di "Pearl Days" che dalle manifestazioni di genuina sete giovanile dei primissimi "Pipes and Flowers" e "Asile's World". Ce la ricordiamo bene l'Elisa selvatica che trasformava i canti tirolesi e friuliani in bombe pop da coraggio prima di salire sul palco di Sanremo e vincere con "Luce", in italiano per la prima volta ma senza tradire la sua musica di "confine" tra le radici italiane, il pop-rock internazionale, il soul di dichiarata ispirazione Aretha Franklin. Ecco "On", sulla scorta del precedente "L'Anima vola" del 2013 e della ferrea volontà di immersione nel carrozzone "Amici", un disco di ripartenza 0 potremmo definire. Perchè l'Elisa di oggi, quasi 40enne, mamma ed estroversa, è sbocciata coi tempi giusti attraverso le vesti molteplici di ribelle, di pura, di rockettara tosta, intima narratrice, interprete affermata desiderosa di mostrare nuove parti di sè anche sexy e cantare altro.
Da questi presupposti nascono allora le 13 tracce di un album in cui domina un generale registro elettronico e synth di respiro internazionale, escludendo il brano conclusivo 'Sorrido già", pop classico all'italiana con gli amici Emma e Giuliano Sangiorgi. Elisa decide di non affidarsi ad un produttore autentico nella costruzione del disco, di fare tutto in casa con la band, di sperimentare molto un ricorso al soul dei maestri Aretha e Redding in "Love is a kinda war" e "Rain over my head", ma allo stesso tempo non mette da parte nè il pop puro di "Bad habits" e l'energia dance di "Peter Pan" e "Love me forever", riportato alla luce dopo averlo cominciato e congelato a soli 14 anni. Più che innescare un rapido desiderio di ballare, anche dati alcuni ritmi stile Shrillex e Diplo da Elisa stessa rivendicati, "On" si ascolta e si apprezza volentieri per il tentativo non riuscito del tutto di affacciarsi sul mainstream conservando un tocco indipendente da parte della cantautrice che nel concreto esiste.
Serve tempo per potenziare ed immagazzinare meglio le ventate drum'n'bass attuali, tant' è vero che le migliori prove del disco arrivano dalla ballata "Waste your time on Me" in compagnia dell'ottimo cantautore italo-britannico Jack Savoretti e la marcia psichedelica in stile Doors di "Catch the light". Come il gattino in copertina, tenero ma se stuzzicato lesto a graffiare e far ancor più male, l' Elisa di "On" al momento sta ancora sviluppando gli artigli ma dopo 20 anni di fuochi tutt'altro che fatui di tempo gliene lasci, eccome.
Immagini tratte da:
- Immagine 1 da http://www.optimaitalia.com/blog/2016/03/25/lavventura-pop-di-elisa-nel-nuovo-album-on-la-perla-e-savoretti-laudio-di-tutte-le-tracce/259272 - Immagine 2 da https://musicstarsblog.wordpress.com/2016/02/13/elisa-on-e-il-titolo-del-nuovo-album-di-inediti-che-uscira-il-25-marzo-a-novembre-il-tour-nei-palasport/ - Immagine 3 da http://realityshow.blogosfere.it/post/695920/elisa-nuovo-album-on-canzone-sorrido-gia-con-emma-marrone-giuliano-sangiorgi
Alla 88ttesima kermesse degli Oscar un altro titano della musica da film insieme a Morricone era in corsa per il premio come miglior colonna sonora originale: l’ottantaquattrenne John Williams, ovvero l’incarnazione della saga di Star Wars in musica.
Basterebbe nominare solo il titolo di una delle saghe più famose del cinema e il nome del compositore che ha contribuito a renderla immortale per aprire non solo un mondo, ma molteplici mondi, almeno tanti quanti sono quelli nei quali è ambientato Star Wars. La saga creata da George Lucas negli anni settanta è quanto di più iconico il cinema abbia saputo partorire, contribuendo pesantemente a plasmare l’immaginario collettivo su determinati stili e personaggi. L’importanza e il valore dei sette film che attualmente compongono gli episodi di Star Wars va oltre il mero fatto cinematografico: investe la comunicazione e il modo in cui media e società ricreano continuamente miti, riti e simboli. Se si vuole essere più espliciti, oggi questi prodotti culturali svolgono lo stesso ruolo che in passato hanno avuto opere come ad esempio l’Iliade e l’Odissea. Questa piccola introduzione è doverosa, almeno a parere di chi scrive, per sottolineare il fatto che qualsiasi cosa porti il marchio Star Wars è di per sé, oltre che un evento, un prodotto con una ben precisa identità e un contesto di riferimento. È per questo che quando si parla di questa saga si sa già ciò che verrà presentato allo spettatore/fruitore, e quindi quali saranno i parametri entro i quali collocarla, anche quando si tratta di un nuovo film, il settimo episodio “Il Risveglio della Forza”, che in teoria doveva rilanciare il brand per una nuova generazione cresciuta a pane, social e web 2.0. Dopo aver visto la pellicola ognuno ha tirato le proprie conclusioni su quanto l’operazione sia riuscita o meno, o se addirittura andasse fatta o meno, o su quanto il nuovo tassello della saga si discosti o si avvicini agli altri; una cosa si può dire però con certezza, ovvero che rivitalizzare un colosso cinematografico che ha trentotto anni di storia alle spalle non è un’operazione facile, tanto più se si tratta di un nuovo inizio per l’intera saga. È qui allora che entra in gioco tutta la forza iconica di Star Wars: personaggi, ambientazioni, i singoli elementi (la forza e il suo lato oscuro, spade laser, astronavi ecc.) sono le armi che ha disposizione e che possono essere facilmente riconosciuti da chiunque, anche da chi non ha visto tutti i film se non addirittura nessuno. ![]()
Ma attenzione: alla schiera di elementi messi in campo da Star Wars non bisogna dimenticarne uno assai importante, di certo quello che ha contribuito in maniera fondamentale al suo successo. Stiamo parlando della musica. Ovvero di John Williams. Sin da quando fu Spielberg a suggerire a Lucas di rivolgersi al compositore di New York, le note di Williams sono diventate uno dei simboli di Star Wars, facendo sostanzialmente il cinquanta per cento dell’atmosfera dei film, anche in quelli considerati meno riusciti (valga come esempio il brano “Duel Of The Fates”, uno dei più belli di tutta la saga, da “La Minaccia Fantasma”). Pensare a Star Wars senza quella musica (e solo quella) è praticamente impossibile: questo dimostra quanto il legame con quelle immagini sia indissolubile, cosa che avviene in casi più unici che rari, come l’Oscar a Morricone ci ha fatto ricordare (il quale, guarda caso, durante il suo breve discorso ha ringraziato due sole persone, sua moglie e proprio John Williams). Inutile quindi cercare di sindacare sul fatto se le note partorite dalla Los Angeles Philarmonic, al posto della storica London Symphony Orchestra, registrate ad Abbey Road siano adeguate o meno alle immagini: per tutti i motivi sopra esposti e tanti altri lo sono e non poteva essere altrimenti. Diverso il discorso se si ascolta la colonna sonora come musica a sé stante: lo scarto con il passato è evidente e viene evidenziato dalla presenza di nuovi temi originali che si ricollegano con le musiche della prima trilogia non solo con la ripresa di alcuni leitmotiv (il tema principale, naturalmente, ma anche il tema della forza, quello per Han e Leia e quello dei ribelli) ma soprattutto per lo stile neoromantico e wagneriano tipico di Williams. La capacità di creare temi perfettamente identificabili con i personaggi è viva anche in questo settimo episodio: il tema di Rey e quello di Kylo Ren sono le due principali novità, i perni intorno ai quali il gusto di John Williams riesce a ricamare come degli abiti note dal sapore magico e fiabesco, quasi alla Harry Potter, per la ragazza e melodie maggiormente drammatiche e solo a tratti più oscure per il villain del nuovo episodio. A tratti perché, e qui si vede la grande intelligenza compositiva di Williams, si è voluto sottolineare l’aspetto problematico della psicologia di Kylo Ren, uomo insicuro che vive all’ombra della figura del nonno e che quindi non riesce ad essere cattivo sino in fondo come lo era Darth Vader. Il tono complessivo di questa nuova colonna sonora punta più sulla drammaticità e la complessità psicologica dei personaggi messi di fronte a nuove scelte anziché sul dinamismo dell’azione che aveva caratterizzato le musiche dei vecchi episodi: “The Starkiller”, “Torn Apart” o “Farewell and the Trip” sono dei buoni esempi della profondità emotiva ricercata da Williams nelle sue partiture.
Sarà forse per quest’ultimo motivo che gli appassionati potrebbero faticare ad entrare appieno nel mondo sonoro di “Il Risveglio della Forza”: forzare dei paragoni con i vecchi film può risultare limitante e solo un ascolto attento e continuativo può aiutare a svelare il fascino di queste nuove musiche.
Immagini tratte da:
copertina, da Amazon John Williams, da www.discogs.com |
Details
Archivi
Aprile 2023
|