Alla scoperta della giovane e talentuosa cantautrice italiana che a 25 anni si ritrova a registrare il suo debutto discografico alla Universal di Manhattan.
Desenzano sul Garda, Svizzera e Argentina mai state così vicine, Colombia, Caraibi, Londra, Brasile, U.S.A. No, non stiamo dando i numeri nè consigli per un viaggio oltreoceano che tra l'altro più che a qualcosa di effettivamente logico farebbe pensare ad un trip pazzesco stile "Paura e Delirio a Las Vegas". Stiamo invece parlando della sensazionale parabola esistenziale compiuta a soli 25 anni da una delle più interessanti cantautrici italiane del momento, annoverata tra le principali fautrici del "Rinascimento" della voce femminile nel nostro Paese (insieme ad Erica Mou, Livia Ferri, Maria Antonietta, Orelle, Sylvia e molte altre). Lei si chiama Joan Thiele, bresciana del Garda nata da madre connazionale e padre svizzero-argentino, forgiata giovanissima tra le correnti pacifiche di Cartagena e poi innamoratasi del canto e della chitarra, lo strumento con cui su Youtube come nei Clubs ma ancora prima per strada si accompagna e sta conquistando la fama.
Intorno ai 10 anni Joan ha cominciato a costruire grazie al classico ascolto dei dischi paterni una cultura musicale trasversale di primissimo piano che spaziava dai Led Zeppelin (ereditati dalla babysitter) a Crosby, Stills, Nash & Young, Mina, Lucio Battisti, al fondamentale incontro coi Beatles per arrivare poi a suggestioni ulteriori provenienti da Lauryn Hill, Jamiroquai, Little Dragon. Trasversale la sua cultura musicale, trasversale l'educazione lingusitica a cavallo costante tra bi e trilinguismo, trasversale la sua carriera artistica. Terminato il liceo, a 18 anni Joan chitarra in spalla prende la decisione secca di trasferirsi in Inghilterra per tentare di iniziare a vivere di musica da basso, esibendosi come una vera busker in giro tra persone indaffarate e tra i Bloody Mary nei locali in cui poter esprimere la sua anima principalmente acustica. Come una buona abitudine, dai canali dei marciapiedi Joan in un passo breve e senza sforzo è passata alle performance web sul suo canale del Tubo ancora voce e chitarra nell'inglese prediletto come quando spesso e volentieri canta la bellissima "Rainbow" dedicata alla madre. E come nel 2014 con "Hotline Bling" cover del rapper canadese Drake entra prepotentemente tra le vette di Spotify e delle stazioni radio nostrane, realizzando con la sua band, gli Etna (Jamy e Luca Caruso), un brano soul dai risvolti synth e minimalisti il cui video non a caso ha una caratteristica ambientazione underground.
Il successo di questo rifacimento deriva dall'incontro tra tre componenti diverse tra loro ossia la melodia della voce e degli accordi di Joan, la spinta e la ritmica fornite dai suoni ottenuti da utensili di casa "riciclati" (pentole, barttoli, legno, ecc..) e il lieve sottofondo elettronico. Una fusione vincente di tre elementi che manifestano l'evoluzione della cantante pronta ad innestare all'interno del suo repertorio accanto alla sua impronta da cantautrice pura alla Joni Mitchell le ricchezze effettistiche prodotte dalle molteplici esperienze sonore degli ultimi decenni.
La grande risonanza di "Hotline Bling" si fa sentire non soltanto a livello nazionale moltiplicando l'attività live tanto cara all'artista, ma parallelamente la vede attirare l'attenzione dell'estero, in particolar modo degli Stati Uniti, dove Chris Tabron, 34enne produttore Universal di popstars non proprio conosciute dai nomi di Beyoncè, NIcki Minaj, James Blunt, dopo averla notata durante un concerto a Milano la conduce ai Red Bull Studios, Manhattan. Anche qui non stiamo parlando di località ignote. Ebbene come in un "Sogno Americano all'inverso" che ha visto quasi l'America andare da lei, Joan si è ritrovata dall'inzio di quest'anno a registrare il suo Ep di esordio nel cuore di un autentico tempio del music-business, per un battesimo infuocato che il prossimo 10 giugno segnera il suo debutto ufficiale con il disco omonimo "Joan Thiele".
L'Ep conterrà al suo interno sei tracce + una cover di Lauryn Hill, "Lost Ones". A Marzo il primo atto della nuova Joan Thiele è coinciso con l'uscita del primo singolo "Save me", brano in crescendo dalla voce solista ad una dimensione collettiva risaltata da cori e sintetizzazioni che rappresenta in modo significativo lo spirito generale del lavoro. Anche grazie al secondo singolo "Taxi Driver", disponibile online da meno di un mese, e alle apparizioni Live tra le quali spicca un'esibizione acustica da urlo al Web-notte de "La Repubblica" è possibile notare chiaramente la capacità da parte di Joan di aver assorbito egregiamente il cambiamento di stile con un soul ricamato in fili pop ed elettro maggiormente spessi. Ma d'altro canto non ha perso in alcun modo il soprabito affezionato di songwriter dalla personalita spiccata e robusta, abile a catturare il pubblico dietro di sè .
Questa domenica a Firenze la aspettano gli Mtv Italian Awards per la Nomination di "Migliore nuova voce femminile". Quest'estate spalleggiata dagli Etna la aspetta un tour lungo per l'Italia. Noi la aspettiamo per poter continuare a parlare del suo grande talento trasversale.
Immagini tratte da https://www.facebook.com/JoanThiele/?ref=ts&fref=ts
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Dall'entroterra alla costa, dal rock alla classica, dal blues al rap alla musica contemporanea, i più importanti appuntamenti live del weekend. FIRENZE Elvis Costello farà tappa stasera a Firenze, in una delle date italiane del suo Detour mondiale. La scaletta, variabile ad ogni serata, ripercorrerà sul palco del Teatro Verdi la sua vita di uomo e di artista. Due ore di concerto per raccontarsi. Dopo aver già riscosso successo all'estero ed essersi ripreso da un problema di salute a causa del quale ha dovuto cancellare alcune delle date è arrivato in Italia e da Torino, Milano, Padova proseguirà, dopo Firenze, verso Bologna e Roma. Il 27 e il 28 maggio sono le due serate del Maggio Elettronico: Open Music, serate dedicate alla “musica aperta” ovvero ad un diverso pensiero compositivo che parte dagli anni Settanta e arriva fino ad oggi e che si avvale delle nuove tecnologie e dell'elettronica. I concerti iniziano alle (…) alla Limonaia di Villa Strozzi. PRATO Stasera alle 22.00 c'è il blues dei The Cyborgs, two man band dalla carriera in ascesa, presso l'Officina Giovani mentre domani il rap di Piotta chiude la stagione di Capanno Blackout, uno dei palchi più frequentati dei dintorni pratesi.
viaggio gastronomico in Sardegna per l'aperitivo mentre un volo più ampio attraverso la musica di tutte le ragioni del Sud Italia con Le tre sorelle. Mentre domani sera il post-aperitivo si anima della musica salentina con canti popolari tradizionali, canti di lavoro, pizzica e taranta con Gli Strittuli. Dalla musica folk a quella per film. Alle 21.15 di stasera il primo concerto dell'Orchestra dell'Università di Pisa dedicato alla musica per film “Le Note degli Oscar” presso il Palazzo dei Congressi. Esperienza musicale e visiva a 360° con scaletta a sorpresa. A dirigere Manfred Giampietro. LIVORNO Domani sera alle 22.00, sul palco del The Cage Theatre ci sono Samba Tourè con il suo tour Gandadiko. Il repertorio ci parla della difficile terra del Mali attraverso un blues dal carattere malinconico e dai ritmi che rispecchiano tempi lenti e naturali della vita. Ad accompagnarli nella serata i Betta Blues Society. Per maggiori info: http://www.teatroverdionline.it/ http://www.operadifirenze.it/it/ https://www.facebook.com/OfficinaGiovaniPrato/?fref=ts https://www.facebook.com/capanno.blackout.9/?fref=ts http://www.boccherini.it/index.php?id=24 http://orchestra.unipi.it/ http://thecagetheatre.it/schedule/samba-toure-gandadiko-tour/ Immagini tratte da: Immagine 01 da https://www.facebook.com/teatroverdifirenze/?fref=ts Immagine 02 da http://www.boccherini.it/index.php?id=24 Immagine 03 da https://www.facebook.com/pisafolk/ Immagine 04 da https://www.facebook.com/orchestraunipi/ Immagine 05 da https://www.facebook.com/thecagetheatre/?fref=ts 20/5/2016 Presentazione albums + Minilive di Massimo Garritano e Alberto La Neve a "La Galleria del Disco" di PisaRead NowMercoledì pomeriggio aI negozio in via San Francesco i due talentuosi musicisti calabresi hanno raccontato al pubblico con parole e musica i loro due nuovissimi lavori solisti "Nemesi" e "Present". Un autentico Blitz. Un'operazione conclusa in meno di dieci giorni, degna dei colpacci del Calciomercato o di accordi diplomatici sottobanco. No tranquilli non sto parlando nè di Miralem Pjanic alla Juve nè di una nuova puntata della love-story Usa -Cuba. Voglio raccontarvi invece di musica, musica buona, dal vivo descritta e regalata al pubblico nel luogo migliore per farlo oltre ad una sala concerto, ossia un negozio di dischi. Per la precisione "La Galleria del Disco" di Pisa in via San Francesco 96, che dopo averci portato praticamente tra le braccia Paolo Fresu e Petra Magoni, ha concesso Mercoledi scorso 18 maggio a due affermati musicisti calabresi, Massimo Garritano (chitarra) e Alberto La Neve (sax) la possibilità di introdurre ai presenti i loro album solisti da poco usciti, rispettivamente intitolati "Present" e "Nemesi" con un Live Set conciso ma efficace. Un "Doppio Solo" che li ha visti dopo una performance in duetto di apertura mettere in mostra le caratteristiche sonore dei lavori singoli editi dall'etichetta Manitù da loro stessi fondata. Entrambi provenienti dalla provincia di Cosenza in cui lavorano come docenti negli Istituti musicali, Massimo e Alberto si conoscono ed esibiscono insieme da molto tempo. Nel 2014 per l'etichetta Dodicilune hanno realizzato il CD "Doppio Sogno", distribuito in Italia e all'Estero, mettendo insieme la sinuosità del sax con i volteggi della chitarra acustica con una forte influenza dell'elettronica che esprime la molteplicità di ispirazioni e soluzioni presentate. Tale creatività e apertura a sonorità variegate si è trasferita inesorabilmente nei percorsi solisti, nati per paradosso durante il tour di "Doppio Sogno" e la preparazione di futuri progetti condivisi. Classe 1973, Massimo Garritano affida il brano "Nick Drake" come biglietto da visita per il suo album "Present", disponibile dall'11 Maggio e volto a mettere in scena una galleria di disinvolti viaggi percorsi sui fili della sua chitarra acustica. Padroneggiandola con fare sicuro, Garritano pizzica le corde a mani spesso lontanissime e tra silenzi significativi, correndo anche nel corso del medesimo pezzo dal rock al folk al mondo mediterraneo sino all'elettronica. Tanti anime insomma vivono nel suo disco, evocative come la figura del Grande Spirito indiano Manitù, nome dell'etichetta scelto da lui stesso. Dice di aver studiato ed appezzato molto la produzione folk-rock anglosassone acustica degli anni 70' ed in particolare in Joni Mitchell e Nick Drake riferimenti di grande rilievo. Nato nel 1981, Alberto La Neve in "Nemesi" recupera la dimensione della mitologia, non limitata alla storia della civiltà classica da cui estrae "Orpheus" durante il MiniLive. Al pari di Massimo la sua ricerca emozionale è molto vasta e sfaccettata, muovendosi tra l'amore per il jazz americano di tradizione alla scuola odierna di Fresu alla mistura effervescente con l'elettronica. Il suo sax respira a pieni polmoni, cambiando voce in funzione del personaggio che rappresenta, non rinunciando a "prender fiato" a dare spazio a rigonfiamenti improvvisi e attenuate riflessioni.
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Il passo dell’Australia delle tribù aborigene ai quartieri industriali di una qualche megalopoli può essere breve, soprattutto se a farci traghettare da uno scenario all’altro sono gli Appaloosa con la loro capsula spazio-temporale dal nome “BaB”. Bastano pochi elementi per costruire la musica del gruppo livornese, a cominciare innanzitutto dai musicisti coinvolti, i fondatori Marco Zaninello e Niccolò Mazzantini (coadiuvati dal vivo da altri strumentisti), che come il precedente “Trance44” compongono, arrangiano, manipolano e spappolano in solitaria il sound delle undici tracce inedite.
Il cuore della musica degli Appaloosa pulsa al ritmo di due bassi elettrici, una batteria e synths, pompando sangue digitale fatto di drum machine e samples vari per alimentare un corpo che, sin dall’esordio all’Arezzo Wave del 2002 e poi nel corso di una nutrita discografia, non è mai riuscito a stare fermo, ma era costretto quasi da una forza magica a dimenarsi come un tarantolato. Il ritmo e le basse frequenze sono quindi i motori principali di tutto, e naturalmente anche questo nuovo disco non fa eccezione, solo che qui cambiano atmosfere e mood generale: se “Trance44” era incentrato per l’appunto sul concetto di trance, infarcito di sonorità orientali e maggiormente psichedeliche, “BaB” decide di discostarsi almeno in parte da questo mondo per (ri)congiungersi ad un altro, meno esotico e più industriale, mantenendo comunque aperti, in più di un’occasione, i confini fra i due. In quest’ottica, l’ultima opera del duo livornese può risultare un interessante passo in avanti nella definizione dello stile degli Appaloosa, una prima tappa che potrebbe condurre in futuro ad una più completa sintesi di questo binomio trance/industriale che almeno per ora, se pur ottimamente, rimane abbozzata. ![]()
Basta premere play a partire dall’iniziale Supermatteron per percepire che qualcosa è cambiato: l’anima di “BaB” è un po’ tutta qui, incastrata fra le lamiere di una batteria in metallo con la cassa dritta a scandire una ritmica techno e vessata dalle frustate veloci del basso distorto che fa venire in mente quello di Massimo Pupillo nelle ultime produzioni degli Zu (principalmente in “Carboniferous”). Il nome del trio romano non spunta fuori per caso perché fra le varie influenze gli Appaloosa ci inseriscono certe spigolature proprie del math: niente di così esagerato e cerebrale visto che l’obiettivo è sempre quello di far muovere i corpi più che i cervelli, ma quanto basta per variare gli arrangiamenti e rendere i confini fra i generi musicali più sfumati del solito; a dimostrazione di ciò basti dare un ascolto a Mulligan, il brano più sfrenato del disco.
In tutto qusto, i colori intensi e psichedelici dell’Oriente tornano a risplendere di tanto in tanto: se ne ha una prima avvisaglia in Halle 9000, dove un irresistibile e minimale giro di basso fa da struttura portante agli innesti dei synth che danno un tocco trance, dilatato e profondo al pezzo; si ritrovano poi nella bellissima Bab e Dany, con dei suoni aperti che sembrano emanare una luce accecante, da sole del deserto; e si possono riscontrare anche in Ketama Gold, dove il contrasto fra il suono grosso e grasso del beat e i giri dei synth creano un’atmosfera acida e pesante un po’ seventies. Ma sono solo parentesi, squarci brevi e profondi in una notte rischiarata dalla luce al neon: Longimanvs e Creepy potrebbero fare da colonna sonora per qualche horror metropolitano, o l’ossessività di Krypton 85 echeggia gli abissi di Kode9 e The Bug. Alla fine del tunnel ad attendere però c’è una sorpresa, ovvero un brano che si discosta da quel binomio secco accennato qualche riga più sopra: Imboschi, che squarcia per l’ultima volta la notte industriale non tanto per riportarci sotto il sole orientale bensì in un’atmosfera molto più soffusa, da dance floor IDM; un ultimo dolce trip prima di premere nuovamente play e ricominciare da capo. “BaB” infatti è un album che si infila sotto pelle per non mollarti più sino all’ascolto successivo: è talmente tanto trascinante che ci si ritrova alla fine senza neanche accorgersene. Riuscendo ad unire un’equilibrata elaborazione sonora e degli arrangiamenti con la semplicità d’approccio, gli Appaloosa sono riusciti a dare vita ad undici piccoli quadri sonori indipendenti l’uno dall’altro e nello stesso tempo intimamente connessi come fossero un unico pezzo. Più i minuti passano e più sembrerà di aver già ascoltato da qualche altra parte questa stessa musica innumerevoli volte, senza riuscire però ad individuare precisamente qualche artista o album di riferimento. Degli Einstürzende Neubauten con i caschi dei Daft Punk? I Battles rallentati e in bad trip con i Chemical Brothers? Può essere. Oppure no.
Appaloosa – BaB (Black Candy Records, 2016)
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I concerti più attesi del weekend in Toscana FIRENZE
Oggi a Firenze, per il ciclo di concerti Beethoven al Fortepiano che fanno parte dell'extra Festival del Maggio Musicale Fiorentino, Jin Ju suonerà, alle 20:00, la celeberrima sonata di Beethoven n. 14, ai più conosciuta come “Al chiaro di luna” nel saloncino del teatro della Pergola. Alle 18:00 invece nel museo Novecento continua il progetto dedicato alle musiche delle guerre mondiali. Nel programma di Fischia il vento una serie di canti e la lettura delle lettere dei soldati e dei partigiani impegnati nella guerra. Domani per il Maggio Musicale Fiorentino, dopo quaranta anni di assenza da Firenze torna, al teatro della Pergola, Albert Herring di Benjamin Britten. Opera da camera in tre atti del 1947, è stata definita da Svjatoslav Richter “la più grande opera comica del Secolo”.
PRATO A Prato è iniziato il 18 maggio Prato a tutta birra che stasera vedrà sul palco i Modena City Ramblers mentre domani i Ministri accompagnati da Fantasia Pura Italiana. Il festival, dopo la parentesi in viale Marconi torna nella sua location originaria, quella di piazza del Mercato Nuovo. Non manca, oltre alla buona musica, lo street food e ovviamente la birra per la presenza dello stand di otto birrifici artigianali fra i più famosi della zona. Sempre Prato ospita la prima edizione del B Side Music Festival. In piazza delle Carceri. Ospite di venerdì 20 Danny Bronzini, giovane chitarrista che ha fatto parte dell'ultimo tour di Jovanotti, in coppia con i Piqued Jacks. LUCCA Davide Toffolo, disegnatore e voce dei Tre Allegri Ragazzi Morti, regalerà al suo pubblico una serata diversa dal solito. Eccezionalmente al di fuori del gruppo si esibirà dalle 21:00 presso la Biblioteca Civica Agorà. PISA
A Pisa si svolgerà la presentazione del bando 2016 di Senza Filo Music Contest, con Senza Filo Outdoor. Senza Filo è un concorso musicale “a impatto zero” dedicato alla musica acustica, nato nel 2010 dall'idea dell'Associazione Culturale Cantiere Sanbernardo di creare una realtà musicale che si propone di fare musica senza elettricità. La location, solitamente la chiesa sconsacrata di San Bernardo, diventa outdoor e si sposta in piazza Clari. Numerosi gli eventi in giornata, non solo musicali. Dalle 19:00 Alberto Lerardi, Alessandro Magnani e alle 21:00 Jacopo Matii live set. A Cascina il 20, 21 e 22 maggio si svolge il Finger Food Festival all'interno del quale, fra una specialità gastronomica e l'altra, si esibiranno Cisco Bellotti acoustic trio (il 20), i Matti delle Giuncaie (il 21) e Baro Drom Orkestar (il 22). LIVORNO A Livorno invece sarà la volta della serata finale del Livorno Music Award, gli oscar della musica rock livornese giunti alla quarta edizione. Nato nel 2013 da una collaborazione fra The Cage Theatre e Il Tirreno, non è una vera e propria gara ma un evento volto alla divulgazione dei nuovi talenti. Quaranta le band partecipanti e sei categorie con un particolare riconoscimento per i familiari delle vittime del Moby Prince dopo 25 anni dalla tragedia. Per maggiori info:
http://www.senzafilomusiccontest.eu/ http://www.pratoatuttabirra.it/ http://www.operadifirenze.it/it/ http://www.livornomusicawards.it/ http://fabbricaeuropa.net/ https://www.facebook.com/pisarock.fest/ Immagini tratte da: Immagine 1 da http://http://www.ticketone.it/ Immagine 2 da https://www.facebook.com/fabbricaeuropa/?fref=ts Immagine 3 da http://www.pratoatuttabirra.it/ Immagine 4 da https://www.facebook.com/pisarock.fest/ Immagine 5 da http://www.livornomusicawards.it/ 13/5/2016 Pescatore - Il duetto che non c'è mai stato tra Pierangelo Bertoli e Fiorella MannoiaRead Now
Storia del magnifico brano del cantautore emiliano in coppia con l'allora ventiseienne Fiorella Mannoia e di come i due si incontrarono per la prima volta tre mesi dopo aver registrato le loro strofe separatamente.
1980. Pierangelo Bertoli, cantautore modenese doc (vive e intraprende la sua carriera nella nativa Sassuolo) trentasettenne si è fatto conoscere ed apprezzare dal grande pubblico con una ricca attività live in italiano come in dialetto e un anno prima ha venduto ben 60.000 copie dell'album "A muso duro" trascinato dall'omonimo brano che rappresenta un autentico biglietto da visita dell'uomo oltre all'artista. Contemporaneamente Fiorella Mannoia, ventiseienne cantante romana che ha iniziato la propria carriera nel cinema facendo la controfigura o la stuntgirl alla pari del padre e del fratello, si è fatta notare all'esordio musicale a soli 14 anni al prestigioso Festival di Castrocaro con la canzone "Un bimbo sul leone" scritta da Adriano Celentano, è poi passata nel corso degli anni' 70 alle case discografiche RCA e Ricordi prima di firmare con la CGD (Compagnia Generale del Disco) accostata da poco da Caterina Caselli alla neonata etichetta satellite Ascolto. Quella di Bertoli. Quella di entrambi che si ritrovano in poco tempo ad incidere le strofe alternate di "Pescatore", trascinante ballata da temi "coraggiosi" per l'epoca che conquista un eccezionale successo di critico e pubblico aiutando il disco "Certi momenti" a toccare le 200.000 copie vendute. Risultato: Bertoli si afferma definitivamente come uno dei migliori cantastorie su tutta la Penisola, mentre la Mannoia riceve un trampolino di lancio significativo per la sua carriera che svela l'originalità nell'interpretazione e nella scelta di tematiche forti e dibattute da parte di una giovane precoce. E tutto questo accade senza che i due si siano mai incontrati.
Anzi a dirla tutta inizialmente Bertoli non aveva pensato ad una voce femminile per un testo composto dall'emergente paroliere Marco Negri sul quale il cantante emiliano fece piccolissime modifiche senza intaccare in alcun modo l'ampiezza di spunti forniti dalla storia. Fu il produttore artistico della CGD a suggerirgli di costruire un duetto con una donna, o meglio una ragazza giovane ma dal timbro già personale, individuata all'interno di una cassetta che secondo il cantante riproduceva "una canzone bruttissima cantata da una voce bellissima". La voce della Mannoia che a distanza di poco tempo registrò "per conto suo" le parti in cui leva le sue preghiere la moglie fedifraga del pescatore/Bertoli senza averlo mai visto nè aver avuto il collega al suo fianco in alcuna prova, salvo poi incrociarlo in un corridoio della casa discografica dopochè di "Pescatore" era stato largamente distribuito un 45 giri riservato soltanto al mercato radiofonico e quindi perciò non pubblicato mai come singolo. Nel prosieguo degli anni Bertoli avrebbe riarrangiato la traccia riservandola durante i concerti in un primo momento ad una performance esclusivamente maschile, salvo poi ritornare ad esibirla in duetto con Fiordaliso. Evitando così di snaturare il registro di una hit che aveva colpito perchè sviluppata tanto grazie alla qualità delle parole espresse dai due protagonisti quanto all'intensità vocale manifestata in particolare dalla Mannoia in funzione della psicologia del suo personaggio.
Impostata nelle primissime battute da un piano solenne, il Pescatore/Bertoli apre le danze di un duello a distanza vissuto da lui naufrago, impegnato nella fatica del suo mestiere giorni e giorni a lottare contro le insidie del mare e dalla moglie, una fanciulla probabilmente più che una donna nel pieno della maturità, indecisa, debole così come viene a trascorrere le lunghe giornate senza di lui. Un duello dicevamo, che non contrappone l'uno all'altra perchè radicalmente diversi scorrono i pensieri e le emozioni da loro provate. Due duelli sarebbero allora corretto dire.
Da una parte il Pescatore che combatte con vigore contro la corrente delle onde rischiando la pelle in ogni caso, anche quando il poco pesce catturato lo porta a bestemmiare più del solito. Egli sembra essere concentrato esclusivamente sul suo "lavoro" per tornare prima possibile dal bambino e dalla moglie che considera una coniuge fedele e devota a Dio, nel quale egli invece non sembra credere più di tanto nè rispettare a differenza della fiducia e sicurezza che ripone in sè stesso. Un classico lavoratore, di quelli disgraziati che continuano a rischiare da anni l'osso del collo per un guadagno misero e isolato dal calore familiare, ma non cambieranno vita perchè probabilmente non sanno fare nient'altro ed in fondo, sistematisi con moglie e figli, non avanzano pretese dalla vita.
Pretese al contrario che deflagrano vorticosamente fino ad esplodere con potenza inaudita nell'animo della donna. Se il marito la tempesta la affronta fisicamente tra le onde del mare, ella invece mostra sin da subito di soffrirla internamente perchè dotata di uno spirito impaziente e fresco, esattamente opposto alla calma universale del suo Lui. Un Lui che traballa sempre nella mente della compagna, che davanti a Dio invocato in preghiera rischia di non tornare con certezza assoluta a casa, e che sotto le spine di una rosa allungata da un Altro finisce per scomparire. "Rosa rossa pegno d'amore; rosa rossa malaspina", è questo il momento clou della perdita della resistenza al desiderio, in cui dal ritmo equlibrato di un pop con sferzate reggae si sale di petto con una strofa penetrata di elettronica e di un vigore femminile straordinario, che tramuta l'invocazione al Signore in bestemmia "(Perdio") e apertamente gode e vuole godere del tradimento fino alla fine dei giorni augurandosi addirittura che il pescatore non ritorni mai più indietro. Ma il colpo di scena dell'illusione e della noia di un divertimento che ha stancato in breve tempo a causa delle promesse che l'hanno appesantito restiuisce infine una coniuge che riprende a supplicare Dio e la ricomparsa del marito, seppur avvelenata da un rimorso non ancora polverizzato del tutto.
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Diamo uno sguardo a uno dei dischi più caldi usciti in questo primo frangente dell’anno, l’atteso nono album dei Radiohead, “A Moon Shaped Pool”, un disco che mostra una faccia inedita per la band, fra elettronica soffusa, archi e una tensione più nascosta ma che non è mai sopita.
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Come scomparire completamente, i Radiohead, lo sanno bene, e lo cantano sin dal 2000 in uno dei loro dischi simbolo, “Kid A”. E avrebbero portato a compimento questa loro idea tramite una grossa operazione di marketing che ha visto svuotati per giorni i loro profili social e il sito, se non fosse stato per l’annuncio improvviso, ma abbastanza prevedibile, di un nuovo album. “A Moon Shaped Pool”, questo il titolo del nono parto in casa Radiohead, emerge delicatamente dal bianco sporco della copertina facendosi carico in egual misure delle lodi sperticate dei fan che hanno immediatamente gridato al capolavoro (dopo aver ascoltato solamente i due singoli resi disponibili prima dell’uscita ufficiale del disco) e delle aspre critiche disfattiste e dispregiative di chi li considera un gruppo inutile (e questo, cosa vorrà mai dire, lo sanno solo loro) e sopravvalutato. Tutto ciò dimostra solo la caratura che i cinque di Oxfordshire sono ormai riusciti a raggiungere: qualsiasi cosa riguardi i Radiohead diventa automaticamente nel bene o nel male iconico, influente, attuale, che si tratti del mero fatto musicale, di dichiarazioni rilasciate da qualche componente o del nuovo look di Thom Yorke. Il gruppo è insieme causa e conseguenza dell’essere un crocevia di influenze contemporanee musicali ed extramusicali, influenze che in ogni caso hanno sempre saputo rielaborare in maniera personale e con dischi profondamente diversi l’uno dall’altro. Non fa eccezione “A Moon Shaped Pool”: l’inquietudine e la tensione metropolitana che alimentava “Ok Computer”, marchi di fabbrica sin da quel lontano ’97, vengono mantenute, se non proprio accresciute, anche nel XXI secolo, solo che qui si fanno molto più astratte, meno palpabili e immediatamente riconoscibili ma comunque presenti e persistenti. Più che insistere su ritmi rock “A Moon Shaped Pool” invita ad ascoltare i silenzi, le pause e le melodie degli strumenti che più si avvicinano ad essi: i veri protagonisti sonori non sono le chitarre, qui messe in secondo piano e utilizzate in maniera parsimoniosa, ma il pianoforte come in Daydreaming, gli archi alla Philip Glass in Burn The Witch e nella meravigliosa Glass Eyes e l’elettronica ambientale, che da all’intera produzione un tono freddo e alieno, come in Ful Stop e in Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief (titolo che si rifà alle filastrocche infantili del folklore inglese).
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Proprio per la presenza di continui vuoti e di un suono che si rivela man mano, quasi timidamente, potrebbe sembrare ad un ascolto veloce che questo nuovo disco non abbia da trasmettere nulla, se non l’ottima capacità di arrangiatori e compositori dei Radiohead; sarebbe però un giudizio alquanto affrettato, poiché dietro questa maschera piatta si nasconde un mondo sonoro molto stratificato, capace di evocare sensazioni forse mai percepite prima negli altri album della band. “A Moon Shaped Pool” decide di prendere infatti una strada molto più delineata e netta rispetto alle ultime due produzioni discografiche segnate invece dalla commistione, riuscita o meno, fra dna rock ed elettronica: l’influenza della Warp Records e di artisti di punta dell’etichetta come Aphex Twin, o i lavori orchestrali scritti e arrangiati da Jonny Greenwood per il cinema di Paul Thomas Anderson, riescono a creare un divario con il recente passato, facendo venire in mente invece la paranoia, qui latente e subdola ma all’epoca strabordante ad ogni nota, di “Kid A” e “Amnesiac”. Probabilmente i pezzi risentono dell’influenza dei dischi del 2000 e del 2001 appena citati, visto che le canzoni di “A Moon Shaped Pool”, presentati in un curioso ordine alfabetico, risalgono a un po’ di anni addietro, ascoltate in occasione di molti concerti e contenute anche in altre pubblicazioni, come nel caso della conclusiva True Love Waits già presente nell’EP live “I Might Be Wrong”.
Di certo è che da un po’ di anni a questa parte i Radiohead risentono molto del peso di un solo elemento, Thom Yorke, e questo fatto ha pesantemente influenzato la direzione stilistica dell’album: molto di quanto si può ascoltare nei suoi dischi da solista può essere rintracciato in quest’ultima opera del quintetto. Ma forse è anche per questo che “A Moon Shaped Pool” suona così differente da quanto fatto in precedenza dai Radiohead: che li si ami alla follia o li si odi in maniera viscerale è innegabile quanto il gruppo riesca sempre a creare qualcosa di livello. Un livello che permette alla band ormai di essere assolutamente riconoscibile in un ambiente, quello pop rock più mainstream, che sforna più cloni che altro. Che i fan si mettano il cuore in pace: “A Moon Shaped Pool” non è certamente un capolavoro visto che non scombina o rovescia alcuna regola: rimane però un ottimo album con una sua ben precisa personalità, che permette ulteriormente ad un gruppo che esiste da più di vent’anni di rimanere sulla cresta dell’onda. E di questi tempi non è assolutamente cosa di poco conto.
Radiohead – A Moon Shaped Pool (XL, 2016)
Tracklist:
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Il 18 Marzo scorso è uscito "Birth", il secondo album del progetto Dardust di Dario Faini e soci che confluisce l'armonia del pianoforte e della musica orchestrale nella potenza ed esplosività dell'elettronica
Ha deciso di farlo uscire il giorno del suo compleanno. Quale combinazione più azzeccata per un disco che si intitola "Birth", nascita per l'appunta. O meglio "rinascita" vissuta prima negli ascolti grazie alla scoperta della scena musicale islandese (Sigur Ros e Olafur Arnalds su tutti), in un secondo momento assorbita in maniera totalizzante a ridosso dei geyser e infine convertita in musica nell'esclusiva cornice degli Studi Sundlaugin di Reykjavik. Dario Faini (l'accento va sulla prima "i" come lui stesso mi ha fatto notare quando poco tempo fa l'ho intervistato), 40 anni, di Ascoli Piceno, il pianoforte lo conosce come le proprie tasche visto che a nove anni ne ha iniziato lo studio presso l'Istituto Musicale "Gaspare Spontini" della sua città, e all'alba degli anni 2000 era salito con successo sulle scene elettroniche con la band Elettrodust. Poi nel 2006 la firma con la Universal per un progetto molto diverso, autore, paroliere di brani italiani e fondamentalmente pop, da Irene Grandi a Cristiano De Andrè, da Noemi a Marco Mengoni e ancora apprezzamenti. Ma dal 2014 l'incontro fulminante con la musica post-rock ed ambient della scena nord-europea, dalla già citata Islanda ai dischi del pianista e compositore britannico Jon Hopkins lo ha riportato a tornare a piè pari sul palco, chino sulle tastiere ma in modo non convenzionale. Da qui nasce DARDUST.
L'avrete già notato come il termine inglese "dust", "polvere" rappresenti una sorta di parola chiave, di pseudonimo con il quale il poliedrico artista intende identificarsi in omaggio a due punti di riferimento musicali per lui formativi tanto per la loro matrice musicale che estetica. Da una parte infatti Dust Brothers coincideva con il nome originario dei celebri Chemical Brothers, che avevano debuttato sulle scene pubblicando il disco "Exit Planet Dust". Dall'altra, l'assonanza con Dardust, laddove "Dar" definisce senza fronzoli la paternità del progetto a Dario Faini, non può non richiamare presto alla mente lo Ziggy Stardust di David Bowie, il memorabile alieno incarnato dal Duca Bianco e fonte di ispirazione per l'ampio immaginario spaziale che ruota intorno alle produzioni dell'album "Birth" come del precedente "7" (entrambi pubblicati con l'etichetta INRITORINO).
Spalleggiato dalle acrobazie elettroniche create dal producer e polistrumentista Vanni Casagrande che si elevano ai fianchi delle tessiture sinfoniche prodotte dal trio di archi Valentino Alessandrini, Simone Sitta e Simone Giorgini e dalle percussioni di Marcello Piccinini, Dario Faini tenta per la prima volta in Italia di sviluppare un genere puramente strumentale in cui il pianoforte minimalista venga ad unirsi armoniosamente con una pulsante matrice elettronica che volge lo sguardo insistentemente ad un triangolo geografico specifico: Berlino - Reykjavik - Londra. Un'autentica trilogia discografica che due anni orsono si origina all'interno degli studi Funkhaus della capitale tedesca, da cui i Dardust escono dopo aver registrato il loro Ep d'esordio "7", come il numero delle tracce in esso contenute.
Il singolo selezionato per portare Dardust nel mondo è "Sunset on M.", equilibrata e distesa lirica in cui il pianoforte traccia un suo percorso centrale e lineare in cui a turno gli strumenti classici e gli effetti bit si inseriscono pacatamente. Eccolo lo stile eletto del progetto, il manifesto di espressione di sè che conquista critica e pubblico in Europa e nel Mondo per l'originalità dello spettacolo costituito, e la cura dedicata alla performance Live, in cui l'atmosfera generata dai suoni viene arricchita dalle proiezioni grafiche pensate dalla band. Nel videoclip di "Sunset on M." comincia inoltre un breve percorso narrativo nello spazio-tempo che ha per protagonista un bambino comparso sulla Terra all'improvviso avvolto da una tuta spaziale in una variante fanciullesca dello Ziggy Stardust bowieano. La storia di questo "alieno" procede nel video del singolo successivo "Invisibile ai tuoi occhi", in cui lo ritroviamo uomo e astronauta di "mestiere" potremmo dire, per concludersi un anno più tardi nel terzo capitolo di "The Wolf", che ritrae invece la figura di un ultimo sopravvissuto sul pianeta nelle sembianze di un re medievale che dal suo castello domina il mondo sconfinato in compagnia di un lupo. .
Screenshots dei videoclips di "Sunset on M.", "Invisibile ai tuoi occhi" e "The Wolf".
Con "The Wolf", brano pubblicato il gennaio scorso, i Dardust inaugurano il secondo viaggio della trilogia, "Birth", un album di dieci tracce che conduce ad ulteriore maturazione la ricerca sonora di Dario Faini e soci. Da Berlino la band si sposta armi e bagagli tra i ghiacci e i vulcani islandesi (su Youtube è presente il documentario "Slow is the new Loud" diretto da Alessandro Marconi che racconta le tappe diverse compiute dall'ensemble sul suolo dell'isola nordica) per respirare appieno l'aria degli incantevoli scenari naturali e degli studi Sundlaugen, in cui Birth vede la luce. Come dichiarato dallo stesso Faini, il nuovo album accentua maggiormente la contaminazione tra le due anime di Dardust servendosi di un' architettura elettronica più complessa e potente all'interno di numerosi brani ("The Wolf" ne è l'esempio lampante).
Immagini tratte da: - Copertina album da www.allmusicitalia.it - Dario Faini da www.inritorino.com - Screenshots da www.youtube.com 6/5/2016 Intervista a Paolo Fresu (special guest Petra Magoni) & live report di Paolo Fresu, Richard Galliano, Jan Lundgren @ Teatro Verdi - Pisa, 26/04/2016Read Now
In occasione della data pisana del progetto Mare Nostrum condotto insieme a Richard Galliano e Jan Lundgren, martedì ventisei aprile Paolo Fresu è stato ospite presso la Galleria del Disco di Pisa per presentare il suo ultimo album “Eros”: un incontro che si è rivelato anche uno stimolo per discutere sulla situazione discografica attuale e sui nuovi modi di fruizione della musica. Presente a sorpresa anche Petra Magoni dei Musica Nuda, la cui intervista potete trovare in fondo all’articolo. ![]()
Il coraggio può essere seducente. Non si tratta del coraggio tronfio ed autoreferenziale che può esserci in un qualsiasi gesto eroico, bensì di quello fragile ma determinato e consapevole che le etichette e gli artisti indipendenti abbracciano per portare avanti i loro progetti artistici. È questa l’idea che sta alla base del minitour di Paolo Fresu per presentare il suo ultimo lavoro discografico dal nome quanto mai eloquente, “Eros”, con la recente tappa pisana alla Galleria del Disco. Basta osservare l’immagine della copertina che accompagna la locandina del progetto per avere una visione chiara di quanto possa essere attraente il coraggio: l’importante è arrivare dritti al bersaglio, in questo caso gli ascoltatori, facendoli riavvicinare sia ai dischi, oggetti visti come prodotti artigianali capaci di trasmettere molteplici esperienze, e sia ai negozi specializzati, adibiti non solo alla vendita ma intesi come luoghi di relazioni e d’incontro fra appassionati.
La seduzione di “Eros”, quindi, non risiede solo nel tema trattato, un concept vero e proprio sull’erotismo, e nelle sonorità in esso contenute, ottenute dalla collaborazione di Fresu con Omar Sosa e con la partecipazione di altri artisti quali il violoncellista brasiliano Jaques Morelenbaum, il quartetto Alborada e la cantante Natacha Atlas, ma anche nel suo essere un segnale piccolo ma deciso verso un mercato sempre più digitalizzato che rischia di allontanare la gente dal piacere legato all’oggetto-disco e, paradossalmente, dall’acquisto stesso dei dischi. “Abbiamo deciso di presentare questo lavoro non nelle grandi catene di distribuzione come Fnac, Feltrinelli e Mondadori, ma in quei piccoli negozi con una grande storia che esistono da tantissimi anni e che nonostante tutto continuano coraggiosamente a credere in un certo tipo di mercato. Sono quei negozi che, a nostro parere, stanno cercando una via altra all’implosione del mercato discografico”: nelle parole del trombettista sardo la voglia di avvicinare la gente ai dischi e nello stesso tempo di capire come si è potuto creare questo iato, è evidente, cercando di trasmettere ai giovani e meno giovani presenti il lavoro che ci può essere dietro ad un’etichetta indipendente jazz come la Tuk Music, che è l’altra faccia della musica di Fresu quando non è impegnato sul palco. Il minitour “La seduzione del coraggio” si sposa bene infatti con l’attività di promozione dell’etichetta, che permette una totale libertà creativa agli artisti coivolti, cercando inoltre di incanalarli verso il mondo della musica, un mondo che in Italia viene ancora faticosamente poco riconosciuto come lavoro vero e proprio. “Mettere su un’etichetta oggi è una follia, crearne una appositamente jazz significherebbe poi irrimediabilmente perderci. Per me stare dietro all’etichetta è irrinunciabile perché è come continuare a dare vita a quella che è una certa idea di musica, e questo minitour vorrebbe in qualche modo testimoniarlo. Per idea di musica non si intende solo quello che si andrà a suonare stasera sul palcoscenico insieme a Galliano e Lundgren: fare musica significa respirarla e viverla anche fuori dai palchi. Significa anche non leccarsi le ferite quando la gente non compra i dischi ma cercare di capire perché avviene questo fenomeno e dov’è la falla del mercato discografico”. ![]()
I temi trattati nei trenta minuti dell’incontro sono tanti e dei più vari, dalla regolamentazione del download su internet alle radio, dalla mancanza di un adeguato supporto culturale per la musica in Italia alla promozione dei giovani talenti sino ai concerti; il dato fondamentale che emerge dalle esperienze raccontate da Fresu e da un’inaspettata Petra Magoni, ospite a Pisa per presenziare ad un concerto di beneficenza il giorno dopo, è che la gente, se opportunamente stimolata e messa nelle giuste condizioni di fruizione, vuole conoscere e richiede di ascoltare musica di qualità. Proprio per questo la figura di Fresu è quanto mai emblematica, se non necessaria, per la scena internazionale: può fare da ponte per scoprire nuovi mondi sonori, jazz ma non solo, che rimangono sommersi da prodotti più commerciali. Un valore aggiunto, questo, che è lampante durante gli incontri itineranti targati “La seduzione del coraggio” e che verrà ribadito la sera stessa durante il concerto presso il Teatro Verdi. A proposito del suo nuovo album, Fresu aggiunge: “È un disco dove il jazz è presente ma va in una direzione molto aperta, visto che non ci siamo posti il problema se fosse effettivamente jazz o meno; anzi, probabilmente è il disco meno jazz che abbia mai registrato, come dimostrano anche le cover di Teardrop dei Massive Attack e di What Lies Ahead di Peter Gabriel contenute nell’album. La speranza è quella che, in un periodo di crisi del mercato discografico come quello attuale, un disco come questo possa incuriosire anche un ascoltatore diverso, o magari una fascia di ascoltatori più giovani che potrebbero trovare in questo progetto una scintilla d’interesse che magari potrebbe non scattare ascoltando qualcosa di più classico”.
Un obiettivo in buona parte raggiunto: il primo ad accogliere il musicista sardo nel negozio non è stato un vecchio jazzofilo con la barba bianca e sguardo severo, ma un ragazzino sugli otto anni con la copia del disco in mano e che la madre ha presentato a Fresu dicendo: “È un suo grande appassionato”.
Nella tua produzione recente ti sei spostato molto dal jazz puro, abbracciando sempre più altre sonorità anche molto melodiche che del jazz mantengono solo l’atmosfera come il trip hop. Da cosa è dettato questo cambio di prospettiva musicale?
Per me ormai è diventata la norma anche se dipende molto dalla tipologia dei progetti: ci sono dei dischi più sull’elettronica, altri più meticciati o più sul pop. Nel disco precedente registrato con Omar Sosa era presente la cover di Under African Skies di Paul Simon, quindi non ci poniamo problemi di stile: dopo una tournée entriamo in studio e la musica si evolve in maniera naturale. Da un certo punto di vista Eros è sicuramente uno dei dischi più out che ho fatto e risente dell’amore che provo per quel tipo di sonorità che ora stanno orientando molto il mio percorso musicale: da una parte continuo ad amare il jazz tradizionale ma dall’altra mi interessa meno suonare il jazz in quanto tale, e mi attira di più quando si sposa con tanti altri mondi diversi, che siano quelli della musica barocca o del pop. Oggi in ambito jazzistico c’è molta elettronica: è anche per questo che per “Eros” hai scelto di inserire il pezzo dei Massive Attack? La cover di Teardrop nasce un po’ con questa idea di suono e sicuramente se l’avessimo suonata con un arrangiamento più classicamente jazz non avrebbe avuto lo stesso senso.
Com’è nato invece il secondo capitolo di Mare Nostrum, il progetto che hai creato insieme a Richard Galliano e Jan Lundgren?
Mare Nostrum II, uscito a marzo, è la logica prosecuzione del primo album pubblicato nel 2007. Si basa bene o male sullo stesso principio: ci sono principalmente composizioni scritte da noi tre e poi ognuno ha dovuto portare un brano non suo, io ho portato un’aria di Monteverdi, Galliano un pezzo di Satie mentre Lundgren un pezzo tradizionale svedese. Ne è uscito fuori un album che è molto in sintonia con il primo, dai toni calmi, riflessivi, con molto spazio per far risuonare le numerose melodie. Il carattere europeo della musica è stato naturalmente mantenuto visto che siamo tre musicisti provenienti dalle aree francesi, italiana e svedese, così come le registrazioni, effettuate questa volta in Francia a differenza del primo fatte in Italia. Il terzo sarà registrato in Svezia così da chiudere la trilogia. Cosa ci dovremo aspettare dal concerto di questa sera? La set list che stiamo portando in giro è basata quasi totalmente sui pezzi di Mare Nostrum II, con in più qualche pezzo preso direttamente dal primo capitolo. Speriamo che possa coinvolgere quanta più gente possibile.
Mare Nostrum è l’incontro fra tre anime, pellegrine per altrettanti mari che alla fine confluiscono in un unico enorme specchio d’acqua formato dall’Italia con Paolo Fresu, tromba e flicorno, dalla Francia con Richard Galliano, fisarmonica, e dalla Svezia con Jan Lundgren, pianoforte. Tre paesi culturalmente distanti ma riuniti grazie alla forza comunicativa dal forte sapore mitteleuropeo della musica creata dal trio: martedì ventisei aprile il progetto Mare Nostrum è andato in scena presso il Teatro Verdi di Pisa in occasione della ricca rassegna organizzata da Pisa Jazz, portando sul palco principalmente i pezzi del secondo disco uscito a marzo, alternati a qualche composizione pescata dal primo capitolo che diede avvio all’avventura nel 2007.
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Parlare di jazz in senso stretto sarebbe alquanto fuorviante, oltre che limitativo, visto che nella musica dei tre musicisti confluiscono svariate influenze, non ultime la musica classica e certe melodie pop, come accennato da Fresu stesso in sede d’intervista; se di jazz bisogna parlare lo si potrebbe fare per quanto riguarda alcuni arrangiamenti e per l’atmosfera molto soft e quasi ovattata, incredibilmente mantenuta anche in sede live. E questo principalmente è dovuto, oltre che alla lunghissima esperienza di cui sono portatori gli artisti coinvolti, soprattutto alla forte empatia musicale quasi palpabile trasmessa dai musicisti sul palco: pur suonando tre strumenti differenti, lo stile adottato era comune, basato sul dosaggio parsimonioso delle note e con fraseggi mai sopra le righe e per nulla eccessivi. Un’esibizione che evita i facili egocentrismi nei quali alcuni musicisti jazz rischiano di cadere soprattutto durante i soli: per Fresu, Galliano e Lundgren questi momenti sono parte integrante dei brani, permettendo così di creare un gioco continuo di rimandi (soprattutto fra tromba e fisarmonica, le “voci” del trio) e portando a galla l’interplay che è alla fine il cuore pulsante dei concerti del progetto Mare Nostrum.
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L’aspetto melodico delle composizioni viene sottolineato molto più dal vivo che su disco: le registrazioni, infatti, rischiano di perdere impatto lungo gli ascolti mentre durante i live acquistano maggiore forza proprio grazie alla loro capacità di rivolgersi direttamente al pubblico senza ulteriori intermediazioni. D’altronde l’arte del progetto Mare Nostrum è musica diretta, altamente emozionale, che riesce a smuovere le corde emotive più profonde con un andamento narrativo da colonna sonora: tutto ciò viene ancor più amplificato durante il concerto, permettendo ad ogni ascoltatore di poter creare il proprio film interiore a seconda dei propri ricordi e stati d’animo. Dal pezzo d’apertura che da il nome al progetto, passando per alcuni dei brani del secondo capitolo come Aurore, Leklåt, la meravigliosa Blue Silence, Apnea, sino al bis con l’aria monteverdiana Si dolce è il tormento, l’ora e mezza del concerto passa incredibilmente veloce, lasciando alla fine il pubblico entusiasmato. Quella di Fresu, Galliano e Lundgren non è semplicemente musica creata da tre solisti, chiusi all’interno della loro campana di vetro fatta di sterile perfezionismo strumentale: è il risultato di un corpo unico che va al di là dei singoli elementi, frutto del delicato equilibrio fra perizia tecnica e forte capacità comunicativa.
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Mare Nostrum è sicuramente un progetto che va gustato molto più dal vivo che su disco: è diretto, istantaneo ma non banale, e quindi capace di coinvolgere ad un livello più profondo che rischia di rimanere non completamente espresso negli album. Dispiace solo constatare l’età media dei presenti in teatro che si aggira sulla cinquantina (con picchi di sessantenni), dimostrando ciò che Paolo Fresu ha detto nel pomeriggio sul fatto che il jazz rimane un genere ancora relegato ad una frangia di ascoltatori di età elevata. Non rimane che attendere il terzo capitolo per lasciarsi dolcemente naufragare ancora una volta per questo mare.
QUATTRO CHIACCHIERE CON PETRA MAGONI
Fra i presenti venuti ad ascoltare Paolo Fresu presentare “Eros” c’era anche Petra Magoni, voce dei Musica Nuda, progetto acustico che condivide con il contrabbassista Ferruccio Spinetti, nonché amica del trombettista sardo. Approfittando della sua presenza a Pisa dovuta ad un concerto di beneficenza organizzato dalla ONLUS “Nicola Ciardelli” tenuto il giorno dopo insieme all’Orchestra Operaia sempre al Teatro Verdi, e alla sua disponibilità, abbiamo scambiato qualche parola sull’incontro appena concluso e non solo. Come ti sei avvicinata alla musica di Paolo Fresu e cosa rappresenta per te la sua arte? Ci conosciamo da più di quindici anni e posso dire che è un personaggio che non ho compreso a fondo almeno sino a quando non ci ho suonato insieme. All’inizio può sembrare una persona un po’ sulle sue ma poi si rivela di grande generosità ed anche simpatico ed espansivo. Nel momento in cui abbiamo suonato insieme credo di aver capito un po’ più di cose sul suo conto, innanzitutto perché abbia così tanti progetti e suoni con persone così diverse; secondo la mia impressione, non credo che lo faccia per esserci a tutti i costi o per piacere alla maggior parte della gente ma per una sua ben precisa esigenza artistica. A partire dal concerto con lui e Paola Turci a Berchidda, sono nate successivamente delle collaborazioni insieme ad un forte rapporto artistico che si rinnoverà fra l’altro proprio quest’anno con il concerto di beneficenza per L’Aquila e un altro sempre a Berchidda, sia su nave che nel paese. Sono fra l’altro molto contenta di aver assistito a questo incontro di oggi poiché ho condiviso ogni singola parola di Paolo: sono discorsi che fra musicisti ci facciamo continuamente, ma un conto è farli solo fra noi e un conto è invece esporli anche alla gente in modo molto chiaro e sincero come ha fatto lui. Ritengo l’idea di andare personalmente nei piccoli negozi di musica una cosa fantastica, e che avrei voluto fare anch’io, perché riporta valore alla musica e a chi la fa con passione. A fronte della globalizzazione totalizzante delle grandi catene di dischi, i piccoli negozi delle singole città cercano di resistere per mantenere un rapporto diverso col pubblico, divenendo quindi un consigliere a tutti gli effetti, indirizzandolo verso un prodotto anziché un altro. Uno degli aspetti più interessanti di questi incontri è l’avvicinamento dell’artista verso il pubblico. Fresu ha deciso di andare verso gli ascoltatori, non è avvenuto il contrario come può invece capitare con alcuni musicisti che “gettano” la loro musica su un pubblico passivo e che di fatto poi non la recepisce. Bisogna sempre cercare di mantenere un rapporto verso chi ti ascolta. Io vado a cavallo e spesso uso l’analogia del cavallo per descrivere il pubblico: correndo ogni volta con un cavallo diverso non posso impormi sull’animale con la frusta ma devo prima conquistarmi la sua fiducia. Solo successivamente il cavallo, ovvero il pubblico, si fida e mi segue lungo un determinato percorso. Questo quindi ti pone sotto una luce diversa, ma salire su un palco e imporre te stesso non né il modo di Paolo né il mio di affrontare la musica, a differenza magari di altri che invece lo fanno. Ritornando a quando con i Musica Nuda abbiamo condiviso il palco con Paolo, mi sono accorta di quanto lui ascoltasse quello che succedeva senza mai imporsi: questa è la sua grande forza, come quella di ogni musicista che vuole mettersi al servizio della musica e non del proprio ego. Cos’è l’Orchestra Operaia con la quale collabori già da un po’ di tempo? L'Orchestra Operaia, creata e diretta da Massimo Nunzi nel 2013, nasce ufficialmente nel gennaio 2014 e si chiama così perché l'italiano è una lingua ricchissima di sostantivi che possono essere usati in molti modi diversi e sorprendenti. L'Operaia celebra l'opera dell'uomo "faber" (homo faber ipsius fortunae significa letteralmente "l'uomo è l'artefice della propria sorte"), vista come lavoro creativo in comunione e coordinamento sincronizzato delle energie, degli scopi artistici e delle finalità economiche, senza inutili competizioni ma verso l'obbiettivo dell'eccellenza. Il modello dell'Operaia sono le api. L'Orchestra Operaia celebra il talento. Infatti, un musicista, dopo anni di studio, ha come "forza lavoro" solo il suo talento, sia esso strumentale o compositivo. Ed è quello che "vende" al mondo. L'Operaia è stata creata per valorizzare quella "forza-lavoro". È importante sottolineare come il nome dell’orchestra non voglia avere alcun tipo di connotazione politica. Nulla a che vedere con lotta operaia, classe operaia, sindacati e simili. Operaio è un sostantivo italiano, non solo una categoria politica e sociale. Nasce per reagire alla crisi e riesce se non a batterla, a sostenerla meglio. L'Operaia è un investimento umano ed economico che facciamo tutti con lo stesso scopo: fare ciò che amiamo. Massimo è il capo e gli operai lo sanno e lo sostengono. Si prende le responsabilità e fa delle scelte condivise. Sanno che si lavora per il bene comune con tutti i limiti umani che ognuno di noi ha. Gli Operai sanno che stanno lavorando per crearsi delle opportunità. Che altro si può fare altrimenti? Nessuno lo sta facendo per noi. Pagina facebook dell’Orchestra Operaia: www.facebook.com/OrchestraOperaia
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Aprile 2023
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