L'AspettandoMetarock2017 ha avuto il pregio di dare grande spazio alla musica italiana. Ma non solo a una musica italiana. Abbiamo già detto degli Zen Circus, ma non ancora di Bobo Rondelli e di Levante. La musica d'autore e il pop, le vene di amori disperanti nella reinterpretazione dei classici di Piero Ciampi, e le varie cariche emozionali proposte da una fresca trentenne in gran spolvero. Due serate diverse e compenetranti. L'una da gustarsi seduti, all'attenzione della chitarra, di un piano e di una tromba. L'altra da non poter rimanere seduti, da vivere a distanza dal palco per cogliere appieno il richiamo e da riavvicinarsi più possibile per ascoltare un "Abbi cura di te" a cappella da brividi.
Ha aperto le danze giovedi 8 giugno Bobo. Una bottiglia di vino rosso per non tradire le buone tradizioni di un artista che non canta soltanto, ma soprattutto racconta della vita, delle sue sventure oltre a quelle di un Piero Ciampi che omaggia. Che scherza, bercia, ride. Fa ridere tanto, ma soprattutto è consapevole di portare dolore a chi si è presentato dinanzi al palco di Piazza dei Cavalieri in preda a proprie sofferenze d'amore e non. Le medesime alle quale infatti egli dà forma e sostanza attraverso un tono di voce che sembra direttamente partorito negli anni '60 e aver conservato un calore intatto sino ai giorni nostri. "Ciampi ve lo faccio vedere" si presenta come uno spettacolo di intrattenimento senza confini, in cui tutto partecipa, che possegga un'anima o meno. Dal passaggio di una volante della polizia o di un'ambulanza, ai divertenti siparietti con i suoi musicisti, ai paragoni mai volgari tra Pisa e Livorno. In una sequenza da teatro-canzone più gucciniana che gaberiana, corrono l'una dopo l'altra senza rovinarsi "Tu no", "Il vino", "Il merlo", "Sporca estate" e altri battiti che essenzialmente si riconducono a uno stato d'animo inquieto, rivolto al passato, puntato nel tentativo di recuperare qualcosa di compromesso o in un suo ricordo soltanto. Bobo alza il livello con padronanza, conquista il palco in sordina e chiude l'esibizione con una versione de "La Canzone dell'Amor perduto" di tutto polso e cuore. Applausi, ma anche strette di mano e abbracci.
E il giorno dopo tocca a lei. Alla prodigiosa siciliana di Torino appena trentenne, che ritorna a Pisa per la terza volta, ma è al suo esordio assoluto in Cavalieri, all'aperto e a capo di uno show tutto suo. La tappa pisana del tour di "Nel caos di stanze stupefacenti" mette in mostra una Levante giunta a una maturazione importante. Il pop e il movimento la fanno da padroni, stillando nel pubblico la consapevolezza di dover fare parte integrante del concerto, di essere una componente basilare al seguito della "capa", Claudia Lagona per gli annali. Che al suo terzo disco in soli quattro anni, dopo "Manuale Distruzione" del 2014 e "Abbi cura di te" del 2015, applica una svolta alla sua dimensione artistica. Levante è cosciente di aver messo da parte una veste più intimistica e indie a favore di un approccio commerciale, più diretto e "cattivo" se vogliamo. Nelle canzoni di Levante emergono rabbia e forza principalmente. Basta fermarsi ad ascoltare "Io ti maledico", "Non me ne frega niente", per esempio, che inneggiano a una ribalta di sè. Allo stesso tempo, non possono mancare momenti di pura sospensione del tempo che vivono in brani della prima ora come "Sbadiglio", "Memo". Non è sufficiente la parola al pensiero. C'è bisogno di un suono, della musica a esprimere la magia di alcuni ragionamenti, che in questo modo riescono ad alzarsi in volo e ad accomunare le menti.
Immagini tratte da:
Foto dell'autore Bobo Rondelli (Eva Dei) Foto dell'autore Levante (Alice Marrani)
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In un’estate toscana, quest’anno ricchissima di musica live dei più vari generi, nella Capitale della Cultura 2017 sta per iniziare la trentottesima edizione di Pistoia Blues Festival. Undici i concerti in piazza Duomo, in un mix di artisti italiani e internazionali che comporranno un ricco programma dal 28 di giugno al 15 di luglio.
Ad aprire il Festival il 28 giugno sarà Franco Battiato, eccezionalmente sul palco con la Royal Philharmonic Concert Orchestra di Londra. Angelo Privitera alle tastiere e i quaranta elementi dell’orchestra, condotti da Carlo Guatioli, daranno una suggestiva e raffinata atmosfera al repertorio, composto dai maggiori successi del cantautore italiano in una veste originale.
Il 29 giugno tornano in Italia i 2Cellos. Luka Sulic e Stjepan Hauser, i due giovani violoncellisti diventati famosi in tutto il mondo, saranno accompagnati dalla String Orchestra. Provenienti entrambi dalla musica classica arrivano alla celebrità con la reinterpretazione di brani di musica contemporanea. Da quel momento la loro fama è cresciuta esponenzialmente. Dopo tre album in studio e un grande numero di concerti in tutto il mondo, arrivano sul palco del Pistoia Blues con un repertorio che unisce il pop rock e varie rivisitazioni di celebri colonne sonore. Martedì 4 luglio, la prima esclusiva italiana: il leggendario Little Steven e i Disciples of Soul. Il chitarrista di Bruce Springsteen propone i brani del suo nuovo album, Soulfire, Il disco, uscito a maggio dopo venti anni di assenza dalla discografia, ripercorre tutta la carriera dell’artista. Prima di lui Maurizio Pirovano, cantautore italiano da sempre ispirato dal rock americano, la road band milanese Audyaroad e ad aprire la serata il bluesman livornese Luca Burgalassi.
Giovedì 6 luglio, una serata tutta inglese con gli Editors e i The Cult. I primi, guidati dal frontman Tom Smith, arrivano a Pistoia per una delle tappe del loro tour che proseguirà toccando i più grandi festival internazionali, iniziato dopo l’uscita del loro quinto album, In Dream. I secondi, storica band guidata da Ian Astbury e Billy Duffy, saranno per la prima volta sul palco del Festival con i brani del loro decimo album Hidden City, uscito nel 2016 che li riporta alla celebrità dopo i grandi successi degli anni ottanta e novanta.
Venerdì 7 luglio una speciale Italian Blues Night a ingresso libero. Sabato 8 luglio, per la prima volta il Festival ospiterà Mannarino. Il suo ultimo album, Apriti Cielo, profondo colorato e intriso di una buona dose di speranza, ha riscosso da subito un grande successo. “Apriti Cielo Tour 2017” arriva a Pistoia dopo aver già collezionato sold out in varie date italiane e unisce i brani del nuovo disco con quelli più famosi della carriera del cantautore romano. Domenica 9 luglio Stefano Bollani presenterà sul palco di Piazza Duomo il suo ultimo disco Napoli Trip. Un’unione di diverse e originali suggestioni in un viaggio nella tradizione napoletana, accompagnato da musicisti d’eccezione come Nico Gori, Daniele Sepe, Bernardo Guerra. Ad aprire la serata Flo, giovane, raffinata cantautrice napoletana che è già diventata famosa in tutta Italia.
Mercoledì 12 luglio, dopo una breve pausa, il programma riprende con una serata carica di energia. Sul palco Gogol Bordello, una delle band “gipsy” più amate al mondo, in un concerto che unisce musica gitana, rock, punk e reggae. Prima di loro: Dubioza Kolektiv, Disperato Circo Musicale e ad aprire la serata i pratesi Frank DD & Friends: gruppo toscano già tra i vincitori di Toscana 100 Band.
Giovedì 13 luglio torna Notte Rossa in collaborazione con Avis Pistoia. Quest’anno ospite della serata Niccolò Fabi con il suo ultimo disco Una somma di piccole cose, vincitore di una Targa Tenco e certificato disco d’oro. Ad aprire la serata, con un’immersione della musica etnica dell’area calabro-lucana, il progetto del gruppo Radio Lausberg. Il 14 luglio, la seconda esclusiva del Festival: Tom Odell, giovane cantautore britannico scoperto da Lily Allen e arrivato ai vertici delle classifiche inglesi. In apertura ELYA, Eman, e i Leave The Memories. La chiusura, sabato 15 luglio è affidata a una speciale serata in omaggio al grande armonicista James Cotton, scomparso lo scorso 16 marzo e più volte ospite del Pistoia Blues. Dalle 18.00 a tarda serata Charlie Musselwhite e Fabio Treves, Borrkia Big Band con Danny Bronzini e Mimmo Mollica e i Lambstone. Apriranno le tre band vincitrici del contest Obiettivo Blues In. Info e biglietti: http://pistoiablues.com/ http://pistoiablues.com/biglietti/ https://www.facebook.com/PistoiaBlues/ Immagini tratte da: https://www.facebook.com/PistoiaBlues/ http://pistoiablues.com/
È iniziato ieri Etnica che quest’anno compie i suoi primi venti anni. Il Festival, come da tradizione, anima Vicchio, in provincia di Firenze, unendo il senso di appartenenza al territorio all’apertura verso un pubblico vario che ogni anno arriva nel paese anche da lontano.
La musica del mondo è come sempre il centro della manifestazione che propone un programma ricco di concerti tutti gratuiti, caratteristica, fra i festival toscani, più unica che rara. Ai concerti principali in piazza Giotto e a quelli in piazzetta di Ponente si aggiungono vari eventi collaterali: le cene e il mercatino etnico colorano le strade con colori e profumi provenienti da tutto il mondo. Un progetto di integrazione renderà protagonisti gli immigrati africani ospiti a Vicchio: Hello Africa, un concerto di percussioni e voci in collaborazione con alcuni musicisti del luogo. Ampio spazio viene lasciato anche alle iniziative rivolte ai più piccoli che potranno partecipare a eventi a loro dedicati e laboratori. L’inaugurazione di ieri sera è stata affidata ai Modena City Ramblers, gruppo storico del combat folk italiano. Dopo aver festeggiato nel 2016 i venticinque anni di attività sono tornati con un nuovo progetto discografico e nel marzo 2017 hanno pubblicato il nuovo disco di inediti dopo quattro anni, Mani come Rami, ai piedi radici (MCRecords/ Believe).
Stasera la musica occitana incontra l'elettronica in Gran Bal Dub. Il progetto nasce da un'idea di Sergio Berardo, storico agit prop della musica occitana con i mitici Lou Dalfin e innumerevoli altre formazioni, e Madaski, co-fondatore degli Africa Unite e uno dei più grandi esponenti della musica elettronica nella sua versione dub. La musica popolare ha la forza di mettere in contatto forme espressive geograficamente distanti ma nella sostanza simili come spirito e ragione di essere. È così che la musica degli storici suonatori ambulanti di ghironda, arrivata al presente attraverso l’opera di Berardo, incontra una realtà, quella elettronica, solo apparentemente lontana dalle atmosfere folk delle Alpi Occidentali. Una forma di scambio e interazione che rappresenta una delle caratteristiche storiche di tutte le musiche popolari: l’attuale che arricchisce l’antico e trova nella memoria nuove ragioni di esistere.
Domani sera doppio concerto con i Mescaria, che ci porteranno nelle sonorità del Mediterrano, e il gruppo storico del rock stady e ska italiano The Bluebeaters. Mescaria da sempre racconta l’essenza di un viaggio musicale e sonoro che dal sud Italia si estende in varie regioni del mondo fino a toccare la Nigeria e l’anima gitana. Dopo diciotto anni con i Bluebeaters, alla fine del 2012 Giuliano Palma sceglie la carriera solista. Il gruppo rinasce in soli nove mesi: accanto a Cato Senatore, De Angelo Parpaglione e Count Ferdi torna Pat Cosmo Benifei alla voce, assieme ad altri musicisti che hanno fatto parte della grande famiglia cresciuta nei vent’anni passati. La loro carriera arriva fino a oggi ricca di concerti e collaborazioni, sempre forte di un suono e uno stile riconoscibile e inconfondibile.
Domenica 18, il festival si chiuderà con una grande festa di piazza. La Roda de Samba e il concerto della Banda Do Carmelindo. La roda do samba è una tradizione brasiliana, occasione di convivialità e musica, in cui ognuno contribuisce suonando uno strumento, o anche solo cantando, per la gioia dello stare insieme intorno a una tavola imbandita. In collaborazione con Etnica 2017, per chiudere in festa la ventesima edizione, O Bonde do Carmelindo assieme a Mariane Reis e Iramar Amaral hanno messo in piedi una Roda de Samba alla maniera di Rio de Janeiro, con cena a base di specialità brasiliane, e a seguire, sul palco principale, un concerto di samba per 13 elementi.
Fonte: ufficio stampa Immagini: https://www.facebook.com/etnicaJcov/ Ufficio stampa
Un lampo, anzi una serie in una serata che anticipa l'estate. Una domenica di inizio giugno, tra la Scuola Normale e la Torre Gualandi, un pubblico in attesa, Enrico Rava che spunta in perfetto orario. Apre l'eccezionale fuoriprogramma di PisaJazz catturando la platea attraverso un lungo assolo di sax, una sinfonia soffice e calibrata, che non ha bisogno di voce umana per poter parlare, per raccontare una storia o inventare sognanti traiettorie. Un antipasto da antologia firmato da uno dei capisaldi del jazz italiano che a quasi 80 anni dimostra non solo di fare ancora faville, ma di non volersi fermare. E il sassofono al posto della tromba, il suo rosario che l'ha reso un fenomento internazionale, appare già di per sè una mossa sbarazzina con cui lanciare il pubblico alla volta di un viaggio di grandi contenuti e atmosfere.
Dopo l'introduzione del Maestro, il palco viene monopolizzato dall'intraprendenza e creatività dei Soupstar, il duo composto dal trombone di Gianluca Petrella e il piano di Giovanni Guidi. Un mix effervescente e in costante evoluzione, che va al di là del jazz tradizionale per affondare le sue radici nell'elettronica, nel dialogo tra due strumenti che aspettano l'uno l'altro, si fondono oppure lasciano spazio all'uno o all'altro. Petrella dall'altro della sua ventennale carriera dimostra di saper programmare il suo trombone su frequenze sonore multilaterali, conducendolo con solerzia ma anche "spremendone" l'urlo fino in fondo. Lo trasforma in una sorta di ventriloquo e di attore drammatico. Guidi, che ha impressionato Rava durante i seminari estivi pianistici di Siena, segue in sordina il suo compagno, si divincola con esperienza tra piano e tastiere, crea atmosfere di classica sala di ballo, ma anche inattesi tappeti dal ritmo sinistro su cui Petrella costruisce i suoi strepitii. Nella notte pisana sono ormai addensate diverse voci, pronte ad ampliarsi ulteriormente nel momento in cui Rava solca di nuovo il palco con la sua "arma prediletta" per incontrare i "suoi" Soupstar, che conosce fin troppo bene. Si erge allora un trio formidabile, un frizzante ensemble che ben presto accende le luci anche sul contrabbasso di Gabriele Evangelista e la batteria di Bernardo Guerra, anch'essi collaboratori di Rava, figli riconosciuti della sua scuola. Un quintetto da top, che lavora in coesione e lascia spazio alle singole invenzioni, e alle sortite in extremis del sassofono di Dimitri Grechi Espinoza, che giunge a completare un'orchestra che non lascia pause. Ne nasce, tra le altre, una versione estesa di "Perhaps, perhaps, perhaps" di Doris Day, che ha la virtù di perdersi e ritrovarsi in variazioni che non hanno ragione di finire. Rava spesso parla con i musicisti, gomito a gomito, scarica la sua tromba in parallelo con i virtuosismi di Petrella, mentre Guidi si occupa del sottofondo e Espinoza affida al colore del sax il compito di avvolgere l'intera scena. L'esclusivo appuntamento jazzistico del 4 Giugno pisano in una delle sue più invocate "Notti dei Cavalieri" riesce alla grande, lasciando nell'animo, poco dopo la sua conclusione, un'insaziabile fame di jazz. Immagini tratte da : - Immagine 1 da https://www.facebook.com/pisajazz/?ref=page_internal - Immagine 2 da www.ansa.it
Prima che il grunge diventasse commercialmente appetibile, prima del successo di Nevermind, prima delle hit da classifica, prima della leggenda postuma costruita intorno a Seattle: i Soundgarden di Chris Cornell furono fra i primi gruppi promotori di un sound sporco, sanguigno, pesante per una generazione che si sentiva costantemente ai margini. Questo era il grunge.
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They saw you today as you were leaving/And they run to hunt you down/Dogs lead the chase as you are bleeding/They run to hunt you down
Questi i primi versi originali mai cantati da Chris Cornell. Questa la prima canzone, Hunted Down, che nel 1987 si poteva ascoltare di un gruppo dal nome particolare ed evocativo: Soundgarden, moniker preso in prestito da un’istallazione sonora di Douglas Hollis posta al centro di un parco di Seattle, composta da una serie di colonne metalliche simili ad antenne che al passare del vento producono determinati suoni e rumori. Un’opera definita da Kim Thayil, chitarrista della band, sublime e squallida allo stesso tempo. Due aggettivi che si potrebbero adattare molto bene all’essenza della musica dei Soundgarden e di tutto il movimento che fra gli anni ’80 e ‘90 la stampa battezzò come grunge: musica perennemente divisa fra melodia e dissonanza, con voci che potevano diventare dolci sussurri e subito dopo urla rabbiose, in bilico fra pesantezza e ariosità, perennemente sul punto di spiccare il volo ma cosciente che il suo destino sarà quello di precipitare nel vuoto, senza paura. Solo da qualche anno si inizia a capire che quella strana cosa chiamata grunge non può essere riferita soltanto a un movimento o a una corrente musicale: troppi gruppi diversi per sonorità, influenze, stili; come poter accostare ad esempio gli Alice in Chains con i Mudhoney, i Mother Love Bone con i Green River o i Pearl Jam con i Melvins? La stampa generalista dell’epoca, soprattutto a partire dal successo di Nevermind dei Nirvana nel 1991, iniziò a compiere ciò che di solito gli riesce molto bene in questi casi, ovvero generalizzare senza andare a indagare nel particolare le genesi stilistiche delle varie formazioni di quel piccolo universo, vuoi per comodità di classificazione, vuoi per poter meglio cavalcare il trend del momento attirando così più lettori possibili. Su una cosa però si può essere certi: il grunge, qualunque cosa sia stata, ha saputo dare una voce a un’intera generazione che non sapeva ancora cosa dire e soprattutto come dirla. Le camicie di flanella, i jeans strappati, i capelli lunghi, i giubbotti a coste e le scarpe in stile Converse, prima ancora di arrivare fra le passerelle delle grandi sfilate come succede oggi o fra i negozi di H&M, erano segni distintivi di una generazione che vedeva sé stessa come eternamente perdente rispetto a quella dei propri genitori, di ragazzi della working class delle periferie americane senza grandi opportunità rispetto ai coetanei nati invece in altri contesti e in altre città. I diari di Kurt Cobain, pubblicati per la prima volta in Italia all’inizio degli anni 2000, danno uno spaccato molto interessante di questa situazione, filtrata naturalmente attraverso gli occhi di una persona molto sensibile e fragile, nata nel posto sbagliato. Per molti giovani di Seattle e delle città limitrofe la musica diventò la naturale e più potente valvola di sfogo e di aggregazione che potesse esserci, e l’attitudine “do it yourself” del punk il modo di vedere il mondo, nonché il principale comun denominatore che legava gruppi dalle sonorità e dagli stili così differenti. Una generazione che non era completamente preparata all’ondata di successo che arrivò negli anni ’90 e il martirio di Cobain fu il caro prezzo che si dovette pagare. Ironia del caso (ma neanche tanto): il leader dei Nirvana si suicidò proprio perché avvertiva tutto il peso della notorietà che il mondo del business musicale gli stava costruendo attorno: egli non voleva essere considerato un’ennesima rockstar, un ulteriore feticcio da mostrare nel mausoleo del rock. La sua morte però suscitò proprio l’effetto contrario e con il suo gesto Kurt Cobain si è tramutato in uno degli ultimi martiri (involontari) della musica e dello spettacolo. ![]()
La morte di Chris Cornell ha riportato la mente di molti a quel cinque aprile 1994, come anche alla morte per overdose di Layne Staley avvenuta esattamente otto anni più tardi. Il grunge non ha mai smesso di chiedere il conto di una stagione profondamente dolorosa, allungando le sue ombre sui suoi principali protagonisti nonostante il lungo arco di tempo ormai trascorso: proprio come i versi di Hunted Down, segue instancabile le tracce cacciando tutti coloro che cercano di scappare. Il cantante dei Soundgarden, nonostante i suoi periodici problemi di alcol e droga che lo facevano ricadere in profonde dipendenze, cercava di allontanarsi da quel passato, grazie alla musica innanzitutto, da solista e con gli Audioslave, e poi ricucendo la sua vita tramite gli affetti familiari. Ecco perché è necessario non fare nuovamente ciò che si è fatto con Cobain, cioè creare un nuovo martire. Tanto più se poi, come ha dichiarato la moglie di Cornell in un comunicato ufficiale, le cause del suicidio potrebbero essere imputate a un sovradosaggio di Lorazepam, farmaco usato per curare l’insonnia e l’ansia, che può stimolare, in determinate situazioni non controllate, tendenze suicide.
La voce di Chris Cornell è sempre stata quella energica e sofferta di un’anima alla perenne ricerca di sé stessa. Dai primi versi cantanti dell’ep di debutto Screaming Life fino ai successi di metà anni ’90 di Superunknown e del sottovalutato Down on the Upside, la sua voce è sempre stata perfettamente riconoscibile divenendo sin da subito marchio di fabbrica dei Soundgarden. Screaming Life, pubblicato nel 1987, e il secondo ep Fopp, uscito un anno dopo (e riuniti insieme dalla stessa Sub Pop nel 1990), testimoniano un periodo in cui la parola grunge era sinonimo di sporcizia, marciume, sudore e insofferenza. Un atto irriverente e urlato del quale i Soundgarden furono indubbiamente fra i prime mover insieme a Green River, Mudhoney e Melvins prima che il music business iniziasse a interessarsi a ciò che circolava intorno a Seattle. Se l’energia, la potenza e la compattezza del songwriting sono rintracciabili sin da subito, ciò che spiazza chi conoscesse il gruppo solo per le sue pubblicazioni più famose è il suono: le influenze punk e metal, rintracciabili ad esempio in Tears to Forget e nella trascinante Nothing to Say (quest’ultima quasi un preludio di ciò che si sentirà su Louder Than Love e Badmotorfinger), si mischiano a derivazioni post-punk e gotiche alla Killing Joke, Bauhaus e The Cult. Un mix personale che si incontra col funk sbilenco di Little Joe, all’hard rock di Sub Pop Rock City (contenuta originariamente nella storica compilation Sub Pop 200) e all’inusuale remix dub di Fopp. In questa prima parte della loro storia i Soundgarden sono un gruppo alle prime armi ma dotato di talento e di una seppure acerba personalità che nel corso del tempo emergerà sempre più prepotentemente: un primo vagito, un urlo sgraziato ma potente che accompagnerà sempre Chris Cornell e i Soundgarden. Soundgarden – Screaming Life/Fopp (Sub Pop, 1990)
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