E' passato un mese preciso da quando alle mie orecchie è arrivata dritta la scarica elettrica. La scarica elettrica durante la quale Daniele Silvestri ha lanciato con sicura potenza un semplice "Ciao Pisa", che amplificato in un mix del furore della sua voce e dell'alta tensione dell'assolo si è tramutato in una bomba ad orologeria. Quasi cinquant'anni il mittente dello spettacolo, una carica ed inventiva che i suoi attuali colleghi di un quarto di secolo dopo probabilmente non capiscono. E pensare che prima di assistere al suo concerto sul Palco del Metarock16 mi ero limitato a sorbirmi alla televisione i vari singoli come "Salirò", "Sempre di domenica", "Il mio nemico". Beata ignoranza. Il cantautore romano supportato dalla sua band storica e dai "blitz" del talentuoso artista aostano Diodato ha inaugurato a dovere l'edizione annuale dello storico Festival, riscaldando la serata di Sabato 3 Settembre presso il Parco della Cittadella di Pisa attraverso uno show che ha sforato in gloria la Mezzanotte e il coprifuoco delle due canoniche ore di esibizione. Dall'alto della sua esperienza più che ventennale che nel 1994 ha visto l'esordio ufficiale sulla scena sotto l'egida di un rassicurante disco d'esordio dal titolo di "Daniele Silvestri", Silvestri ha più che soddisfatto la buona cornice di pubblico sopraggiunta mettendo in evidenza una grande freschezza tanto vocale quanto strumentale. Dividendosi a turno tra chitarra acustica, chitarra elettrica e piano, egli ha saputo costruire uno show a tuttotondo che intorno alla musica ha conferito il giusto rilievo al teatro e alla scenografia, al dialogo su temi sociali e personali, alla multimedialità attraverso la proiezione di videoclips su un apposito schermo posto nel cuore della scena. In coerenza con la sua consueta vena ironica e sarcastica, il cantautore romano ha affidato al brio dell'elettronica e del rock le chiavi dello spettacolo, concentrando ad un certo punto la sua attenzione su una mini-digressione acustica risaltata da un piano minuscolo ma accattivante piombato da chissà dove. In quel momento, munito di un cilindro esattamente come nel video corrispondente, ha regalato una memorabile performance di "Acrobati", il singolo che ha dato nome al suo album, riuscendo a catturare in pieno il silenzio dopo aver cristallizzato momentaneamente le scorie di adrenalina del prima e del dopo. Non è gioco da ragazzi trovare un compromesso tra otto album e venticinque anni di carriera, tra ballate d'amore indimenticate ("Le cose in comune", "Occhi da orientale"), brani pop che sanno di sincerità anni' 60 ("Gino e l'alfetta", "Ma che discorsi"), riflessioni acute ("A bocca chiusa", altro apice della serata). Ancor più complicato discernere per riempire due ore, salvo poi decidere di fregarsene per non offendere i fan affezionati e quelli ignoranti e tabula rasa stile me senza salutare per mano di "Testardo" ed "Occhi da orientale". Lunga vita a Daniele, al suo carrozzone di musicisti e amici, alla sua umanità che lo porta alla fine del lavoro a varcare le transenne per firmare autografi mentre la norma presuppone che la gente di norma boriosa e mestruata corra a rendere omaggio al tavolo di un ristorante. Foto tratte da: - Immagini dell'autore (Sara Portone e Giovanna Leonetti) - Video di Giovanna Leonetti
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La cosa che più mi è rimasta nella mente di San Francisco è la luce, una luce calda che accompagnava tutta la giornata con la stessa intensità.
Ricordo anche i suoi fiori, San Francisco è una città piena, ricca di fiori, tantissime varietà di fiori, bellissimi da vedere, da toccare e da annusarne il profumo. Di San Francisco poi ricordo (ovviamente) le strade, è vero, vanno proprio in su e in giù, salita e discesa. Ho visitato le strade di Hight Ashbury, il giorno dopo essere arrivata in città. Hight Ashbury è uno dei quartieri principali di San Francisco, prende il nome dall’intersezione tra Ashbury Street e Haight Street, strade entrambe dedicate a figure rilevanti per la crescita del quartiere (Munroe Ashbury e Enry Huntly Hight, rispettivamente consigliere e governatore della California durante gli anni Settanta dell’Ottocento). Hight Ashbury negli anni Sessanta è stato il centro della controcultura e del movimento hippie e di quell’altro lato della Psichedelia, ancora oggi è infatti intriso di quella storia, di quella cultura e di quei colori. Entrando in alcuni negozietti sembra di fare un salto temporale di cinquant'anni e non è un luogo comune; il quartiere porta ancora con sé ciò che ha vissuto: la Summer of Love, la piena Controcultura, il Flower Power, lo spirito di tutte le grandi personalità che hanno attraversato quegli anni, brevi in realtà, di pura e sana ribellione.
Hight Ashbury è stato l'epicentro della rivoluzione dei figli dei fiori, ha visto grandi “esplosioni” sotto ogni tipo di contesto, dal pensiero all’approccio alla vita delle persona, dall’arte alla musica, che diventano esse stesse vita.
Il rock diventa e si consacra come voce della gente e veicolo di contestazione, di diffusione del pensiero e della nuova filosofia, di pace e di amore. Attraverso il rock questa rivoluzione si è fatta conoscere al mondo. Il brano di Scott McKenzie San Francisco, divenne l'inno di chi amava la filosofia hippie ma la viveva in realtà dal di fuori; ebbe merito di attirare l'attenzione dei giovani europei sul nascente movimento e penso che ancora oggi abbia questa funzione e si sia comunque consolidata come tale. Erano brani come Somebody to Love e White Rabbit dei Jefferson Airplane, tutto un altro tipo di immaginario, considerati i veri inni dei figli dei fiori che vivevano e consumavano la vita tra i quartieri di SF e intorno ad Hight Ashbury. Passando per quelle strade ho assaporato il pensiero di tutte queste cose insieme e ho pensato a quanta e che tipo di bellezza possa aver sprigionato Hight Ashbury nel 1967.
Un'altra cosa che mi è rimasta nella mente, nel quartiere di Haight Ashbury, è il vento leggero che arrivava quando scendeva la sera; era un vento che portava con sé qualcosa, un vento leggero e fresco che sembrava ingannare il tempo e le persone.
Bibliografia di riferimento Massimo Cotto, We will rock you, BUR, 2009 Foto tratte da: foto dell'autore
Un viaggio al termine della notte quello del sedicesimo album di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds: due anni di lavorazione per un’opera profondamente segnata dall’ombra della morte del figlio del musicista australiano. Confessione, inquietudine, preghiera: questo è “Skeleton Tree”.
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Il cielo sembra ritornare parecchie volte negli ultimi anni nelle parole e nello sguardo di Nick Cave.
Quella vastità ora azzurra e limpida, ora solcata da nuvole, ora rossa come il sangue al tramonto si rispecchia negli occhi dell’artista australiano tanto che lo ritroviamo sia come titolo del penultimo “Push The Sky Away” che di una canzone, Distant Sky, del suo nuovo album “Skeleton Tree”. Un’immagine, quella del cielo, che è piena sia di riferimenti religiosi e sia di più intimi e personali, luogo elettivo al quale rivolgere e farsi rivolgere confessioni, pensieri, preghiere, pianti, benedizioni e maledizioni, importantissimo e centrale per una figura continuamente inquieta come quella di Nick Cave. E il cielo fa la sua improvvisa irruzione anche in “Skeleton Tree” sin dall’inizio, con un verso che va a giù a fondo nella carne come un coltello: «You fell from the sky and crash-landed in a field near the River Adur», e la mente non può non correre alla tragedia che colpì il figlio di Cave, Arthur, che l’anno scorso è morto a soli 15 anni cadendo da una scogliera di Brighton. Ma questa non è altro che una delle possibili chiavi di lettura (probabilmente la più tragica) del testo di Jesus Alone, il brano d’apertura che ospita quel verso: Nick Cave, con le parole, ci ha sempre giocato, modellando le metafore per descrivere avvenimenti personali e pensieri intimi, tanto da far risultare difficile capire dove finiscono le une ed iniziano gli altri. Il cielo che avvolge come un sudario quest’ultima opera del compositore australiano e dei suoi fidi Bad Seeds è nero, cupo, plumbeo e profondo come l’inchiostro. Inchiostro che scorre nelle sue vene e che, come in un sacrificio, lascia scorrere abbondantemente, vergando pagine dolenti e profondamente fragili alla ricerca di un senso o più semplicemente di un modo di uscire dal suo dolore. Il Nick Cave che emerge dalla voragine aperta dalle otto canzoni di “Skeleton Tree” è quella simile, appunto, ad un albero scheletrico in mezzo al deserto: spoglio, fragile e solo. ![]()
Jesus Alone, quindi, e non è per niente un caso. Il brano può essere preso a manifesto dell’intero disco: suoni minimali e poco stratificati che accompagnano degli arrangiamenti semplici ed efficacissimi, permettendo così alla voce di Cave di emergere in tutta la sua espressiva profondità. Un loop ossessivo e leggermente acido si muove circolarmente, imponendosi sin da subito come il cuore del pezzo ed incantando come una nenia, accompagnando gli innesti leggeri, quasi dei sussulti, degli archi che donano un andamento da colonna sonora all’intera musica. Quasi a rompere questo cerchio infausto ed incantatore, di tanto in tanto il brano scivola delicatamente in un refrain di soli tre accordi dove Nick Cave volge gli occhi al cielo e ripete la sua preghiera: «with my voice I am calling you». Chi stia chiamando rimane un quesito irrisolto: che sia suo figlio, Dio, sé stesso o il nulla lo sa solo Cave. Al pari di una figura mesmerica che scompare all’improvviso, il pezzo finisce di botto lasciando dietro di sé una sensazione di confusione e solitudine: l’impressione è quella di aver assistito, nel vero senso della parola, ad un rituale condensato in appena cinque minuti. La forte potenza comunicativa di Jesus Alone e il suo saper evocare delle immagini nella mente dell’ascoltatore costituiscono tutta la sua forza espressiva, ponendolo come il brano più bello ed interessante del disco, nonché come un piccolo capolavoro di artigianato musicale dove con poco si ottiene il massimo. E questa è una prerogativa solo dei grandi.
Difficile a questo punto chiedere di più a chi ama Nick Cave: lui e il suo fido capitano in seconda Warren Ellis, che guida i Bad Seeds e gli altri musicisti ospiti nel disco, continueranno ad avventurarsi nel paesaggio di “Skeleton Tree” in maniera decisa e compatta, senza mai perdere di vista l’immagine dell’album che loro stessi vogliono trasmettere. I pezzi vengono sfilacciati e disciolti, guadagnando così in profondità e divenendo dei veri e propri ambienti adatti alla voce di Nick Cave. Il blues, il noise più minimale, l’ambient, le ballate: tutto questo è come disciolto nella pece per creare uno stile che ormai è solo e soltanto dei Bad Seeds. A ricollegarsi alle atmosfere di Jesus Alone ci pensano un manipolo di canzoni, Magneto, Anthrocene e Distant Sky, quasi dei figli rinnegati dal padre e rilucenti di una loro peculiare bellezza. La prima ne riprende la desolazione grazie ai leggeri echi della chitarra e al rumore bianco di fondo; la seconda prosegue questo discorso ma estremizzandolo in maniera più free form e con una struttura più aperta; mentre la terza si differenzia dalle altre per il ricongiungimento ad una pace (momentanea?) declamata dal duetto di Cave con la voce della soprano danese Else Torp, tratteggiando, grazie soprattutto agli archi, un brano candido, cristallino e delicato. Non mancano neanche le canzoni vere e proprie dove la melodia è molto più protagonista e fa limitatamente da contraltare alle atmosfere più pesanti e cupe degli altri brani: sono l’altra faccia del deserto di Skeleton Tree, piccole oasi dove dissetarsi, parentesi in cui il musicista australiano si confessa, respira ma in maniera non meno interlocutoria. È il caso di Rings Of Saturn, che col suo incedere sognante ricorda un po’ We No Who U R, la traccia d’apertura di “Push The Sky Away”, aggiungendoci però un tocco più spaziale grazie ai synth; oppure delle due I Need You e Girl In Amber, piccoli ritratti chiaroscurali dove la disperazione sembra dover erompere in un pianto liberatorio da un momento all’altro. In tutto questo la voce di Nick Cave non perde mai la sua carica emotiva ed espressiva, tanto che, se pur privo del libretto dei testi, “Skeleton Tree” riesce comunque a farci immedesimare in ciò che il suo autore vuole esprimere: è come se forma e contenuto, nelle vibrazioni della voce, siano una cosa sola. ![]()
A traghettarci verso la fine è la title-track, una ballata spoglia di qualsiasi influenza noise, psichedelica o rumorista, e che grazie alle note del pianoforte e ad una batteria spazzolata, recupera i frammenti dell’anima di Nick Cave naufragata in solitudine. Un brano che trova la sua forza nella sua semplicità e che fa riaffiorare, come in un ultimo commiato, l’anima intrinsecamente fragile dell’album.
Da questo momento in poi, dove prosegua il viaggio di Nick Cave e dei Bad Seeds non lo sappiamo, né sappiamo se quel dolore che sin dal pezzo iniziale ha fatto la sua comparsa è stato espiato. Forse per conoscerlo bisognerà attendere “One More Time With Feeling”, la pellicola diretta da Andrew Domink presentata al Festival del cinema di Venezia e in uscita in Italia a fine settembre, dove le performance live di questi pezzi si alternano ad interviste, riflessioni, considerazioni ed esternazioni di Cave e del suo gruppo. O forse semplicemente basterà immergersi ancora una volta nell’oscurità di “Skeleton Tree” per smarrirsi in quella che è un’opera di altissimo profilo, nonché uno dei dischi più intensi che l’artista australiano abbia inciso negli ultimi anni: per rinnovare il suo mistero, perdendosi nel suo deserto e aspettare forse un altro sole che sorge.
Let us go now, my darling companion. Set out for the distant skies.
See the sun. See it rising. See it rising. Rising in your eyes. Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree (Bad Seed Ltd.)
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Sono stati annunciati i finalisti delle Targhe Tenco 2016 che verranno consegnate nell’ambito del quarantesimo Premio Tenco, dal 20 al 22 ottobre.
Il premio, fra i più ambiti e prestigiosi in Italia, nasce nel 1974 dalla Rassegna della canzone d’autore di Sanremo, organizzata dal Club Tenco. Il Club, fondato nel 1972 in dedica a Luigi Tenco e in sua ispirazione, come è scritto nello statuto, “si propone di valorizzare la canzone d’autore, ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e poetico realismo”. In primo piano quindi la valorizzazione di quella musica di grande valore artistico, operando senza scopo di lucro e, c’è da sottolinearlo, in assoluta autonomia dall’industria musicale. Il riconoscimento annuale va a uno o più artisti di livello mondiale che si sono distinti per la loro carriera e che poi partecipano alla Rassegna.
Altra cosa sono le targhe. Nascono nel 1984 e non vengono consegnate dal Club Tenco ma da una giuria di oltre 230 giornalisti. Inizialmente, una commissione di venti giurati ha scelto, fra i dischi usciti nell’anno, circa cinquanta titoli che poi sono stati scremati in un ulteriore fase. Sono arrivati quindi come finalisti cinque artisti per ognuna delle cinque categorie, delle quali quattro interamente dedicate ai cantautori: album dell’anno, album in dialetto, opera prima, interprete di canzoni non proprie, miglior canzone. La scelta dei vincitori avverrà nei prossimi giorni e il riconoscimento verrà consegnato ad ottobre in un’edizione del Premio Tenco che quest’anno dedicherà uno spazio importante al tema delle migrazioni e dell’integrazione dei popoli ospitando Bombino, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, il duo Enzo Avitabile & Amal Murkus, e Giacomo Sferlazzo.
Per la Targa “Album dell’anno” troviamo gli Aferhours con Folfiri e Folfox, Gerardo Balestrieri con Canzoni nascoste, Vinicio Capossela con Canzoni della Cupa, Niccolò Fabi con Una somma di piccole cose, Yo Yo Mundi con Evidenti tracce di Felicità.
Per l’”Album in dialetto” Almagretta con Ennenne, Claudia Crabuzza con Com un soldat, Stefano Saletti & Banda Ikona con Soundcity. Suoni della città di Frontiera, James Senese & Napoli Centrale con O saghe, Daniele Sepe con Capitan Capitone e i fratelli della costa. Nella sezione Opera prima troviamo Patrizia Cirulli con Mille baci, Chiara dello Iacovo con Appena sveglia, Giorgieness con La giusta distanza, Motta con La fine dei vent’anni e Andrea Tarquini con Disco rotto. Fra gli interpreti di canzoni non proprie sono in finale Peppe Barra con E cammina cammina, Giorgio Canali & Rossofuoco con Perle ai porci, Francesco De Gregori con Amore e furto. De Gregori canta Dylan, Bobo Rondelli conBobo Rondelli canta Piero Ciampi, Peppe Voltarelli con Voltarelli canta Profazio. Nella Targa per la miglior canzone: La bomba intelligente di Francesco di Giacomo-Paolo Sentinelli (Francesco di Giacomo / Elio e le Storie Tese), La fortuna che abbiamo di Samuele Bersani, L’alba dei tram. Canzone per Pasolini di Giuliano Sangiorgi e Remo Anzovino interpretata da Mauro Ermanno Giovanardi, Non voglio ritrovare il tuo nome di Manuel Agnelli interpretata dagli Afterhours, Pittore elementare di Marco Iacampo. Le targhe 2015 sono state assegnate: per il miglior disco a Mauro Ermanno Giovanardi, per il miglior album in dialetto a Cesare Basile, per la migliore opera prima a La Scapigliatura, per gli interpreti a Têtes de Bois e per la miglior canzone hanno vinto, ex aequo, Il senso delle cose di Cristina Donà e Saverio Lanza, cantata da Cristina Donà, e Le storie che non conosci di Samuele Bersani e Pacifico (Gino De Crescenzo) che l’hanno cantata con la partecipazione di Francesco Guccini. Per maggiori informazioni: http://premiotenco.it/
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Due concerti a distanza di quattro giorni. Il primo per l’apertura del Festival Suoni e Colori in Toscana, nel suggestivo cortile della Villa il Palagio di Rignano sull’Arno, davanti a file ordinate di posti a sedere, riempiti tanto da doverne aggiungere altri prima dell’inizio. Il secondo davanti ad un pubblico numeroso, sul palco dell’Off Bar di Firenze, serata il cui ricavato è stato devoluto ai paesi colpiti dal terremoto.
Uno più disteso e descrittivo, l’altro più energico e dal ritmo più serrato. Da una lacrima meccanica (Lacrima meccanica) alla dolcezza di una canzone d’amore così sincera e semplice da risultare quasi ridicola (Sott’Arno stasera), come dicono loro stessi, la scaletta si snoda fra un disco e l’altro scorrendo piacevolmente fra presente e passato. Ci sono storie che si snodano fra un personaggio e l’altro, di quelli che non mancano mai in ogni città, che tutti conoscono e che ritrovi nei racconti della gente, vivendo fra una vena di malinconica solitudine e gloriose imprese di gioventù. Girando per le strade di una Pisa fatta di vicoli, storie e abitudini comuni e quelle di Marina che risorge d’inverno, quando i turisti sono lontani dal mare e i fiorentini non ci affogano dentro. Il mare visto da dentro e lontano dai monti, le ragazze fredde e la proverbiale rivalità verso i vicini livornesi. Si fondono a questo l’intima dolcezza di un brano dedicato alla figlia, la nostalgia amara per un padre che non c’è più e del quale non rimangono che i baffi evanescenti in un ricordo che sfugge nei sogni. La voce di Tommaso Novi, seduto (a volte proprio arrampicato) sullo sgabello delle tastiere, quella di Francesco Bottai alla chitarra, si appoggiano sul contrabbasso di Mirko Capecchi e sulla batteria di Matteo Consani, fra la bravura tecnica musicale e la teatralità narrativa, fra l’ironia e il retrogusto un po’ aspro di quel sorriso a volte a denti stretti, fra swing, funk, jazz e blues, fra Buscaglione, Conte e Dalla, fra cultura raffinata e irriverente e semplice popolarità. Questo è un concerto dei Gatti Mézzi: l’immersione nel loro mondo che ci accorgiamo inevitabilmente essere il mondo di tutti. Sono concerti da ascoltare con le orecchie aperte e il cervello ben acceso, sintonizzato nello scandagliare la musica, il ritmo vivace, l’ironia irriverente e il colore dialettale, alla scoperta di qualcosa che sicuramente fa parte del profondo della loro città, del loro vissuto ma che infondo ci accorgiamo fare parte anche del nostro. Sono adesso in tour con il loro ultimo disco Perché hanno sempre quella faccia. Li troviamo con i brani di quest’ultimo a scavare un po’ più a fondo nell’intimità della loro storia, in italiano, così semplicemente chiari, diretti e sinceri, con riflessioni di una vita che cambia inevitabilmente e lo scoprirsi sempre di più nel volerla raccontare e analizzare, disco dopo disco. Dal 2005, centinaia di concerti, sei album, un Premio Ciampi, alcuni festival vinti o passati da finalisti, fuori e dentro la Toscana, con collaborazioni che spaziano da Bollani a Brunori Sas a Petra Magoni, la colonna sonora del film di Roan Johnson, Fino a qui tutto bene, candidata ai Nastri d’argento nel 2015. Cresciuti si, ma in fondo mai cambiati.
Li ho incontrati alla fine del concerto di Firenze, terminati gli autografi sui dischi, le foto e le chiacchiere con il pubblico. Nel complesso della loro musica ci sono tanti elementi che si mescolano e si uniscono in un piacevole e raffinato equilibrio dove anche il fischio ha la sua grande importanza, tanto da diventare a volte quasi una seconda voce (e che voce! Se si pensa per esempio che live sostituisce quella che nel disco appartiene a Petra Magoni in Il mare è una scusa). Tommaso Novi mi spiega che ne ha addirittura attivato un corso che svolge alla scuola Bonamici di Pisa, con una didattica su tre livelli di apprendimento, lezioni anche online su Skype frequentate da persone provenienti da tutta Italia.
“La cosa funziona. C’è gente che non sa fischiare e viene ad imparare e gente che vuole fare un percorso di perfezionamento. È buffo e all’inizio pensavo fosse una grande cazzata e invece…sembra una grande cazzata ma è simpatica e intelligente.” I vostri due ultimi concerti si sono svolti in due contesti molto diversi con un pubblico altrettanto diverso, cosa che preclude alcune cose e ne favorisce altre. Che differenza di approccio avete avuto? Tommaso: Sono stati due concerti tipo, due occasioni nelle quali siamo stati molto bene: una di festa, di gran casino e una invece con un certo tipo di attenzione e partecipazione diversa. In comune però c’era una grande attenzione e questo ci dà sempre modo di esprimerci come più ci piace, a prescindere dal contesto. Se c’è attenzione noi si gode e si cerca di dare il meglio. Nell’ultimo disco avete abbandonato il vernacolo pisano. A cosa è dovuta principalmente questa scelta? Francesco: Dico la verità: è stato un atto di sincerità. Abbiamo scritto in italiano. È stata una scelta relativa a quello che avevamo da dire e anche al fatto che gli ascolti che avevamo fatto nell’ultimo periodo erano diversi e quindi, chiaramente, siamo anche rimasti influenzati da altre cose. C’era proprio il bisogno di tirare fuori una cosa di quel tipo e tante persone lo hanno capito. Hanno capito proprio l’urgenza di esprimersi in questo modo. Magari altri meno però è così: alla fine le carriere musicali si fondano sul cambiamento. O meglio, le carriere che hanno un senso. L’idea è stata quella: un atto di grande sincerità. Riguardo invece all’intimità dei temi che trattate? Francesco: È successo di tutto nella nostra vita e l’abbiamo portata nel disco. È questa la cosa bella: assolutamente non è stato uno sfogo ma l’esigenza di portare noi stessi. Questa è la chiave. Io, a posteriori, comincio a capirlo adesso cosa abbiamo fatto. Perché inizialmente butti fuori tutto ma hai un’idea meno precisa. Invece poi vivendolo, anche sul palco, e ascoltando quello che ci ha detto la gente hai una visione diversa. È stato comunque un disco caratterizzato da un cambiamento. Com’è stato, rispetto a questo, il riscontro del pubblico? Francesco: È stato molto buono. Ci sono state recensioni anche molto interessanti. È stata capita l’evoluzione, non il cambiamento e basta ma un’evoluzione verso qualcosa di diverso. Chiaramente poi il live prende un po’ di tutto. Però questo disco doveva essere così. Le tematiche e gli slanci devono essere per forza diversi nella misura in cui se hai un atteggiamento non solo descrittivo della realtà ma anche personale nel portare una poetica che ti appartiene veramente è chiaro che la tua poetica cambia con i cambiamenti della tua vita e così è stato. Siete comunque riusciti ad amalgamare il nuovo con il vecchio. (sorride) alla fine…siamo sempre noi.
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- Immagine 1 da https://www.youtube.com/watch?v=2rJwC2WRMrI - Immagine 2 da https://www.facebook.com/igattimezzi/?fref=ts - Galleria da Foto dell’autore. Nella consueta cornice del Parco de " La Cittadella" in Piazza di Terzanaia a Pisa questa sera prenderà avvio la 31a Edizione del Metarock, uno dei più longevi appuntamenti di musica dal vivo in Italia. Un Festival che ha visto succedersi col passare del tempo grandi nomi della scena internazionale ed italiana come Bob Dylan, King Crimson, Deep Purple, Nick Cave, Verdena, Marlene Kuntz, Caparezza, Subsonica, 99 Posse solo per citarne alcuni. Quest'anno, nell'arco di cinque serate che si divideranno tra il weekend in arrivo ed il prossimo, sarà dato particolare spazio ad artisti italiani di generi diversi, dal registro sociale e cantautoriale al reggae al rap ed al rock con l'intenzione di ampliare l'offerta al pubblico nell'ottica di un Quality PoPular Festival (è questa per l'appunto la nuova "etichetta" del Festival).
Sarà Daniele Silvestri ad alzare il sipario oggi Sabato 3 Settembre sul palco della "Cittadella". Dopo i fasti dell'album e tour dello scorso anno in "Trinità" con i compari Max Gazzè e Niccolò Fabi, il cantautore romano ha pubblicato a Febbraio il suo ottavo album in studio intitolato "Acrobati", e da Luglio scorso è partito in giro per la penisola con un fitto calendario di concerti in continuo aggiornamento. Dal disco d'esordio intitolato semplicemente "Daniele Silvestri" risalente al 1994 sono trascorsi ben 22 anni, nel corso dei quali Silvestri si è imposto all'interno del panorama nostrano come uno degli interpreti più creativi della canzone d'autore, attento tanto dal punto di vista della scrittura che dei suoni a ricercare soluzioni variegate e differenti. Niccolò Fabi lo definisce a ragione "un acuto osservatore del mondo nella sua completezza", sottolineando il significato universale che inseguono le sue canzoni, che spesso indagano da una prospettiva psicologica e riflessiva aspetti della realtà socio-politica da una parte e componenti dell'animo umano dall'altra.
Ad aprire il Live di Daniele Silvestri ci saranno due pisanissime bands, i Fangoraro e I Betta Blues Society. Fangoraro dà il nome ad una storica rock band pisana che dal 2006 calca le scene live toscane, mentre un mix esclusivamente acustico di blues, folk e gospel caratterizza l'attività dei Betta Blues Society (nati nel 2009).
Reggae. Questa la parola d'ordine per la serata di Domenica 4 Settembre che presenterà l'unico interprete straniero dell'Edizione, ma probabilmente il più atteso. Stiamo parlando del più giovane figliolo di Sua Maestà Bob Marley, nato dalla relazione con la Miss Mondo Cindy Breakspeare e appena vecchio di due anni alla morte dell'eccelso padre. Lui si chiama Damian Marley, classe 1978, e un soprannome "Junior Gong" in ossequio al nickname paterno "Tuff Gong". L'ultimo della stirpe, ma precoce nella musica dal'età di 13 anni e protagonista di una importante ascesa nel genere grazie innanzitutto al suo album di maggior successo, "Welcome to Jamrock" del 2005. Vincitore di Grammies sin dai suoi primi lavori, Junior Gong ha sempre proposto un reggae fuso con la dancehall, arricchitosi di innesti hip hop e elettronici nell'ultimo quinquennio per mezzo delle collaborazioni con il rapper Nas e il dj Shrillex. Da segnalare inoltre la sua partecipazione alla SuperHeavy, supergruppo che unisce personaggi straordinari da Mick Jagger a Dave Stewart degli Eurythmics alla cantante Joss Stone e al musicista indiano A.R.Rahman.
Headliner del concerto del musicista giamaicano Mama Marjas, pseudonimo di Maria Germinario, affermata rappresentante del reggae tricolore. Dalla provincia di Bari e da Taranto, la sua carriera è partita molto presto e ha subito un'impennata vorticosa dal 2010 ad oggi, quando ha cominciato a realizzare i suoi album (4, l'ultimo "Mama" è del 2015) e partecipato a brani di 99 Posse, Paolo Fresu, Tre Allegri Ragazzi Morti, Clementino. Il suo genere travolgente e sperimentale esibisce un reggae dalle identificative trame afro e R'N'B.
Alzi la mano chi non abbia digitato, anche solo per curiosità, anche solo una volta, su Google, e poi Youtube, e poi ascoltato qualcosa di Calcutta. Se pensate all'India e a Madre Teresa non vi trovate nella direzione giusta. Calcutta da un pò di tempo a questa parte su Wikipedia e tanto altro ha ottenuto una nuova voce dedicata ad Edoardo d'Erme, cantante latinese nato nel 1989, inizialmente in tandem con Marco Krypta, sopravvissuto ad una gavetta dura e veramente poco soddisfacente tra le bands, ma estremamente intenzionato a continuare la storia e a esprimere la sua idea di cantautorato. Robetta non da poco, così hanno detto di lui e del suo album "Mainstream" colleghi illustri quali Jovanotti, e un seguito in sensibile ascesa per un giovane capace di farsi strada partendo dal racconto della vita delle province in cui è venuto su ascoltandosi Lucio Dalla e Luca Carboni. Calcutta, sulla bocca di tutti nel corso dell'anno, coadiuvato nella messa a punto del disco da Niccolò Contessa de "I Cani", altro filibustiero della nuova generazione italiana, annunciato sul palco del Metarock per la serata di Giovedì 8 Settembre poco meno di 10 giorni fa e adesso candidato al Tenco nella categoria Miglior Brano dell'anno con tre singoli ("Oroscopo"; "Frosinone"; "Cosa mi manchi a fare").
Al Tenco concorrerà anche Salmo. E qui il discorso cambia nettamente. Sia per geografia che fisiognomica ma non per impatto e risultato. Calcutta ha spaccato su Youtube e tra i giovani alla stregua di Salmo, Maurizio Pisciottu di Olbia, classe 1984, che con l'album del 2012 "Death USB" si prese di prepotenza la vetta della classifica di Itunes durante la settimana del Festival di Sanremo. Dopo essersi spostato a Milano laddove ha costituito la sua Crew, il collettivo Machete e aver militato in gruppi hardcore, il rapper sardo dalla maschera distintiva a partire dal 2011 ha messo in pratica l'importazione di elettronica e hardcore all'interno di un rap italiano che prima ne era all'oscuro. Fresco di uscita il suo terzo disco, "Midnite", nel 2013 conquista la numero uno della classifica italiana e in poco tempo il disco d'Oro, certificando la crescita esponenziale di una realtà non soltanto web. Il 5 Febbraio scorso Salmo ha svelato l'ultimo lavoro, "Hellvisback", che scalderà insieme alle hit del passato la serata di Venerdi 9 Settembre al Metarock.
Ed infine I Ministri. Chiuderanno loro Sabato 10 Settembre il Festival riportando il Rock al centro dell'attenzione. Gruppo rock formatosi a Milano in data 2003, il trio composto da Davide "Divi" Autelitano (voce e basso), Federico Dragogna (chitarra) e Michele Esposito (batteria) ha mantenuto intatta la sua formazione risultando oggi uno dei punti fermi della scena alternative nazionale. Dagli esordi con l'etichetta indipendente Otorecords ad oggi, la band ha compiuto un percorso molto significativo contraddistinto dal passaggio alle Major (prima Universal, poi Warner), la partecipazione a grandi Festival come lo Sziget e il Primo Maggio a Roma, featuring con altri pilastri della dimensione indie come gli Afterhours, Caparezza, gli Zen Circus. "Cultura generale" è il nome del loro più recente Lp, targato 2015.
Immagini tratte da Pagina Facebook Metarock Pisa https://www.facebook.com/metarockofficial.pisa/?fref=ts
Lo slogan è “Festareggio cambia musica” e certo non si può dire che proprio la musica non sia uno dei suoi punti forti. Siamo arrivati oggi alla fine della terza settimana e il programma continua fra spettacoli, eventi, dodici ristoranti e buona musica. Dai Planet Funk a Eric Burdon, dai Cani a Capossela, dai Kula Shaker agli Africa Unite, da Salmo a Daniele Silvestri, dai Soulwax agli Wolfmother. Tutto sembra orientato verso una partecipazione giovane e trasversale e basato sulla volontà di portare Campovolo al centro degli eventi musicali di spicco dell’estate emiliana e italiana. Abbiamo così approfittato per partecipare ad uno degli unici due concerti italiani del tour degli Wolfmother (il primo a Milano lo scorso maggio).
Non è facile mantenere alto il tiro dopo un esordio valso 1,5 milioni di copie vendute. Se poi ci mettiamo che sono passati dieci anni e vari cambi di line-up, ritiri dalle scene e ritorni con effetto sorpresa, il tutto unito da un leader dal caratterino non semplice, le cose si complicano. Nonostante questo, dall’uscita di Wolfmother nel 2005 (2006 fuori dalla patria australiana) ad oggi, la band ha girato il mondo più volte in tour con i Pearl Jam, gli AC/DC, Lenny Kravitz, aperto un concerto degli Aerosmith. Il loro rock dal forte sapore anni ’70 è stato sia osannato sia criticato proprio per i paragoni con grossi nomi come quello dei Led Zeppelin, dei Soundgarden, dei Black Sabbath, sempre in bilico fra chi pensa che il passato sia ormai da superare e chi invece apprezza uno stile che si distende egregiamente sulle linee riconoscibili dell’hard rock più classico. Il successo comunque è indiscusso se si guardano le cifre di vendita e le partecipazioni a concerti importanti ma anche la presenza in spot pubblicitari, videogiochi. L’ultimo album uscito, Victorious, segna una risalita dopo il controverso New Crown, terzo del gruppo, uscito nel 2014 in modo totalmente indipendente dopo che il gruppo si era sciolto e aveva lasciato spazio alla parentesi solista di Andrew Stockdale, cominciata e conclusa nello spazio di un album. Dalla scelta indipendente al ritorno in studio fra le mani di Brendan O’Brien, Victorious si riconferma scritto quasi esclusivamente dalle mani di Stockdale, chitarrista e cantante, unico componente del gruppo rimasto stabile.
Il terzetto Dimension, New Moon Rising e Woman garantisce un inizio d’impatto sui brani più conosciuti in grado immediatamente di animare l’energia del pubblico. Dopo la dedica di White Unicorn alle vittime del terremoto ripartono a ritmo serrato da Apple Tree e Gipsy Caravan, brano del nuovo album che dà il nome al tour. Proseguono con equilibrio fra l’esordio e l’attuale anche se la base rimane sui brani di dieci anni fa dato che il primo album omonimo della band, Wolfmother, conta nove brani sui diciassette della scaletta, mentre il resto dello spazio è quasi equamente diviso fra l’ultimo uscito e Cosmic Egg (2009). Solo How Many Times testimonia il passaggio di New Crown. E sempre nel 2005 termina il concerto con Colossal e la famosa Joker and the Thief. Vecchio e nuovo si amalgamano fra i brani come si amalgamano nello stile. La batteria di Alex Carapetis, il basso e le tastiere del polistrumentista Ian Peres si uniscono alla voce e alla chitarra di Andrew Stockdale creando un suond potente ed energico che non delude le aspettative.
“Scriviamo in ogni momento, fra un palco e l’altro, anche mentre siamo in bagno. Appena finirà il tour lavoreremo al prossimo album” ci dice Stockdale a fine concerto, precisando in un secondo momento che è principalmente lui che scrive (come è sempre stato dagli esordi ad ora). Attendiamo quindi i frutti della ormai consolidata vena creativa del leader mentre si susseguono le date live in giro per il mondo, fra le quali c’è l’apertura di alcuni dei prossimi concerti dei Guns N’ Roses.
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Nastasia Grillotti, in arte musicale Nasty Diva, per me e per l’arte solo Nasty.
Ho scelto per inaugurare il mio primo articolo all’interno del Termopolio proprio lei, a mio parere un’artista, una creativa, poliedrica, istrionica che in quel che fa sa ben armonizzare ironia, poesia e tanti perché. Decido di intervistarla sul suo nuovo progetto che abbraccia la musica, un concept album che come filo conduttore ha il tempo e la sua dilatazione nello spazio più profondo intitolato Inconscio. Nasce tutto in maniera spontanea: è una carissima amica, vado a casa sua, pranziamo e ci mettiamo a chiacchierare.. 1 Perché hai scelto il nome d’arte Nasty Diva? Nasty in inglese ha tanti significati, vuol dire brutto, sporco, schifoso; però ha anche una valenza di significato diversa come per esempio porco ma in maniera sexy. E l’ho associato alla parola diva come contrasto di colei che è sempre bella, appariscente; una diva schifosa quindi. 2 Quali sono state, se ci sono state, delle figure musicali o artisti a cui ti sei ispirata per il tuo progetto. Il progetto più che ispirato, ha riferimenti, ad artisti come Brian Eno, Nick Cave, Leonard Cohen e Radiohead. 3 Ogni titolo del brano inserito all’interno dell’album riprende citazioni cinematografiche.. In realtà ogni titolo dei brani dell’album è il titolo di un film; tranne uno, Organo Marino che deriva dall’organo che viene suonato dal mare in Croazia. 4 Per quale motivo hai pensato di ispirarti alla cinematografia? Ma perché in realtà il cinema e i film citati fanno parte del mio inconscio, tante volte mi ritrovo a nominarli o comunque a rivederli e tante volte ho ritrovato nella mia vita delle situazioni analoghe a questi film. 5 Perché hai utilizzato il colore blu e perché la parola inconscio? C’è un legame in questo con la tua infanzia? Allora, il colore blu è spiegato dal fatto che per me l’inconscio è blu, cioè io identifico l’inconscio col colore blu. Inconscio perché tutto ciò che in realtà scrivo viene fuori dal mio inconscio e lo scrivo in momenti, anche temporali, molto diversi tra loro; per me l’inconscio è quindi quella cosa che mi riesce fuori anche a distanza di tempo inconsapevolmente. Legame con la mia infanzia intesa come bambino, no. 6 Ti chiedevo questo a riferimento dei tuoi lavori esposti ad una collettiva d’Arte lo scorso anno.. Per esempio nel primo video de Il cielo sopra Berlino, compaio io da bambina, ma in realtà Il cielo sopra Berlino, parla di una cosa accaduta pochi anni fa, cioè di una situazione in cui mi sono ritrovata pochi anni fa. Ho utilizzato però la mia immagine di bambina per esorcizzare, quindi in realtà potrei dire che ho riusato la mia immagine di bambina sì, però più come sorta di salvezza. Non c’è però un legame stretto tra quello che c’è nell’album Inconscio e la mia infanzia. 7 Quali caratteristiche attribuisci all’inconscio? Prima di tutto gli attribuisco le immagini, associazione di immagini mentali, rielaborazioni, quindi secondo me l’inconscio a volte o meglio quasi sempre, mi fa captare delle situazioni, delle cose che io inconsciamente sapevo già ma che si verificano dopo, dopo la sua elaborazione. Per me quindi forse l’inconscio è il primo step con cui.. cioè la base da cui parto per approcciarmi a qualcosa o a qualcuno; la percepisco inconsciamente. 8 La canzone del disco che ti piace di più oppure alla quale sei più affezionata. Che mi piace di più direi Se mi lasci ti cancello. Quella alla quale sono più affezionata è Il cielo sopra Berlino, che è anche la prima canzone dell’album, è stato il primo singolo, e quello lì è stato proprio il passaggio da il passato al presente; Il cielo sopra Berlino mi ha aiutato a liberarmi di un peso che mi portavo dietro da un po’ di tempo e quindi a vivere poi il presente in maniera più leggera. 9 Passiamo a tutt’altro tipo di contesto: la tua canzone del cuore? Dance me to the end of Love di Leonard Cohen. 10 Secondo te c’è relazione tra Arte, Musica e Poesia? Se sì perché? Sì, ormai non si può più dividere niente, l’Arte è tutto, non puoi dividere la Poesia dall’Arte visiva, dalla Musica, tutto è un insieme, e Arte ormai è tutto e niente, cioè qualsiasi cosa oggi può essere definita Arte. Però secondo me quando c’è la Poesia allora sale ad un livello superiore. 11 In questo momento che cosa ascolti o ti ritrovi ad ascoltare? In realtà ascolto sempre quasi cose vecchie, però sempre attuali; mi piace la musica rock anni Settanta. Se però ti dovessi dire qualcosa di nostro contemporaneo, ascolto Jovanotti. 12 E c’è un perché? Perché credo che sia l’unico che ti dia un po’ di gioia rispetto al resto. 13 Cosa pensi della musica adesso, sia da ascoltatrice che da musicista. In realtà non sono musicista, perché nelle canzoni non ho suonato niente, a parte aver fatto qualche piccolo giro o di pianola fatto col cellulare, o una piccola traccia di chitarra ma con degli accordi semplicissimi, quindi non mi ritengo musicista. 14 Musicista nel senso che in questo caso hai a che fare con la musica. Intendevo da ascoltatrice di un brano a creatrice di un brano. Quello che poi più mi piace è la combinazione tra parola e suono, quindi se una parola che è messa bene con un suono che ci sta bene allora quello mi basta; anche se poi in finale mi deve sempre dire e trasmettere qualcosa, mi deve quindi sempre arrivare un’emozione. 15 Cosa pensi dei mass media e del modo in cui fanno fruire la musica al pubblico, il modo in cui “lanciano” la musica, ovvero, l’approccio del pubblico alla musica è cambiato? Sì, in realtà è cambiato per il fatto che non si ascoltano più gli album interi secondo me e si ascoltano solo le “tracce” se vogliamo chiamarle così, o i singoli, e quindi anche fare un album come Inconscio che è completamente da ascolto e va ascoltato dalla prima canzone all’ultima perché comunque è un concept album, non so quanto possa essere fruibile; anche se l’album è completamente gratuito, e anche se comunque YouTube ti da la possibilità di ascoltare ventiquattr’ore su ventiquattro musica gratis. A quanto pare però pur che la musica sia gratis non mi sembra che poi se ne faccia, non voglio dire un buon uso perché poi la musica va ascoltata e ognuno ha i suoi gusti, magari non si ascolta con una buona modalità, se ne fruisce troppo velocemente. 16 Mi hai parlato di concetto, quindi, il filo conduttore dell’album? Il filo conduttore è il tempo. È il tempo che passa dal passato al presente e al futuro, e soprattutto è l’elaborazione, l’elaborazione di tanti pensieri, di tante situazioni che a volte magari non sono neanche reali ma solo immaginarie e altre invece sono davvero reali. 17 Nei brani che compongono Inconscio non canti, più che cantare reciti direi, è una lettura.. ti sei ispirata a qualcuno? Sì, è più una sorta di recitazione/poesia. In realtà l’ispirazione base parte da artisti come Leo Ferré oppure da interpretazioni di Yves Montand o altri attori, comunque più che altro teatrali come può essere anche Antonin Artaud; ma comunque sto facendo dei nomi un po’ grossi per paragonarmi (ride), l’ispirazione viene però presa sempre dai più grandi artisti quindi è per questo che la canzone è più parlata. Poi è, te l’ho detto, più un viaggio, un racconto, è una narrazione quindi è per questo, te la voglio raccontare non te la voglio cantare. 18 Ora domande veloci, un po’ a raffica: com’è nata la tua passione per la musica? (se riesci rispondi in breve) Ma, io non so neanche se poi è nata (ridiamo). Magari non l’ho ancora inconsciamente elaborata (ride). 19 Quindi perché lo fai? Non è neanche in realtà un’esigenza, a volte ti succedono una “serie di sfortunati eventi” che ti portano poi a delle coincidenze quindi ti ritrovi per caso a scrivere e a comporre musica e quindi magari possiamo dire che l’album è nato per una serie di sfortunati eventi (sorride). 20 Il tuo idolo musicale da ragazzina? In realtà ce n’avevo due, Jim Morrison e Kurt Cobain. 21 Chi ha per te cambiato la musica e perché? Non lo so chi ha cambiato la musica.. Ma in realtà la musica non è cambiata, ci sono solamente modi diversi di fare musica, c’è chi poi attraverso la musica vuole dire delle cose che siano sociali, d’amore o quel che sia, c’è chi fa musica in maniera completamente profonda quindi sperimentazioni, cose del genere. Ma, se ti dovessi dire chi invece per me rappresenta la musica, ti direi i Rolling Stones. 22 Perché? Credo che siano il gruppo, almeno attualmente, anche se il più giovane ha più di settant’anni, però più giovanile e più rock che ci sia. 23 Sei soddisfatta del tuo lavoro, del tuo disco? Sì, sì sì sono soddisfatta. Sono soddisfatta e soprattutto devo dire grazie a Luca Scopetti che mi ha dato l’opportunità di farlo, mettendomi a disposizione il suo studio, il suo tempo, la sua creatività; la maggior parte delle composizioni musicali sono sue sulla base di alcuni spunti che io gli davo e quindi, sì sì sono soddisfattissima. 24 E ora fatti un po’ di pubblicità, fai pubblicità al disco.. dove possiamo ascoltarlo ecc?.. You Tube, Facebook, Twitter e pagina di Instagram Nasty Diva. 25 L’album è già fruibile al pubblico oppure possiamo ascoltare i brani man mano che li pubblicherai? Per ora li potete ascoltare man mano che li pubblicherò, però a breve metterò tutto l’album sia su You Tube che su tutti i canali web disponibili; inserirò inoltre anche il download gratuito perché l’album sarà gratuito al pubblico. 26 C’è una precisa motivazione per cui lo rendi gratuito? Ma perché in realtà poi gli album non li vende più nessuno, quindi non ha senso stampare degli album, ormai si ascoltano via web e via internet. Mi piacerebbe più che altro in seguito fare dei live e mi piacerebbe che la gente venisse a vederli perché non saranno concerti. 27 Vuoi parlarcene, due parole sulla parte live che hai in mente? Sì. Quello che voglio creare è un viaggio collettivo, inconscio, dove il pubblico non ascolterà un concerto ma si ritroverà in un ambiente completamente blu, vi si dovrà sdraiare, sopra delle stuoie; ci sarà anche una ballerina che interpreterà le canzoni attraverso il movimento mentre io racconterò la mia storia attraverso i pezzi dell’album. Quindi sarà più un viaggio, un viaggio collettivo, in questo viaggio collettivo però ognuno farà un viaggio personale, dentro proprio inconscio. 28 Lasciami con una frase, una citazione, un verso di una canzone, di una poesia.. È difficile.. ce ne sono tante.. 29 La prima che ti viene in mente. “La volontà è più forte della morte, l’amore è volontà e nessuno può morire per sempre”. |
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Aprile 2023
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