Un secondo annuncio per la ventesima edizione del Lucca Summer Festival pone ancora una volta la musica black sotto i riflettori del palco di Piazza Napoleone: l’otto luglio l’hip hop/soul di Lauryn Hill e il jazz di Kamasi Washington si incontreranno per dare vita ad uno show unico.
Dopo aver annunciato la coppia orgogliosamente al femminile di Erykah Badu e Mary J. Blidge, il Lucca Summer Festival si tinge ancora una volta delle note al nero della black music che ha fatto e che sta facendo la storia: l’otto luglio la voce di Lauryn Hill e il sax di Kamasi Washington riuniranno due generazioni di ascoltatori, quelli cresciuti durante il boom dell’hip hop anni ’90 e coloro che stanno (ri)vivendo la recente ondata jazzistica che ha investito la scena contemporanea. Il Lucca Summer Festival, che quest’anno vede in cartellone altri artisti internazionali, dai Green Day a Ennio Morricone, dai Kasabian a Robbie Williams, si allinea a tanti altri festival che hanno deciso di dare visibilità ed una maggiore esposizione mediatica alla black music, oggi di nuovo sulla cresta dell’onda, per un pubblico magari ancora non completamente avvezzo a certe sonorità. Non stiamo parlando certamente di artisti di nicchia visto il numero di Grammy vinti e le posizioni ai primi vertici delle classifiche, ma per un pubblico generalista come potrebbe essere quello del festival lucchese potrebbe risultare una scoperta interessante, magari da approfondire, ascoltare insieme queste due coppie di artisti; senza contare poi che l’attenzione del pubblico verrebbe posta anche su Kamasi Washington, musicista prettamente jazz - fra l’altro di stampo free e maggiormente sperimentale – paragonato a numi tutelari come Charlie Parker e Coltrane. ![]()
Un’artista come Lauryn Hill non avrebbe bisogno di presentazioni. Ma anche se la sua carriera artistica ha segnato indelebilmente il mondo della musica pop lungo tutto il decennio dei ’90, la sua figura rimane per certi aspetti un enigma, affascinante come il suo viso dolce e delicato, conturbante come la sua voce dai toni consolatori, lirici e soul, quasi perennemente sul punto di esplodere in un pianto liberatorio, incapace di nascondere la sua fragilità anche nei momenti più rabbiosi e rap. Queste caratteristiche hanno portato la cantante e musicista di origini haitiane al centro della scena hip hop e sotto i riflettori del music business, con i Fugees prima e successivamente da solista. Il suo percorso artistico si snoda attraverso poche pubblicazioni discografiche – essenzialmente quattro album – ma tanto basta per emergere come una delle migliori e carismatiche mc del mondo. Blunted On Reality del 1994, il primo album del trio insieme a Wycleaf Jean e Prakazrel “Praz” Michel, mette in mostra sin da subito le capacità vocali della Hill, all’epoca poco più che maggiorenne ma già capace di passare da un rappato fluido e serrato ad aperture melodiche prese in prestito dal soul e dal reggae, quest’ultimo da lei sempre molto amato grazie soprattutto alla figura di Bob Marley, per lei una vera e propria guida spirituale oltre che una significativa influenza musicale. E sarà questo sguardo pacifico, non violento e aggressivo, lontano dai soliti clichè dei rapper di strada in fissa con l’immaginario gangster che differenzierà Lauryn Hill e i Fugees dal resto delle crew hip hop del decennio, attirandosi inoltre le critiche dei puristi che accusavano il trio di flirtare troppo con il mondo dei bianchi e con il music business nel quale stavano piano piano riuscendo ad inserirsi. Critiche esplose due anni dopo con il multimilionario e pluripremiato The Score, disco che catapultò i Fugees al vertice delle classifiche e sulle prime pagine dei giornali. Un album che non ha inventato nulla e per niente rivoluzionario per l’hip hop e la black music in generale ma capace di fare quello che ogni buon disco vorrebbe: avere una sua identità nonostante le canzoni emergessero da un mix unico di soul, hip hop, reggae e r’n’b. La classe degli arrangiamenti e l’atmosfera generale del disco vanno perfettamente a braccetto con il flow del trio, con Lauryn Hill in testa che mette in mostra tutte le sue capacità di musicista e cantante ancor più che sul disco precedente. Il successo travolgerà il gruppo e soprattutto la cantante, la quale inizia a dare segni di insofferenza verso l’immagine pubblica che l’improvviso successo le ha cucito addosso. Dopo lo scioglimento dei Fugees ogni membro intraprenderà la sua strada solista, e il successo di The Score ritornerà a travolgere e a tormentare ancora la Hill dopo la pubblicazione del disco del 1998 The Miseducation Of Lauryn Hill, uno degli album più iconici degli anni ’90: un bignami di tutto ciò che la black music è riuscita a partorire nel corso della sua storia, dove l’hip hop fa da collante ai generi che da sempre hanno accompagnato la musicista haitiana in maniera più o meno evidente, dal soul al reggae, dalla disco al jazz. Se l’album ha conosciuto un successo così dirompente è proprio grazie alla personalità di Lauryn Hill, fragile ma nello stesso tempo forte, capace di esprimere nei suoi versi la sofferenza dell’essere afroamericani e l’orgoglio di essere donna. Una sensibilità idealmente più vicina a certo cantautorato degli anni ’60 che alla sfrontatezza del rock o dell’hip hop – e non a caso testimoniata nel disco dal vivo MTV Unplugged - e che la porterà a mantenere per scelta un basso profilo lontano dalle luci invadenti del mondo dello spettacolo, interrotta solo dalla breve reunion dei Fugees e da qualche ospitata su disco.
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La stessa sensibilità che permea la musica della Hill può essere riscontrata per certi versi anche in quella di Kamasi Washington, ed è per questo che vederli sullo stesso palco può essere un’esperienza unica e interessante. Washington è celebrato oggi da più parti come il miglior erede della tradizione jazzistica degli anni ’60 grazie al triplo disco d’esordio The Epic, ma il suo merito principale è quello di sapersi porre a cavallo dei molteplici mondi della black music, in primis quello del jazz e dell’hip hop. Lo testimoniano le sue numerose collaborazioni come anche i live infuocati che porta sul palco: chi crede di trovarsi di fronte un classico concerto jazz si dovrà ricredere immediatamente non appena i ritmi più sostenuti del funk, della disco e dell’hip hop sapranno ricreare un’atmosfera coinvolgente e allo stesso tempo corale. Coralità e sacralità, infatti, sono i due aspetti principali della sua musica che non vengono persi nel passaggio dal disco al live, ma anzi proprio in quest’ultima sede vengono ancor più amplificati. Truth, l’ultimo dei sei brani concepiti come movimenti del prossimo inedito ep intitolato Harmony of Difference, muove proprio dall’idea del sacro come sintesi delle differenze e delle molteplicità delle realtà umane: uno sguardo ampio e profondo, universale, possibile proprio grazie alla musica.
Immagini tratte da: i.huffpost.com/ www.ocanerarock.com/
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Tommaso Novi racconta e spiega che giocare non è cosa solo da ragazzini. Che a volte giocare può essere un’ancora di salvezza. “Un disco NERD che parla di amore, droga e videogames”. A venti anni si è chiuso in casa e ha acceso il computer. I mostri reali fuori dalla porta e quelli della realtà virtuale dentro. La sua casa è diventata una fortezza, un riparo sicuro dove guarire, ritrovare sé stesso. Ha cominciato a viaggiare in mondi ogni giorno nuovi, vestendo i panni di guerrieri, attraversando epoche strane e lontane, imbracciando armi di qualsiasi tipo. Ha conosciuto dei compagni di viaggio reali ma nascosti come lui dietro un nickname: nessun volto, solo voci. Di partita in partita, di notte in notte la casa si è fatta più chiusa, più profonda quasi come un nascondiglio scavato a misura d’uomo, un rifugio sicuro e impenetrabile, se non fosse per quella finestra su realtà virtuali fantastiche che si mescolano alla vita vera. C’è una donna che ha provato a farlo uscire e un compagno guaritore che non ha mai visto ma del quale conosce a memoria la voce flebile dentro le cuffie. Un percorso lungo, fatto di notte, mentre tutti dormono, vento nel gioco e quello vero di un ventilatore. Silenzio fuori e spari in cuffia. Quasi una necessità, fuggire da una realtà difficile e rifugiarsi in un’altra per ritrovare sé stessi. Realtà dalla quale poi non è immediato uscire a meno che qualcuno non ti “stani”, non ti prenda per mano e ti riporti fuori, dove i mostri non ci sono più e se ci sono non fanno più paura.
Questo è quello che Novi racconta nel suo primo album da solista Se mi copri rollo al volo. Il titolo deriva proprio da quella espressione che dice in cuffia, fra una battaglia e l’altra, per chiedere una pausa ai suoi compagni di gioco. Oggi un disco, domani forse un romanzo.
Compagni di questa avventura invece sono Matteo Anelli al basso, primo contrabbassista dei Gatti Mezzi e compagno di Novi in un progetto nato prima di loro, e Daniele Paoletti alla batteria. Lontano dai Gatti Mezzi che, dopo dodici anni, hanno deciso di prendersi una pausa, qui le atmosfere cambiano completamente. Tommaso sale sul palco sulla colonna sonora di Bubble Bobble, con mantello e un cavallino a dondolo, Rodrigo, che nel racconto si fa personaggio vivo (virtualmente). Se ne va il dialetto (anche se quello era già andato con l’ultimo disco dei Gatti Mézzi) e lo swing. Rimangono l’originalità, l’ironia, la teatralità e la capacità di raccontare e descrivere. Cosa c’è invece di nuovo? Tastiere, basso, batteria e tanti effetti elettronici. Il tutto crea un suono pieno ed energico che non ha bisogno di altro, che crea atmosfere trascinanti, talvolta ansiose, esemplificative dei temi virtuali, solitari e fantastici. La realtà si mescola continuamente al gioco, fuori e dentro il computer. Durante il live, ai nove pezzi del disco sono stati aggiunti brani ancora non registrati e una splendida cover di “Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla, ispiratore udibile nel canto e nella scrittura. Nell’ultima traccia del disco che uscirà il 28 aprile, unica che sembra evadere dal tema, Tommaso canta “Siamo venuti a vederti sudare perché ci piace capire il punto esatto in cui finisci tu e inizi a barare, per la paura immonda di rimanere uguale. A sentire quanto rischi per non restare uguale. A scoprire cosa inventi per non sembrare uguale”. Se volete scoprire con i vostri occhi e le vostre orecchie cosa si è inventato, dopo le date di anteprima del Deposito Pontecorvo di Pisa, Santomato Live di Pistoia e BUH! di Firenze, questo venerdì potrete andare al Teatro delle Sfide di Bientina (Pi), prima della presentazione ufficiale al The Cage di Livorno (il 29 aprile) e a Na Cosetta di Roma (il 12 maggio). Tommaso Novi: https://www.facebook.com/tommaso.novi?fref=ts Immagini tratte da: https://www.facebook.com/novitommaso/?fref=ts
Il mondo della black music è uno degli universi musicali più variegati e multiformi che siano mai esistiti nella musica popolare, nonostante il suo forte retaggio storico non le abbia mai fatto perdere di vista le sue radici. Con l’esplosione dell’hip hop e l’assalto alle classifiche dell’R&B, negli anni ’90 la musica black vede emergere due stelle di prima grandezza: Mary J. Bling e e Erykah Badu.
A differenza della musica “bianca” per eccellenza, il rock, dove le figure femminili non sono state predominanti, ingiustamente offuscate dalle controparti maschili che hanno dominato la sua storia, la cosiddetta black music ha invece spesso e volentieri visto come protagoniste le prime, ergendole a custodi della tradizione di un popolo, quello afro americano, che ha sempre saputo mantenere vivo il legame con la schiavitù, ferita storica mai completamente rimarginata. Per i vecchi lavoratori nei campi di cotone cantare era principalmente un atto vitale, necessario a mantenere integre dignità individuale e memoria collettiva: un canto che nasceva dalla terra, sporco e fragile, per cercare di elevarsi al cielo, invocando l’aiuto divino nella speranza di tempi migliori privi di sofferenze. La figura femminile, direttamente collegata alla terra e alla capacità che quest’ultima ha di donare così come di accogliere, è quindi il simbolo che riunisce tutte le voci degli schiavi, consolandoli come una madre consola il proprio figlio, spronandoli a resistere sino anche a soffrire insieme a loro. In questo contesto simbolico, le donne di colore che hanno segnato la musica popolare assumono un ruolo che va al di là del mero fatto artistico, già di per sé assolutamente fondamentale: da Ella Fitzgerald, Billie Holiday e Sarah Vaughn, alle voci soul di Aretha Franklin e Nina Simone, passando per la queen of funk Chaka Khan, Gladys Knight e Whitney Houston, sino alle contemporanee Beyoncé e Alicia Keys, la cultura afro-americana ha sempre dato enorme importanza alla voce e in particolar modo a quella femminile, capace di essere allo stesso tempo elegante, sensuale, rabbiosa ed energica. ![]()
Un posto d’onore, a partire dagli anni ’90, spetta a due altre cantanti, americane di nascita ma con le radici ben piantate nel continente africano: Mary J. Blige e Erykah Badu. Dotate entrambe di voci uniche e assolutamente riconoscibili all’interno del panorama musicale contemporaneo e marcando profondamente la musica popolare degli ultimi venticinque anni sia con i loro successi - entrambe hanno venduto milioni di copie dei loro dischi e vinto svariati Grammy - che con i rispettivi stili, le due artiste sono legate fra loro non solo per questioni anagrafiche (sono nate entrambe nel 1971) ma soprattutto per la comune attitudine soul verso la black music. I rispettivi album d’esordio, What’s the 411? della Blige e Baduizm della Badu, sono probabilmente i due album degli anni ‘90 che (ri)mettono al centro del discorso musicale proprio la voce, riuscendo a collocarsi in maniera significativa nel florido solco tracciato dalle cantanti/autrici afro dei decenni precedenti, grazie alle indiscusse doti tecniche e interpretative che traspaiono dai brani in esso contenuti. Due voci, quelle della Blige e della Badu, differenti per personalità e colore ma capaci di essere dirette e per questo immediatamente coinvolgenti, anche se su livelli differenti. “Soul” è la parola che lega le due cantanti a partire proprio dai loro dischi d’esordio: la voce guida l’intero comparto musicale imponendosi ed esigendo la massima attenzione dall’ascoltatore, mettendo in ombra tutto il resto e divenendo il perno intorno al quale il groove cresce ed avanza. Non è un caso, infatti, che proprio all’indomani della pubblicazione del suo primo album, Mary J. Blige verrà soprannominata come “Queen of Hip Hop Soul”, mentre Erykah Badu contribuirà con Baduizm a porre sempre più sotto i riflettori internazionali la corrente del neo-soul che, con i lavori di D’angelo e Maxwell, stava muovendo i primi passi e conquistando l’attenzione del pubblico. Parlando di black music, in ogni caso, non si può trascurare l’importanza che i bassi (e in generale le basse frequenze) operano nell’economia generale di questa corrente, divenendo in un certo senso la stessa ragione d’essere per questa musica. Per quanto riguarda la Blige, i bassi si manifestano essenzialmente in classici beat hip hop che servono soprattutto a supportare e a far svettare quanto maggiormente possibile la voce squillante e limpida ma capace anche di graffiare e di lasciarsi andare a certe inflessioni più rabbiose tipiche del rap: un risultato incredibile per maturità vocale se si considera che nel 1992, anno di uscita di What’s the 411?, la cantante aveva solo ventuno anni, capace inoltre di confrontarsi con un’icona come Chaka Khan, reinterpretando uno dei suoi classici, Sweet Thing. Un mix in equilibrio fra ariosità prettamente soul e ossessione ritmica che ammicca continuamente – ma senza abbracciarlo del tutto – al mondo dell’hip hop, delle rime e della poetica della strada. L’attitudine, infatti, è quella, come lasciano trasparire la copertina, la produzione a opera di Puff Daddy e i featuring di Busta Rhymes e Grand Puba, quest’ultimo ospite sulla title-track dove Mary J. Blige si lascia andare a un coinvolgente flow, segno che, se avesse voluto osare di più in questo senso, avrebbe potuto raggiungere ottimi risultati. What’s the 411? rimane comunque un unicum nella carriera della cantante americana, che da questo momento in poi conoscerà un enorme successo commerciale, proseguendo sulla via del pop da classifica: in ogni caso, la qualità vocale di Mary J. Blige attualmente rimane, nel bene e nel male, fra le più importanti testimonianze della black music contemporanea.
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Cinque anni dopo, nel 1997, le vibrazioni soul intonate nell’aria dalla cantante del Bronx riecheggeranno nella voce di Erykah Badu. Una voce, questa, di tutt’altro tipo: la particolare intonazione nasale la rende particolare e riconoscibile al primo ascolto, con un andamento sinuoso, elegante e spesso posato. Baduizm accentua tutte queste caratteristiche che faranno la fortuna dell’artista texana, consentendo nei suoi lavori successivi – come in Worldwide Underground e i due capitoli New Amerykah – di aggiungere ulteriori dimensioni al suo cantato, attingendo a piene mani in particolare dall’hip hop e dal funk. Nel suo esordio, la Badu si muove in maniera più calma, non tralasciando il suo background rap – come dimostrato dalla presenza in veste di produttori dei The Roots in un paio di brani – ma immergendolo in un’atmosfera molto più diluita, intima, dai toni quasi da jazz club. Se il cantato della Blige tendeva all’apertura e al dispiegamento quasi totale della potenza della sua voce, Erykah Badu invece sembra trattenere e cantare senza mai voler esagerare: la sua performance, in quest’ottica, assume quasi l’aspetto di una confessione, ricercando un rapporto più intimo e segreto con chi la ascolta. Mentre canta, la Badu riesce a creare un ponte con i bassi delle tastiere e la cassa della drum machine, facendosi supportare da questi strumenti ma nello stesso tempo supportandoli a sua volta, aumentando così la carica di groove dei brani in scaletta. Baduizm è ormai entrato nella storia dell’R&B proprio grazie alla peculiarità della voce della sua autrice, sapendo inoltre porsi in una posizione di dialogo verso tutta una tradizione musicale che va da Billie Holiday a Stevie Wonder, da Prince a Nina Simone, punto di arrivo di numerose influenze ma anche punto di partenza per nuovi sbocchi per la musica popolare contemporanea, anche nelle sue forme più vicine all’elettronica. Se oggi certe sonorità black sono ritornate prepotentemente alla ribalta lo si deve anche a un disco come Baduizm e alla caratura di livello di Erykah Badu.
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Secondo mese di concerti, dieci date fatte, quasi tutte sold out. Questo è il bilancio fino a oggi del tour dei Fast Animals and Slow Kids, partito dal Karemasky Multi Art Lab di Arezzo lo scorso 4 marzo.
Forse non è la felicità, quarto album del gruppo, è uscito il 3 febbraio per Woodworm. Se Alaska cominciava urlando “non c’è più speranza, c’è la notte e c’è il silenzio” (Il mare davanti), Forse non è la felicità si apre con un diverso spirito: “guarda tutto intorno, come sta cambiando, allacciati le scarpe che c’è da camminare”.
E di strada ne hanno già fatta parecchia: da una sala prove per piacere e senza troppe pretese, all’incontro nel 2009 con Luca Benni di To Lose La Track che porta all’EP Questo è un cioccolatino (con cioccolatino incluso), poi sul palco dell’Italia Wave Love Festival, Appino che li ha sentiti e ha prodotto il primo album nel 2011, Cavalli. Nel 2013 Hybris, nel 2014 Alaska e, infine, Forse non è la felicità.
Quest’ultimo è un disco che è stato scritto con calma rispetto ai precedenti, registrato in un mese nel silenzio di una casa in campagna vista lago, fra Toscana e Umbria. Come i precedenti non si concentra sulla società ma sull’individualità. In copertina qualcuno che spicca un salto di gioia…o forse no. La rabbia che li contraddistingue c’è ancora ma il filo conduttore che lega i brani del disco del 2014 si frantuma in una pluralità di sfaccettature e di immagini diverse. Perfino nel video del primo singolo uscito, Annabelle, l’istintività fa da padrona, a partire dalla scelta di affidarne la regia ad Artu, il loro cane che, come solo un cane può fare, li ritrae con una GoPro nella pura quotidianità senza filtri. Il suono si perfeziona nelle scelte, insieme alla loro crescita e maturazione, ma lo stile è ormai deciso e caratterizzante. Manifesto dell’album è proprio Forse non è la felicità, ultima traccia. “forse non è la felicità ciò che cerco ma un percorso per raggiungerla”. L’inno a godersi il viaggio, a spostare il traguardo e forse a non sapere nemmeno quale sia la vera meta. L’importante è dare il giusto peso a ogni passo, godendosi il panorama e prendendone quello che ne viene, comprese nel loro caso, la soddisfazione dei sold out, di un mare di teste che cantano in coro la maggior parte dei pezzi, nuovi e vecchi, ma anche l’ansia di sbagliare.
Con questo tour sono effettivamente finiti da un pezzo i concerti davanti a poche decine di persone. Adesso quel “siamo i Fast Animals and Slow Kids e veniamo da Perugia” viene detto una volta sola durante i concerti e precede un boato del pubblico, stretto e fiero di essere mezzo rotto dal quasi continuo “pogare”, ormai proverbiale (volano scarpe, senza scherzi). Chi non ha voglia di venire trascinato ha poche speranze, contando i sold out è quasi impossibile, fatevene una ragione. Spintoni sottopalco a parte, è difficile non lasciarsi trasportare dall’energia, suonata da Alessandro Guercini (chitarra), Jacopo Gigliotti (basso), Alessio Mingoli (batteria e voce), Daniele Ghiandoni (tastiere e chitarra, aggiunto al tour) e cantata da Aimone Romizi che salta da una parte all’altra del palco, suona, passeggia trasportato di mano in mano tuffandosi sulla folla. I live dei Fast Animals And Slow Kids non deludono le aspettative dell’ascolto dei dischi che non perdono il loro contenuto. La scaletta, che inizia con il lungo intro di Asteroide, mescola l’ultimo album uscito con Alaska e qualche pezzo immancabile di Hybris, in un’altalena fra energia e riposo (poco), fra vecchio e nuovo. E se ad Arezzo avevano leggermente sentito il peso e l’ansia della data zero, dell’Alcatraz che si avvicinava (poi completo anche quello), della nuova scaletta, del nuovo disco e dell’anno di pausa dal palco, arrivati a Firenze, dopo un mese le incertezze sono scomparse, anche nonostante la febbre del cantante.
Traspare nei live l’energia di chi suona perché ama farlo davvero, una spiccata umiltà che forse dà più ansia ma che spesso paga. “Grazie per permetterci ancora di fare i musicisti” dicono al pubblico a fine concerto, frase non scontata e certamente sincera.
Immagini tratte da:
Fast Animals And Slow Kids: https://www.facebook.com/fastanimalsandslowkids/?fref=ts http://www.fask.it/ Woodworm: http://www.woodworm-music.com/ Decimo anno di carriera e quarto disco. Supereroi è uscito il 17 febbraio per Tempesta Dischi dopo tre anni e un centinaio di date dall’uscita di FolkRockaBoom. Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo hanno cominciato a marzo le date del nuovo tour che si estende fino a maggio ma che ha già in programma alcune delle tappe estive. Il Pan del Diavolo arrivano con questo nuovo album ad un diverso spirito rock con la collaborazione di Tre allegri ragazzi morti, Umberto Maria Giardini, Vincenzo Vasi in aggiunta all’importante contributo di Piero Pelù che li aveva “gentilmente” invitati a una collaborazione: “O collaboriamo insieme o non mi incrociate mai più perché sennò vi stendo per strada.” Si parla di consapevolezza e di raccogliere i frutti di questi dieci anni di carriera cambiando direzione da quello che era stato il suono e l’animo fino al terzo album. L’energia rimane ma i temi si fanno più introspettivi e la rabbia un po’ più leggera. I supereroi sono persone di tutti i giorni che riescono a sfruttare i propri “super poteri”, le vere potenzialità che ognuno possiede dentro di sé. Derivato dal lavoro svolto con Fabrizio Simoncioni, ingegnere del suono che ha lavorato con artisti come Litfiba, Negrita, Ligabue, Consoli, Fabi, Silvestri, e da quello incisivo con Piero Pelù, Supereroi ha un’impronta potente e pulita, più elettrica e diretta rispetto al passato. Chi riesce a rimanere a galla a lungo e cresce negli anni senza scomparire è colui che riesce a rinnovarsi sempre. Come ogni cambiamento che si rispetti in un progetto che si è guadagnato il suo pubblico in dieci anni di carriera, non tutti hanno apprezzato la svolta. Il duo siciliano sicuramente riesce a conquistare una nuova fetta di pubblico ed una diversa maturità. Questa sera, 7 aprile, saranno live al Deposito Pontecorvo di Pisa. Per informazioni sul concerto: https://www.facebook.com/events/1874427596171316/ Il Pan del Diavolo: http://www.ilpandeldiavolo.it/blog/ https://www.facebook.com/events/1874427596171316/ Deposito Pontecorvo: http://www.depositopontecorvo.it/ https://www.facebook.com/deposito.pontecorvo/?fref=ts Immagine tratta da https://www.facebook.com/ilpandeldiavolo/?fref=ts |
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Aprile 2023
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