Benvenuti nella rubrica de Il Termopolio dedicata alla musica. E non di un genere in particolare o di un certo tipo di artisti: questa sezione sarà aperta a 360° su quella che è, ed è stata, la scena artistica musicale nazionale e internazionale. Rock, jazz, blues, metal, hip hop, colonne sonore, sonorità più sperimentali e tanto altro troveranno il loro spazio ogni venerdì attraverso le recensioni delle nuove uscite, news, interviste e approfondimenti su ciò che più ci colpisce. Un occhio di riguardo verrà riservato a quei musicisti ed artisti non propriamente mainstream e radiofonici, e questo per dare spazio e risalto a realtà musicali ancora sconosciute ai più ma ugualmente valide.
C’è tanta buona musica ancora da scoprire: seguiteci e vi auguriamo buona lettura. Carlo Cantisani
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28/10/2016 I GRANDI SUCCESSI DEGLI ANNI 90 - GLI ANNI D'ORO DEGLI 883, DA PAVIA ALLA VETTA DELLE CLASSIFICHE: ROTTA PER IL SUCCESSO.Read Now
“Le notti non finiscono all' alba nella via...” questo è l'incipit della celeberrima “Come mai”. Chissà quante notti, da adolescente, Max Pezzali ha sognato di diventare un cantante di successo, e quante, altrettante, ne ha passate in bianco dopo la “fuga” di Mauro Repetto. Da Pavia al Festival di Sanremo, ne sono successe di cose.
Il nostro viaggio oggi comincia a metà circa dei mitici anni '80, quando due alunni del Liceo Scientifico “Nicolò Copernico” di Pavia , poco avvezzi allo studio, incrociano per caso le loro strade: si tratta di Massimo “Max” Pezzali e di Mauro Repetto. L' incontro tra i due avviene grazie alla bocciatura di Max, che si ritrova ad avere come compagno di banco quello che per tutti diventerà “il biondino” degli 883. I due scoprono subito di avere in comune una grande passione per la musica e di lì a poco cominciano a comporre le prime canzoni, influenzati da sonorità punk-rock. Il talento c'è, infatti non tarda ad arrivare la prima apparizione in tv, nel 1989, oltretutto in un contesto prestigioso come quello di “1,2,3 Jovanotti”, programma di un giovanissimo Lorenzo Cherubini, che faceva esibire e ricercava i migliori talenti italiani della scena Hip Hop ed Underground, una sorta di talent ante litteram insomma. I due si fanno chiamare “I Pop”, giocando con le parole “Hip Hop” e presentano un repertorio di brani in inglese, di cui il migliore probabilmente è “Live in the music”, dove si sente cantare anche Repetto, evento più unico che raro. Sul momento questa esibizione non colpisce particolarmente né il pubblico, né gli addetti ai lavori, tanto è vero che per quasi due anni non si sente più parlare di questi ragazzi di Pavia. Nonostante la passione fosse rimasta forte ed inalterata, il flop di questo progetto in salsa anglofona, aveva stroncato completamente gli entusiasmi di Pezzali, che aveva deciso di smettere di andare a bussare alle varie case discografiche ed ai vari produttori, proponendo demo contenenti i pezzi di quelli che stavano diventando gli 883 (ispirandosi cilindrata della Sportster, moto della Harley Davidson e sogno proibito dei due). Fu così che, di nascosto, Mauro, nel 1991 riuscì per vie traverse a far arrivare a Claudio Cecchetto, noto scopritore di talenti, una cassettina con inciso “Non me la menare”, prima vera produzione marchiata 883, che discostava completamente dallo stile de “I pop”. Per Cecchetto fu amore al primo ascolto: la voce di Max era graffiante, piena di grinta, forse anche sgraziata al punto giusto. Il testo era immediato, concreto, scritto con un linguaggio giovanile, che aveva tutte le carte in regola per fare presa sui giovani di inizio anni '90. Un mix potenzialmente esplosivo, una macchina perfetta da soldi pronta ad essere lanciata nel mondo della discografia italiana: Mauro scriveva in gran parte i testi, Max cantava, non mancava nulla, o quasi. L'ultimo pezzo del puzzle arriva con “Hanno ucciso l'uomo ragno”, primo singolo estratto dall' omonimo album,il successo è incredibile quanto inaspettato: il disco raggiunge in breve 600.000 copie vendute e il primo posto nelle classifiche. .La musica è allegra e orecchiabile, i testi sono schietti e sinceri nella loro semplicità. La title-track colpisce nel segno e trascina: il mito dell'Uomo Ragno è amatissimo dai giovani e l'originalità degli 883 è quanto più necessario servisse a rinfrescare il panorama della musica pop italiana del momento. Il linguaggio e le tematiche affrontate dagli 883 sono quelle degli adolescenti: la discoteca, la ragazza snob che non ti considera, il motorino, lo sfigato di turno, gli amori scombinati, il bar, sempre tenendo alti i valori che più contano per i ragazzi , l'amicizia su tutti. Il tono è diretto, confidenziale, da cantastorie di provincia sincero e genuino: Max strizza l'occhiolino ai giovani mescolandosi tra loro, vestendo ora i panni dell'amico più grande, ora quelli del compagno di avventure. L'onda di popolarità è immensa e cavalcandola, anche il secondo album “Nord, Sud, Ovest, Est” scala le classifiche di vendita italiane, contenendo pietre miliari della discografia “Pezzaliana” come “Sei un mito”, “Nord, Sud, Ovest, Est” e “Come mai”. Il giornalista Edmondo Berselli, illustre firma, tra le altre di “La Stampa”, “Il Messaggero” ed “Il resto del Carlino”, si pronunciò così rispetto al fenomeno 883: « Possibile che nessuno si sia accorto che gli 883 rappresentano innanzitutto un'operazione sociologica, magari irritante ma irrilevante proprio no? Possibile che nessuno abbia sospettato che rappresentino quel pezzo d'Italia che viene su fino a noi dagli anni Cinquanta? » I due ragazzi di Pavia, erano diventati addirittura un fenomeno sociologico e di costume, ma proprio in questo momento, Mauro Repetto, cominciava a mostrare i primi segni d'insofferenza, irritato da un'opinione pubblica che lo vedeva quasi esclusivamente come una “macchietta”, come il biondino che faceva stupidi balletti, mentre l' altro, quello intonato, cantava. Ovviamente non era assolutamente così, Mauro aveva un ruolo fondamentale nelle dinamiche del gruppo, era il principale paroliere, tanto è vero che dopo il suo addio, che si concretizzerà nel 1994, anche le canzoni di Max Pezzali cambieranno decisamente registro, acquistano un tono decisamente più malinconico e nostalgico degli “anni d'oro”. La separazione si concretizzerà nel periodo di Pasqua del 1994, dopo un tour nelle discoteche per promuovere “Remix '94”, raccolta di successi dei primi due album, rivisitati in chiave dance dai migliori Dj del momento, come ad esempio Prezioso, Fargetta, Molella, Bliss Team (sotto la sapiente regia di un giovanissimo Gabry Ponte), Stefano Secchi e molti altri. Max Pezzali a proposito di quel periodo, spesso si è espresso così: “Era il sabato di Pasqua, mi raccomandai con Mauro che fosse puntuale alle 14;30 il lunedì successivo, perchè avevamo moltissime cose da fare. Lo rividi la volta successiva nel 1998”. Con un nuovo album da ultimare e presentare, date anche le pressanti scadenze imposte dalla casa discografica, la situazione si era fatta di colpo immensamente difficile, tuttavia Max, deciderà di partecipare al Festival di Sanremo 1995 (vi parteciperà una seconda volta, da solista, nel 2011 con “Il mio secondo tempo”), sia come cantante in gara con “Senza averti qui”, posizionandosi ottavo, sia come autore, con la bellissima “Finalmente Tu” scritta per Fiorello, arrivato quinto. Nell'estate del 1995, Pezzali presentò poi la sua nuova band (gli 883 fino a quel momento non lo erano nel senso stretto del termine, visto che si servivano solo di un sintetizzatore per le basi musicali): nove elementi che già suonavano insieme nei locali milanesi col nome di Elefunky, tra cui spiccavano le coriste Paola e Chiara Iezzi (successivamente lanciate come soliste con il nome di Paola&Chiara). Contestualmente iniziarono a tenere concerti dal vivo, visto che fino ad allora le esibizioni erano avvenute solo nelle discoteche con basi registrate. Il 1995 sarà l' anno delle svolte perchè oltre alla kermesse Sanremese, il gruppo, che stava per intraprendere l' “OttoOttoTre Tour” per tutta la penisola, vincerà anche il Festivalbar con “Tieni il tempo” e raggiungerà ancora una volta la vetta delle classifiche con l'album “La donna, il sogno ed il grande incubo”, contenente, tra le altre, “Gli anni” vero e proprio inno della generazione di nati a cavallo tra gli anni '80 e '90. Anno di pausa e di assestamento nel 1996, mentre il 1997 segnerà l'uscita di un altro lavoro decisamente di successo e di impatto, sarà la volta de “La dura legge del gol”. Un Pezzali più maturo e riflessivo soprende tutti con pezzi decisamente sentimentali e struggenti come “Nessun Rimpianto” e “La dura legge del gol”, ma fa anche ballare spensieratamente alla sua maniera con “La regola dell' amico”, vero e proprio tormentone di quell' estate. Successivamente vedranno la luce anche la raccolta “Gli anni” nel 1998, anticipata dal singolo “Io ci sarò”, “Grazie Mille” nel 1999, “1 in +” nel 2001 e “Love/Life” nel 2002. Anche questi album, pur non ripetendo il successo dei primi, conterranno brani di successo come “La lunga estate caldissima”, “Bella vera”, “La regina del celebrità”, “Viaggio al centro del mondo” che diventerà anche la colonna sonora dello spot del settimanale “Topolino”, “Quello che capita” e molti altri. Nel 2002 Max Pezzali decise di pensionare lo storico marchio e di apparire da quel momento in poi solo con il nome di battesimo, non fermando la sua produzione discografica che va avanti a tutt'oggi. Gli 883 contano quindi sette album in studio e tre raccolte, oltre a numerosi prestigiosi riconoscimenti, tra i quali: dodici “Telegatto”, due Festivalbar, due Italian Music Awards e tre World Music Awards. Immagini tratte da www.wikitesti.it
A soli due anni da “Popular Problems”, ritorna Leonard Cohen con un album che rimette in gioco il suo stile musicale, “You Want It Darker”. Fra ombre, confessioni, preghiere e sottili osservazioni sull’umano, l’intimità del cantautore di Montreal viene messa a nudo ancora una volta, facendo filtrare inaspettatamente anche una tenue luce dalle sue crepe profonde.
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“If you are the dealer, I’m out of the game/If you are the healer, I’m broken and lame/If thine is the glory, then mine must be the shame/You want it darker, we kill the flame”.
Molta della poetica del nuovo album di Leonard Cohen, il quattordicesimo di una lunga carriera iniziata ormai più di una cinquantina di anni fa, potrebbe essere riassunta nei versi che fanno da incipit alla title track: uno sguardo ormai disincantato sull’uomo e sul suo doloroso destino, lo sguardo di chi ha ricercato lungo tutta la sua vita un dialogo con il divino senza mai giungere a risposte definitive e assolute. Come spesso accade a coloro che provano una profonda inquietudine nel problematico rapporto fra l’uomo e il mondo, il racconto biblico diventa anche parabola personale ed interiore, dove ad un Dio vendicativo, giudicante e lontano dalle cose umane ne viene sostituito un altro, fatto di sangue, dolore, miseria e compassionevole fragilità. I due piani, quello biblico/religioso e quello puramente soggettivo, iniziano quindi a sovrapporsi, divenendo, soprattutto per un autore come Cohen, l’uno specchio dell’altro. Si potrebbero estrapolare numerosi altri versi che costellano le pagine del libretto dell’album a supporto di questa interpretazione. In ogni caso, si tratterebbe di una delle numerose possibili, segno della profondità della poetica di Leonard Cohen e per questo non meno degno di un Nobel per la letteratura del suo compagno di versi Dylan (e proprio l’Italia, fra l’altro, l’ha riconosciuto, assegnandogli il premio per la letteratura Principessa delle Austrie di Oviedo nel 2011). Poco prima dell’uscita ufficiale del disco, il musicista aveva confessato in varie interviste di essere ormai pronto a morire. La sensazione, spesso naturale in chi come lui è arrivato alla veneranda età di ottantadue anni, di dover mettere un punto alla propria vita dopo aver dato ed espresso tanto, l’attesa e la preparazione alla fine: tutte queste sensazioni attraversano le nove tracce di “You Want It Darker” e si cristallizzano in uno sguardo distaccato e pacifico, proprio di chi riflette serenamente sul proprio passato e sul presente. Cohen ha deposto le armi e ha smesso di lottare: ciò che gli accade intorno lo accetta, non con rassegnazione, ma con quel muto distacco di chi ne ha viste e vissute tante sulla propria anima. È arrivato il tempo, sembra suggerire, di fare un punto definitivo della situazione, di provare a tirare le somme senza doversi inutilmente giustificare delle proprie azioni, come canta in Leaving The Table: “I don’t need a reason, for what I became/I’ve got these excuses, they’re tired and lame/I don’t need a pardon, there’s no one left to blame/I’m leaving the table, I’m out the game”. ![]()
Cohen abbandona il tavolo tirandosi fuori dai giochi: non per stupido orgoglio nel voler vincere a tutti i costi o nel non saper accettare la sconfitta. Più che altro perché la partita che si sta giocando forse non gli appartiene più, preferendo seguire un’altra strada. Da un punto di vista musicale, questa strada, una volta intrapresa, stupisce per la capacità di sapersi nuovamente trasformare senza mai perdere la sua integrità. Complici di Cohen in questa avventura sono Patrick Leonard, suo collaboratore da lungo tempo, e il figlio Adam, musicista e soprattutto produttore del disco, al quale viene dedicato un accorato e sentito ringraziamento visto che, in seguito a delle complicazioni di salute del cantante, il lavoro sul nuovo disco rischiava di venire abbandonato del tutto ma che grazie alla perseveranza e al supporto di Adam, “You Want It Darker” ha potuto alla fine vedere la luce. I due comprimari si rivelano essere assolutamente fondamentali per dare un particolare imprinting alle canzoni e per far emergere, nel corso degli ascolti, il profilo ben definito del disco.
La delicatezza e la profondità dei versi, nonché la musicalità semplice delle trame melodiche di Cohen, vengono esaltate da un background strumentale che si avvale dell’apporto di cori maschili dal tono sommesso e crepuscolare (la Congregation Shaar Hashomayim Synagogue Choir) e dall’orchestrazione dal sapore romantico di violini e violoncelli che fanno spesso da contrappunto al piano, al suono caldo dell’organo, ai bassi scuri e pulsanti e alle immancabili voci femminili che accompagnano da tempo il percorso musicale del cantautore. Su tutto questo apparato, perfettamente costruito e minuziosamente arrangiato, si staglia la caratteristica voce di Cohen, baritonale e profonda, vero e proprio marchio di fabbrica che mai come in “You Want It Darker” si trova a suo agio, tingendo essa stessa di un nero elegante l’atmosfera rarefatta e intima della musica. ![]()
La mezz’ora del disco assume i contorni di un rituale, di una messa privata dove Leonard Cohen ne è l’officiante e gli ascoltatori i fedeli pronti a condividere con lui i suoi segreti e le sue idee sul tempo, la morte, l’amore e l’abbandono. Il brano d’apertura ci introduce in questo mondo sacro e profano insieme, dove un profondo giro di tastiera, efficace nella sua semplicità nel dare un pacato dinamismo all’intero pezzo (tanto da essere oggetto di un remix ad opera del tedesco Paul Kalkbrenner), sposta per noi i pesanti tendaggi del teatro umano imbastito dal cantautore. Sembra di assistere, per l’appunto, ad una piccola messa in scena con le ombre cinesi, narrata da Cohen e commentata a più riprese dal coro maschile che tenta di inseguire la voce cavernosa del cantante: si ritroveranno insieme a declamare con giubilo quel “Hineni Hineni”, parola ebraica che sta a significare pressappoco “sono qui” o “sono pronto”. Quanto più si prosegue nell’ascolto del disco, tanto più si rimane ammaliati dal suo elegante fascino dal portamento signorile, ma, nel suo incedere sensuale, anche molto femminile: basti ascoltare ad esempio Traveling Light, brano che irrompe con un romanticismo soffuso e bisbigliato grazie al violino, una piccola dedica ad un amore forse ormai perso (e chissà, magari rivolto alla musa di Cohen, Marianne Ihlen, recentemente scomparsa); o Leaving The Table e If I Didn’t Have Your Love, che recuperano l’essenzialità di alcuni vecchi dischi come “Songs Of Love And Hate” e “New Skin For The Old Ceremony” ma riadattandola alla sensibilità musicale del Cohen del duemila. L’album si avvale di alcuni dei pezzi più intensi mai scritti ed interpretati dal canadese negli ultimi anni, come dimostra il terzetto che accompagna l’album verso la fine: It Seemed The Better Way, Steer Your Way e String Reprise/Treaty. Sono brani, questi, che giocano con i silenzi lasciando risuonare le vibrazioni delicate degli archi, o che affondano nella loro malinconia, nell’inquietudine e nella ricerca di una umana forma di redenzione. Leonard Cohen dispiega il suo mondo dinanzi a noi e non cede neanche per un attimo all’autocompiacimento; pur consapevole di essere uno dei grandi della musica e della poesia messa in musica, il suo sguardo non si fa mai così lontano da diventare ermetico ed impenetrabile ma, anzi, si confessa e non ha paura di farlo.
L’oscurità di “You Want It Darker” è densa ma non tanto da diventare tenebrosa e apocalittica. È l’oscurità di un anima che ha sempre guardato verso quegli spazi invisibili che sono fra le cose: i sentimenti, i corpi, le parole. Nonostante possa essere dotato di sonorità meno varie rispetto al precedente “Popular Problems”, questo nuovo lavoro sfodera in compenso una ricercatezza e un carattere del tutto singolari che lo pongono indubbiamente fra i lavori più interessanti del cantautore. Come molte delle cose complesse che fanno della semplicità il loro cuore pulsante, “You Want It Darker” saprà donare emozioni differenti a diversi ascoltatori. Si era detto prima che Cohen aveva ammesso di essere pronto ad accogliere la morte. Non è del tutto vero, dopo quella iniziale affermazione, infatti, il musicista ne ha rilasciata un’altra, che dice: “Ultimamente ho detto di essere pronto a morire ma penso di aver esagerato. Ho sempre avuto la tendenza a drammatizzare, intendo vivere per sempre. O almeno fino a centoventi anni”. Leonard Cohen e i suoi versi saranno ancora lì dove noi non saremo più. Leonard Cohen – You Want It Darker (Columbia/Sony Music, 2016) Tracklist:
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“C’erano una volta, nell’Olimpo della musica, il Dio del Rock e la Regina della Canzone italiana. Si erano sempre guardati con sospetto: troppo sanguigno e travolgente lui, troppo rarefatta e sentimentale lei. Ma un giorno, un Cupido con barba e baffi scoccò la scintilla, e nacque l’amore. I due imbracciarono la chitarra, la attaccarono a una presa elettrica, iniziarono a battere il tempo, a parlare di storie simili. Una coppia perfetta.”
Questo si legge nella presentazione di Bobocephus, progetto che unisce artisticamente Bobo Rondelli e Bocephus King in quattro date che sono partite dal club All’una e trentacinque circa di Cantù e arrivate al Lumiere di Pisa la scorsa domenica sera. Bocephus King, artista dalla genuinità e senso artistico lontano dal business commerciale, difficilmente inquadrabile in un particolare genere, sul palco con Bobo Rondelli, “famous local singer” convinto, anima musicale sincera e libera, anche dagli stereotipi e dalle etichette. Difficile scindere completamente le due anime del progetto, anche se derivano da due ambienti completamente diversi. “I loro occhi sono di colori diversi, ma guardano nella stessa direzione.” Bobo Rondelli arriva nel 2016 con un viaggio su e giù per l’Italia in compagnia della musica e delle parole di Piero Ciampi, anima livornese un po’ maledetta, outsider della musica cantautorale italiana, per il quale è stato anche candidato alle Targhe Tenco 2016. Adesso si unisce con un’anima sorridente, internazionale, dagli occhi positivi e pacifici che si inseriscono musicalmente in un non-genere dalle varie sfumature blues, soul, country. Bobocephus non abbandona la musica italiana, anzi, la veste di un abito diverso. Dalla valorizzazione dell’arte italiana alla celebrazione della musica tutta, quella che si unisce nelle sue varie forme e crea incredibili e magiche creature.
Bocephus King, voce, chitarra e percussioni e Bobo Rondelli, voce e chitarra, accompagnati da Fabio Marchiori alle tastiere. Il neo-premio Nobel Bob Dylan si unisce a Buscaglione, De Andrè a Johnny Cash, ai Rolling Stones e tanti altri, in un concerto che si costruisce intorno alla canzone d’autore unendo l’Italia e l’estero senza che si sentano distacchi di sorta. Viaggio musicale fra Canada e Livorno senza sostare né in uno né nell’altra, Bobocephus non è l’unione fra due mondi musicali ma una creatura a sé stante fatta di tante cose perfettamente amalgamate fra loro. Travolgente, genuina, poliedrica e irriverente. Da Guarda che luna cantata senza microfono alla maniera di Rondelli, a Ruby Tuesday e Psycho Killer. Accanto ai brani in cui Bocephus King la fa da padrone come Think About You, una suggestiva versione in inglese di Crêuza de mä e di Pigro di Ivan Graziani, non manca il sapore della salsedine livornese di Madame Sitrì, di Hawaii da Shangai, fra Ho picchiato la testa e Che gran fregatura è l’amor. C’è un po’ dell’irriverenza aspra e travolgente, del cinismo sorridente che costituisce parte fondante dell’animo di Bobo Rondelli tanto quanto la delicatezza di brani che scavano in profondità con dolcezza.
Fra un brano e l’altro i due protagonisti parlano e scherzano fra sé e con il pubblico mescolando italiano e inglese, insieme ad un Fabio Marchiori che pacatamente li accompagna. Non può che derivarne un’atmosfera piacevolmente informale, un siparietto che strappa la risata, fra imitazioni, battute, un consueto attacco alla Chiesa e uno al sindaco leghista di Cascina con una versione rivisitata e a lei dedicata di Bella Ciao che certo lascia poco di politicamente sottointeso.
Il pubblico pisano ha assistito entusiasta, ascoltando, un po’ cantando e sorridendo all’ultima delle prime quattro apparizioni programmate di questa magica creatura, applaudendola mentre se ne andava e uscendo dal Lumiere sentendosi sicuramente fortunato di averla vista.
Link utili:
Bobo Rondelli: https://www.facebook.com/BoboRondelliDE/?fref=ts http://boborondelli.de/ Lumiere: https://www.facebook.com/LumierePisa/?fref=ts
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Il 21 dicembre del 1970 è avvenuto uno degli incontri più impensabili che si potessero immaginare, quello fra il re del rock ‘n’ roll Elvis Presley e il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Come mai? C’entrano i servizi segreti, la minaccia comunista, sostanze stupefacenti e anche una colt .45 d’oro. Elvis & Nixon non è solo un film, uscito il 22 settembre e con Kevin Spacey e Michael Shannon, ma un evento avvenuto per davvero.
“Egregio Sig. Presidente, per prima cosa vorrei presentarmi. Sono Elvis Presley e La ammiro e ho un grande rispetto per il Suo lavoro. Ho parlato con il Vice Presidente Agnew a Palm Springs tre settimane fa e ho espresso la mia preoccupazione per il nostro Paese. La cultura della droga, gli hippies, l'SDS (Students For a Democratic Society), le Black Panthers, etc. non mi considerano come un loro nemico o, come dicono loro, 'Il Sistema' (nell’originale ‘l’Establishment’ n.d.a.). Io la definisco America ed è il Paese che amo. Signore, io posso e voglio essere di qualsiasi utilità per servire il Paese. Non ho nessun interesse o motivi se non servire il paese. Non desidero che mi venga dato un titolo o una carica ufficiale. Farei molto meglio se fossi un agente federale e aiuterò facendo le cose a modo mio, attraverso la comunicazione con le persone di tutte le età. Prima di tutto e soprattutto, sono un intrattenitore, ma tutto quello di cui ho bisogno sono le credenziali Federali. Sono su questo aereo con il Senatore George Murphy e abbiamo discusso i problemi che il nostro paese sta affrontando. Signore, sarò al Washington Hotel, Stanze 505 - 506 - 507. Ci sono due uomini che lavorano per me i cui nomi sono Jerry Schilling e Sonny West. Sono registrato sotto il nome di Jon Burrows. Resterò qui il tempo necessario per avere le credenziali di agente federale. Ho fatto studi approfonditi sull'abuso di droga e sulle tecniche comuniste di lavaggio del cervello e io sono nella posizione migliore, dalla quale posso e voglio fare il meglio. Sono felice di aiutare per tutto il tempo che la cosa resterà privatissima. Mi piacerebbe incontrarLa per salutarLa se non è troppo impegnato.”
Elvis Presley agente federale dell’F.B.I. e infiltrato speciale che sgomina spacciatori, papponi e la minaccia comunista a colpi di karate e di movimenti pelvici? Sembra la trama di un b-movie scritta da uno dei migliaia di imitatori di Elvis sparsi per il mondo per omaggiare il re del rock ‘n’ roll. E invece, per quanto assurda, questa idea trova riscontro nelle cronache dell’America degli anni ’70, diventando nel tempo non solo uno dei vari aneddoti che costellano la storia del rock, ma anche una piccola fotografia di due uomini, Elvis e il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, consapevoli del loro potere mediatico e di come poterlo usare. Il termine ‘fotografia’ non è neanche tanto casuale, poiché a testimonianza del loro incontro esiste anche quella, divenuta la più richiesta fra le migliaia di immagini custodite nei National Archives.
Le parole riportate all’inizio sono quelle scritte da Elvis “The King” Presley durante un suo viaggio in aereo per Washington. Essendo cresciuto nel profondo sud degli States, Elvis aveva ricevuto un tipo di educazione assai conservatrice tipica di quelle zone. Nonostante abbia sempre manifestato rispetto per gli afro americani e si fosse sempre apertamente schierato contro la segregazione razziale imperante all’epoca, le sue idee sulla famiglia, le droghe e il sesso erano completamente all’opposto della maggior parte dei giovani e della controcultura degli anni ’60. Non stupisce quindi la sua aperta ostilità nei confronti dei Beatles, demonizzati tanto da divenire ben presto per lui un vero e proprio chiodo fisso e considerati alla stregua di pericolosi sovversivi, venuti in America a fare successo sulla pelle e soprattutto sulle menti di migliaia di giovani ignari americani. Da qui l’idea di agire mettendosi al servizio del suo Paese in qualità di agente infiltrato negli ambienti alternativi e controculturali che, come da lui stesso dichiarato, non lo vedevano come parte del “sistema” da combattere: sarebbe stato facile quindi per lui avvicinarvisi ed entrare in contatto con determinati personaggi per poterne carpire informazioni segrete da riferire poi all’F.B.I. e allo stesso Presidente. Se la sinistra radicale, anarchici, Black Panthers e altri movimenti civili non consideravano Elvis come un possibile nemico probabilmente questo era dettato dal fatto che era visto più come showman e personaggio pubblico di spettacolo che come, ad esempio, un attivista politico: un personaggio che pensava semplicemente a cantare e suonare intrattenendo le folle con il suo rock ‘n’ roll innocuo e anche alquanto vetusto per le nuove generazioni, e che fra l’altro di lì a poco si sarebbe avviato ad un incredibile declino fisico e psicologico. Ma questo di certo non bastò a frenare Elvis, ma anzi, probabilmente, costituì la premessa per attuare, almeno nella sua mente, un progetto così bizzarro. Dall’altra parte, l’allora trentasettesimo presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, eletto da un anno dall’incontro con Elvis, era ben presto diventato inviso alla maggior parte degli americani, per non parlare degli ambienti più progressisti come quelli della sinistra e dei vari movimenti civili ormai assai diffusi nel Paese. Scelto dai repubblicani più conservatori per combattere quello che ai loro occhi appariva come un totale disordine sociale, sarebbe stato impensabile vedere al suo fianco personaggi come Jim Morrison, Bob Dylan, Hendrix o Lennon: avere quindi a sua disposizione tutto il peso della popolarità di Presley avrebbe potuto, secondo Nixon, riabilitarlo o, per lo meno, attrarre a sé una certa fetta degli americani. Sarebbe stato un bel colpo per un uomo la cui presidenza fu definita “imperiale” proprio a causa del suo uso spregiudicato del potere e della continua ricerca dello stesso: quale miglior interlocutore con cui intendersi, quindi, se non un uomo come Elvis Presley che si faceva chiamare “The King”? ![]()
Il tutto avviene in fretta e nel giro di una mattinata. Il 21 dicembre del 1970 Elvis si presenta ai cancelli della Casa Bianca, consegnando la sua lettera alle guardie. Nel giro di poche ore, Nixon la legge e decide insieme ai suoi funzionari di accontentare il musicista e quindi di incontrarlo. Lo spettacolo che si para dinanzi all’entourage presidenziale è alquanto sopra le righe, ma in perfetto stile “Elvis Presley”: vestito come se dovesse salire su di un palco, il re del rock ‘n’ roll si presenta con addosso una mantellina dal taglio edoardiano dai bottoni in oro, un catenone anch’esso d’oro sulla camicia aperta sul petto, un grosso cinturone scintillante in vita e, per finire, dei vistosi occhiali da sole ingioiellati. Come se non bastasse a far capire a Nixon e ai suoi con chi si aveva a che fare, Elvis aveva portato un “regalino”, certo che il presidente lo avrebbe apprezzato: si trattava di una colt .45, cromata in oro e cimelio della Seconda Guerra Mondiale.
Quello che le cronache raccontano dell’incontro è stato fedelmente riportato, anche grazie alla mania di Nixon di registrare qualsiasi discussione, privata o pubblica che fosse. Ciò che apparve chiaro ai presenti, fra funzionari, segretari, collaboratori e giornalisti, è che il presidente americano rimase positivamente colpito dal musicista, non solo dalla sua forte volontà di mettere in atto il progetto descritto nella lettera, ma soprattutto dalle sue idee sull’America e la società americana in generale. Nel corso di quella mezz’ora, i profili dei due protagonisti si riflettevano l’uno nell’altro, trovando forti analogie di vedute non solo politiche, ma attitudinali. Nixon rimase stupito e letteralmente affascinato dai modi di Elvis, il quale si aggirava nella stanza ovale come se si sentisse a casa propria. Due uomini che pur provenendo da realtà differenti, la politica e lo star system, si ritrovavano a condividere la stessa visione del mondo. Il dono della pistola lo dimostra: un oggetto non certo scelto a caso ma che rappresentava per entrambi un valore, simbolo di patriottismo e di lotta contro i nemici dell’America. Ciò che è interessante notare è che Elvis non ha “introdotto” nulla di realmente inedito all’interno della stanza presidenziale una volta di fronte a Nixon: la sua figura era fatta su misura anche per quell’ambiente, abituato com’era alle folle ed ad essere considerato un personaggio pubblico. Il rapporto che si stabilì quindi fu completamente alla pari, dove i due interlocutori erano consapevoli dei loro ruoli differenti ma anche di come potessero romperli, e anche abbastanza facilmente. È ancora Presley che ci da modo di capire questo meccanismo: nel bel mezzo di una discussione su come poter arginare le minacce anti americane, il musicista del Mississippi, convinto della sua strategia, affermò nei confronti del presidente: “fai il tuo show che io farò il mio”. Per Elvis la sua musica e la sua stessa vita sono state un lungo e interminabile spettacolo: e perché mai non dovrebbe anche esserlo alla Casa Bianca? Elvis sembra pensare, intelligentemente, che gli obiettivi del music business e della politica saranno anche differenti ma i metodi usati non sono affatto tanto diversi: tutto sta a come ci si presenta alla gente, dando loro ciò che vogliono. Per questo, essere un agente infiltrato dell’F.B.I. non suonava per niente assurdo alle orecchie di Presley: sarebbe stato un travestimento come un altro per uno show come un altro, quello imbastito dalla politica. ![]()
Alla fine dell’incontro, Nixon era talmente rimasto impressionato che, alla richiesta perentoria del musicista di ottenere il distintivo da agente, acconsentì, dandoglielo di persona; quello fu l’ennesimo di una serie di distintivi che Elvis ebbe ricevuto da altre stazioni di polizia e che, fra l’altro, aveva portato con sé per mostrarli al suo presidente.
Anni dopo, Presley cercò anche di avvicinare il capo dei servizi segreti americani in carica in quegli anni, John Edgar Hoover, da lui definito “il più grande americano vivente”. Ma nonostante la sua disponibilità per la causa americana e le sue solite tirate sui Beatles e altri personaggi dalle idee democratiche (come l’attrice Jane Fonda), Elvis ricevette solo una lettera autografata da Hoover in cui lo si ringraziava e si garantiva di ricordarsi della sua offerta di collaborazione. Elvis non riuscì mai a porre in atto i suoi intenti, a mettere in piedi il suo ultimo, assurdo, impensabile e, probabilmente, più importante show della sua vita. Di certo però ha lasciato intravedere per un attimo, in maniera del tutto involontaria ma non per questo meno significativa, uno dei mille volti dell’agire politico: un volto che può rendere un’idea talmente tanto assurda assolutamente possibile. Immagini tratte da:
Ormai internet ti porta ovunque tu voglia andare e di fronte a chiunque tu voglia vedere. Il mondo diventa piccolo e racchiuso nello schermo di un pc o di uno smartphone, una piccola finestra sul mondo da tenere comodamente in tasca o in borsa. Le distanze si accorciano anche di migliaia di chilometri semplicemente con un click. Ognuno, nel bene e nel male, è libero di esprimersi, di condividere la propria arte e il proprio pensiero con centinaia di migliaia di persone. Certo, non sempre è positivo, ma quando si tratta di vere doti artistiche, tangibili e riconoscibili, questo non può che essere un pregio di un mezzo indubbiamente potente, da usare con una certa dose di abilità e, a volte, di fortuna.
Non è un caso che in un festival che celebra l’innovazione tecnologica e in particolare internet come l’Internet Festival, fosse in programma un concerto di Jacob Collier. Le nuove tecnologie, quando usate bene, ampliano le nostre possibilità in modo esponenziale, permettono di condividere qualsiasi cosa in modo semplice con un grande numero di persone. Jacob le ha sapute sfruttare con maestria ed efficacia.
Cresciuto in una famiglia di musicisti, fin da piccolo guarda e ascolta la madre insegnare violino e suona, canta, compone. Come cantante e come attore si esibisce alla Royal Opera House di Londra e in giro per l’Europa. Studia al Royal College of Music Junior Department, all’Academy of Music Junior Jazz Department e alla Purcell School, avvicinandosi alla musica jazz e affiancando lo studio del canto a quello del pianoforte, del contrabbasso e della composizione. Nel 2011 apre un canale Youtube e la sua stanza della musica si apre al mondo del web collezionando cifre da capogiro: attualmente è seguito da quasi 85.000 utenti e la sua versione di Don’t You Worry ‘Bout a Thing conta più di un milione e mezzo di visualizzazioni. Nei suoi video i brani sono cantati a più voci e suonati con vari strumenti e diversi arrangiamenti. Dalle percussioni alla voce, tutto è registrato in multitraccia e mostrato in un mosaico di inquadrature che creano l’illusione di un gruppo musicale quando in realtà il tutto si svolge nella stanza della sua casa a Londra ed ha un solo protagonista, cantante e polistrumentista. Dal web alla realtà: i fan della sua musica si espandono nella sfera del jazz mondiale e nella lista cominciano a trovarsi nomi come Quincy Jones, Herbie Hancock, Pat Metheny, Chick Corea, Steve Vai and Take 6.
La tecnologia lo ha aperto al mondo ma ha anche aiutato la sua stanza ad uscire dalla sua casa e trasferirsi sul palco di diverse date del suo tour. Dalla collaborazione con Ben Bloomberg del Massachusettes Institute of Technology (MIT) è nato un mezzo tecnologico che gli permette di stare sul palco da solo. Dentro un cerchio fatto di strumenti diversi, fra i quali piano, tastiere, batteria e percussioni, chitarra, contrabbasso e basso elettrico, Jacob li suona tutti contemporaneamente, cantando con effetti vocali e meccanismi di looping e creando uno spettacolo musicale e multimediale dal risultato sicuramente inedito e all’avanguardia. Lo spettatore, per esempio chiunque fosse seduto nel Teatro Verdi di Pisa lo scorso sabato, ad occhi chiusi ascolta un gruppo composto da vari elementi mentre quando li apre vede e ascolta a bocca aperta un ragazzo che si destreggia fra uno strumento e l’altro con grande abilità tecnica e inventiva compositiva.
Dopo il debutto del progetto al Montreux Jazz Festival, The Guardian lo ha definito “il nuovo messia del jazz”.
A soli 21 anni e viene definito “geniale” da Quincy Jones, tiene Masterclass, scrive per varie orchestre, collabora con tanti musicisti di spessore (fra i quali Snarky Puppy e Take 6). La sua musica si muove fra ispirazioni come Prince e Stevie Wonder, unisce jazz, gospel, soul, improvvisazione. Il suo album, In my Room, è uscito lo scorso luglio ed ha scalato le classifiche jazz mondiali.
Jacob Collier è dunque sicuramente un talento fuori dal comune ma anche il simbolo sia di nuove generazioni che nelle nuove tecnologie trovano un mezzo per ampliare le proprie doti e per poterle condividere, sia di un’arte al passo con i tempi che non perde pregio e qualità diventando tecnologica e innovativa.
Il canale YouTube di Jacob Collier:
https://www.youtube.com/user/jacobcolliermusic/featured http://www.jacobcollier.co.uk/
Immagine fratta da:
http://www.internetfestival.it/eventi/jacob-collier-in-concerto/ 7/10/2016 Il cielo in una stanza - Quando il pianoforte di Gino Paoli incontrò la voce di MinaRead Now
Fa certamente strano scoprire che all'interno degli archivi SIAE il nome dell'autore principale de "Il cielo in una stanza" non sia presente accanto a quelli di Mogol e Toang (pseudonimo di Renato Angiolini). La vastità della stranezza si riconduce ancor di più al fatto che il compositore in questione sia Gino Paoli, all'epoca poco più che ventiseienne e non ancora iscritto agli annali di una società della quale sarebbe stato eletto presidente più di 50 anni dopo, salvo poi dimettersi a causa di roventi accuse di evasione fiscale ancora oggi nell'occhio del ciclone. Resta il fatto che il brano, uno dei capisaldi della tradizione musicale nostrana, fu rifiutato da diversi interpreti (tra cui Jula De Palma e Miranda Martino) prima di essere approvato da una Mina comunque riluttante, convinta tanto dalle pressioni da parte di Paoli che della casa discografica Ricordi. Una genesi davvero singolare per una poesia delicata e sublime nei versi e negli accordi, che già a partire dalla sua uscita nel 1960 stecchito ha potuto riprendersi una sua rivincita importante come dimostra la sua non finita tradizione di covers.
"Il cielo in una stanza" fu pubblicato inizialmente nell'estate del 1960 all'interno di un 45 giri di Paoli che come Lato B presentava un'altra canzone dal titolo di "Però ti voglio bene". Il disco non entrò nemmeno in classifica malgrado il raffinato impianto orchestrale diretto dal Maestro Gian Piero Reverberi (che nella sua carriera brillante ha collaborato con Fabrizio De Andrè, Ivan Graziani, Lucio Battisti e tanti altri) che se da una parte apre le danze sulle note di una sezione organistica di ispirazione sacra (il Te Deum gregoriano cui si richiama anche "La gatta", altro classico del cantautore genovese) dall'altra riversa una magnifica ouverture di violini poco prima del finale.
Paoli intuì che probabilmente sarebbe servito qualcosa di diverso, una voce femminile al posto della sua per esaltare una cornice musicale già di per sè compiuta, e così, armatosi di pianoforte, corteggiò la Mina già eretta a nuova diva pop con "Tintarella di luna". Il buon Gino non potè avere intuizione più felice visto che il 45 giri con annessa la traccia "La notte" a firma Reverberi - Franchi si piazzò durante la prima settimana di uscita subito al settimo posto della classifica italiana per poi conquistarne la vetta e radicarsi senza limiti di tempo nella memoria del pubblico dello Stivale e non soltanto. Accompagnata dalla direzione orchestrale di Tony De Vita, la versione interpretata da Mina assume un fascino straordinario grazie ai toni ariosi ed incalzanti in cui si riproduce un canto che trasmette realmente una sensazione di leggerezza, di un sollevamento da terra, di una fuga dalla realtà alla dimensione del sogno. La voce di Mina fa pensare ad un raggio di sole apparso d'improvviso che si riproduce tra i bucati freschi squarciando un cielo nuvoloso ed illuminando completamente il paesaggio anche dell'Inghilterra (per cui fu confezionata la versione The World We Love in"), della Germania ("Wenn Du an Wunder glaubst"), della Spagna ("El cielo en casa").
L'effetto di sinfonia raggiunto grazie al crescendo degli archi di De Vita si differenzia largamente dall'atmosfera solenne trasmessa dal brano originale, che secondo l'opinione comune sarebbe stata scritta da Paoli in ricordo di una notte d'amore consumata con una prostituta tra le pareti di un bordello genovese ("questo soffitto viola no, non esiste più."). Gino Paoli insegue attraverso le differenti rivisitazioni del brano un'atmosfera soffusa e raccolta, sospesa, che procede a rilento, vive di silenzi ed innalzamenti, "notturna" in contrasto a quella "solare" di Mina. Ne è una prova significativa la seducente variante basata su tastiere elettroniche e sax tenore in apertura che egli porta in scena dal vivo negli ultimi anni, una rivisitazione tra l'altro arrangiata in passato per primo da Peppe Vessicchio. E se si pensa che a ridosso del 1970 per la Rca l'artista ligure aveva inciso una nuova versione insieme all'orchestra di Ennio Morricone ed un ulteriore singolo per l'etichetta Durium impreziosito dal suono di un autentico organo da chiesa nell'incipit, a dimostrazione dell'impatto eccezionale sortito da una canzone che in tanti ancora oggi hanno provato a riscrivere secondo il proprio gusto.
Alcuni come Franco Battiato e Riccardo Cocciante ci sono riusciti, altri vedi Franco Simone (che conserva il grande merito di averla riportata in auge alla fine degli anni 70), Giorgia (autrice di una versione soul brutalmente inserita in un omonimo film dei Fratelli Vanzina) e Noemi un pò meno, finendo per snaturare la sua naturale delicatezza.
Immagini tratte da:
Immagine 1 da butterfymusic.it Immagine 2 da discografia.dds.it
Non è così consueto collocare Raphael Gualazzi fra i tormentoni estivi, vederlo lì fra Alvaro Soler, J-Ax, Fedez e Rovazzi.
Classe 1981, diplomato in pianoforte al Conservatorio di Pesaro, incide il suo primo lavoro discografico nel 2005, Love Outside the Window. Partecipa a vari festival jazzistici italiani e poi ad un tour fra Vermont e New Hampshire, The History and Mistery of Jazz, a fianco di sette musicisti dalle diverse estrazioni musicali fra i quali Steve Ferraris. Dalle jam session di New Orleans all’incontro con una delle signore della discografia italiana, Caterina Caselli, che gli procura un contratto con Sugar. La vittoria nel 2011 della categoria nuove proposte sul palco di Sanremo e il secondo disco Reality and Fantasy, un secondo posto all’Eurovision Song Contest, tour in Italia e all’estero, spot televisivi, la sigla di Che tempo che fa di Fabio Fazio, il terzo disco, Happy Mistake. Un successo sempre crescente di un pianista eclettico e cantautore estremamente versatile che affonda le sue radici nella cultura jazz e si espande sempre di più verso tutti i possibili colori che la musica offre, sempre nella semplicità, riservatezza e timidezza che lo contraddistinguono. Eppure, con il suo singolo L’estate di John Wayne, il suo ritorno dopo due anni di silenzio è andato proprio ad occupare le alte sfere delle classifiche estive, conquistando un largo pubblico con un brano luminoso, allegro ed ottimista che affianca la semplicità alla consueta ricchezza del cantautore italiano. Un brano dal sapore retrò che in alcuni momenti ricorda Battiato con un’ambientazione che ricostruisce pezzetto per pezzetto l’immaginario collettivo e nostalgico attraverso un puzzle di citazioni che vanno da Fellini a Lupin, da Figli delle stelle a Pertini e John Wayne, ma rimanendo sempre leggero e spensierato. Ad estate ormai archiviata, il 23 settembre scorso è uscito il disco Love Life Peace, presentato in anteprima al Blue Note di Milano. Il brano estivo entra così a far parte di un quadro più complesso e variegato composto da 12 tracce e una bonus track.
Primo disco che non è scritto e arrangiato esclusivamente da due sole mani ma frutto di collaborazioni fra le quali quella fondamentale negli arrangiamenti e nella produzione di Matteo Buzzanca. Le parole d’ordine sono “divertissement”, “versatilità” e “contaminazione”. Dall’R’n’B al rockabilly, al soul, blues, pop, jazz, disco, dagli anni ’60, ’70, ’80 ad oggi. Non un estremo cambiamento ma il continuo di un percorso partito forse da quella Follia d’amore presentata a Sanremo e proseguito in Happy Mistake. È il (momentaneo) punto di arrivo del mutamento compositivo di Gualazzi che, di album in album, arricchisce le sue basi jazz con sonorità sempre diverse fino ad allontanarsene e arrivare, in Love Life Peace, anche a mondi a lui decisamente lontani come la musica dance e disco anni ’80. Un disco di ampio respiro internazionale, semplice ma articolato, dagli arrangiamenti ricchi, la pluralità di linguaggio e la mescolanza di stili che risulta alla fine omogenea e convincente.
Si passa dalla sperimentazione di Mondello Beach, racconto di un immigrato siciliano a New Orleans che viene riportato in Italia dall’amore per Carmelina, in un inglese misto a ragusano che si ritrova sia nella lingua che nella musica, ad una ballad pop dal forte sapore contemporaneo come Say I do. La sofisticata voce di Malika Ayane arricchisce Buena Fortuna, brano scritto con Gino Pacifico, che unisce dolcemente pop e sonorità samba in un augurio e un invito a seguire il proprio cuore e i propri desideri. Un invito invece a superare i propri limiti e i propri confini viene da Figli del vento, energica descrizione di un lancio col paracadute che diventa metafora di un viaggio introspettivo verso le proprie contraddizioni. L’ispirazione a Ennio Morricone, Leonard Cohen e Tom Waits danno a Quel che sai di me un’atmosfera lenta e introspettiva che contrasta con l’energia ritmata di Lotta Things, incentrata sulla frenesia della vita consumistica e dei suoi futili problemi in forte contrasto con quelli del mondo meno fortunato.
Love Life Peace si fonda quindi sulla sperimentazione e sulla pluralità musicale, mai banale ne scontata, unendo il vecchio e il nuovo che c’è nella musica e il vecchio e il nuovo che c’è in Raphael Gualazzi, accontentando un ampio ventaglio di ascoltatori. Il 18 novembre sarà live al teatro Creberg di Bergamo, data di apertura del tour che si concluderà a dicembre. Immagini tratte da: Immagine 01: http://www.newsmusica.it/raphael-gualazzi-annuncia-love-life-peace-nuovo-album-di-inediti-1493 Immagine 02: http://www.rtl.it/notizie/articoli/raphael-gualazzi-e-l-estate-di-john-wayne/ Immagine 03: http://www.radioitalia.it/news/raphael_gualazzi/nuova_uscita/12760_%E2%80%9Clove_life_peace%E2%80%9D_e_il_nuovo_album_di_raphael_gualazzi.php |
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Marzo 2021
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