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25/11/2016

METAL FOR THE MASSES, ovvero il mestiere secondo i nuovi album di Korn, Rob Zombie, Dark Tranquillity, In Flames e Metallica – Pt.1

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A volte il saper scrivere canzoni, sapere che note mettere sul pentagramma per ottenere determinati risultati compositivi ed emotivi, conoscere insomma il mestiere a dovere, può salvare un artista. Altre volte invece lo condanna. Le ultime uscite discografiche di tre gruppi americani e due svedesi possono fare da esempio, in ambito metal ma non solo. In questa prima parte, Korn e Rob Zombie.
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​di Carlo Cantisani
Conoscere il mestiere, in ambito artistico, è un’arma a doppio taglio. Partendo dal presupposto che è in ogni caso necessario, quella che si potrebbe definire con un gioco di parole “l’arte di fare arte” presenta molti aspetti positivi e interessanti, così come diverse problematiche, sia per l’artista che per il fruitore. Per un musicista, quando si dice che “conosce il mestiere”, si intende di solito che lui sa usare molto bene tutte le armi che la musica gli mette a disposizione, utilizzandole in una maniera creativamente valida per piegarle a ciò che si vuole esprimere. In questa prospettiva, la differenza la fa chi ha una visione della propria arte talmente forte e piena che riesce a nascondere il mestiere così bene da far sembrare le proprie creazioni assolutamente naturali e incredibilmente spontanee, come se la musica fosse stata sempre lì a disposizione e il musicista non avesse fatto altro che allungare la mano per prenderla. Chi conosce il mestiere e i suoi trucchi sa, invece, che molto è frutto di un’attenta pianificazione e di un’accurata scelta dei vari elementi che poi, una volta assemblati, formano il fine ultimo al quale mira l’atto del mestierante: un buon prodotto. Il caso, dall’altra parte, gioca un ruolo altrettanto importante ma segue altre vie, e quindi non c’è nulla di male nell’affermare che per un musicista (e un artista in generale) conoscere il mestiere è altrettanto importante tanto quanto sapersi abbandonare alla casualità. Il problema sorge nel momento in cui questa conoscenza prende il sopravvento: è lì che una musica diventa allora sterile e la formalità domina. In questo caso, a farne le spese, sono lo spessore, la profondità e l’energia comunicativa che si perdono fra le strutture portanti messe in piedi dal mestiere e i suoi trucchi. Non si usa il mestiere neanche per intervenire e aggiustare ciò che non va in una canzone, per darle ora un certo aspetto e ora un altro, come un pittore che, distanziandosi un poco dalla tela, osserva dubbioso l’opera ancora incompleta e decide di dare un tocco di colore qui e là. No, ci si attiene rigidamente alle regole che la conoscenza del mestiere del fare musica adotta, dimenticandosi che quelle regole dovrebbero servire solo per far emergere al meglio la visione musicale di un artista, il quale intrattiene un continuo dialogo con esse, trasformandole o addirittura eludendole se necessario. L’abuso del mestiere svuota l’individualità di una creazione, ma la cosa peggiore, forse, è vedere gruppi ed artisti che a loro tempo hanno fatto la storia piegando le regole alla loro arte e che, a distanza di anni, sono invece diventati schiavi del loro stesso stile, ormai depotenziato, arrugginito, formalizzato e incapace di comunicare qualcosa a chi ascolta all’infuori di quegli stessi artisti. È un processo, questo, al quale pochi si salvano e diventa la triste testimonianza di un’era ormai tramontata. Diventa necessario allora accorgersene e saper dare una sterzata forte e decisa al proprio stile, o appendere gli strumenti al chiodo se necessario. Perché, arrivati a questo punto di non ritorno, neanche conoscere il mestiere e i suoi mille trucchi potrà essere d’aiuto: la musica non è solo lavoro di bricolage, per quanto sapiente possa essere, ma soprattutto comunicatività ed espressione.
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Per dare prova di ciò che si è tentato di spiegare si potrebbero prendere come esempio i cinque nuovi album di altrettanti gruppi, che come stile di riferimento possono essere etichettati sotto quello del metal, alternativo, estremo o più rock oriented a seconda dei casi: Korn, Rob Zombie, Dark Tranquillity, In Flames e Metallica. Per le band in questione, “metal” è solo un’etichetta di comodo derivante più dalla loro storia passata che ha fatto si che la critica li ponesse sempre in quella specifica categoria: oggi, alla luce dei diversi decenni che gravano sulle loro spalle, rientrano più nella categoria del pop, o al massimo del pop rock, grazie alla loro massiccia esposizione mediatica che li ha portati a divenire delle vere e proprie icone anche al di fuori del mondo del metal in quanto tale, alle numerose copie vendute degli album e ad uno stile che ha saputo accentuare in alcuni casi, o a far emergere in altri, aspetti melodici e maggiormente orecchiabili che invece erano, in un primo momento, in secondo piano rispetto all’aggressività e alla potenza del sound generale (l’unica piccola eccezione la fanno i Dark Tranquillity, per i quali queste considerazioni sono valide solo in parte). Tutto ciò ha fatto si che questi gruppi siano diventati popolari e quindi mainstream, con buona pace di quei metallari che ancora si ostinano a credere il contrario concependo il loro genere prediletto come qualcosa di avulso dalle dinamiche di mercato o da un certo processo creativo che porta a trasformare la musica anche in qualcosa di più fruibile. Si sta parlando, in ogni caso, di artisti che nei loro tempi migliori sono stati dei veri e propri apri pista per determinate tendenze, rappresentando quanto di meglio un certo filone potesse offrire e con dischi che sono ormai entrati di diritto sia nella storia del rock e del metal, che della musica in generale (basti pensare ad esempio a “Master Of Puppets” dei Metallica).
Ed oggi? In un panorama musicale in cui il rock e le chitarre elettriche si stanno sempre più facendo contaminare dall’elettronica, dall’uso massiccio di sampler, effetti e sintetizzatori vari, cosa hanno ancora da dire questi gruppi? In un mondo in cui Kanye West è il personaggio chiave, nel bene e nel male, di un’era (tanto da potersi permettere di avanzare una sua prossima candidatura alle presidenziali negli USA), cosa possono rappresentare con i loro nuovi album questi artisti? Il metal, come genere musicale ma soprattutto come attitudine e modo di vedere il mondo, è stato completamente fagocitato (ed anche risputato) dal fluire del tempo che ha portato alla ribalta altri personaggi, trasformato scene, modificato la percezione stessa alla musica. Il metal, in particolare quello di matrice più estrema, ha perso molta di quella carica dirompente che aveva negli anni ’80 perché, evidentemente, non riesce più a concepire il mondo come un qualcosa contro cui opporsi per far valere la propria soggettività, cosa che invece era ben chiara ai metallari di trenta e passa anni fa, bensì come un luogo al quale bisogna sapersi adattare, pena l’estinzione. Ed è per questo che, a distanza di svariati decenni dai rispettivi esordi, i cinque gruppi sopra citati sono ancora qui a pubblicare dischi: la loro rabbia iniziale si è tramutata in mansueta capacità di adattamento. E in questo processo la conoscenza profonda del mestiere si è rivelata assolutamente centrale; talmente importante che senza di quella molto probabilmente non sarebbero sopravvissuti alle mode che gli anni hanno sputato loro addosso.


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Del filone nu-metal degli anni ’90, il gruppo che ha saputo resistere senza scomparire nel dimenticatoio (cosa accaduta invece ad uno dei fenomeni più famosi dell’epoca, che sembrava destinato a marcare le scene per molto tempo ancora, i Limp Bizkit) sono i Korn, recentemente usciti con il loro dodicesimo album in studio “The Serenity Of Suffering”. Il quintetto di Bakersfield è sempre stato molto attento nel gestire il loro impero musicale e commerciale, fra collaborazioni, grosse sponsorizzazioni, cambi di rotta, ripensamenti e ritorni. Forti quindi di un’esperienza ventennale, i Korn attuali, da quello che traspare dai solchi delle loro canzoni, sembrano piuttosto puntare a consolidare la loro presenza nel panorama commerciale anziché provare a rinnovarsi, magari cavalcando l’onda della moda del momento (com’era successo ad esempio con “The Path Of Totality”). A dispetto dei vari proclami che sbandierano a gran voce un presunto ritorno alle origini, il nuovo disco prosegue invece quanto fatto quattro anni fa con “The Paradigm Shift”, perfezionando e centrando ancora meglio il quadro sonoro che si andava delineando con quel lavoro. E quel quadro è fatto di pochi elementi, semplici e funzionali: un sound robusto che sorregge delle canzoni che trovano il loro fulcro in ritornelli melodici ed efficacissimi nel loro essere catchy al punto giusto. Nelle undici canzoni di “The Serenity Of Sufferin” (più due come bonus tracks), i Korn fanno trasparire tutta la loro minuziosa conoscenza del mestiere, utilizzandolo per costruire una serie di pezzi dall’impostazione autenticamente pop. Un vero e proprio lavoro di artigianato, dove ogni singolo elemento è perfettamente cesellato e costruito per collegarsi all’altro, creando alla fine un quadro musicale d’insieme che riesce ad evitare un appiattimento stilistico generale. E questo perché, anche se tutto gira intorno ai ritornelli, ogni melodia è diversa da quella che la precede, contraddistinguendo una canzone dall’altra e rendendole alla fine riconoscibili. Ciò che si perde in rabbia e in malsana follia, lo si recupera in melodia: da quelle trascinanti di Rotting In Vain e A Different World (con Corey Taylor degli Slipknot come ospite), a quelle più sofferte di The Hating e When You’re Not There, passando per l’ossessività di Die Yet Another Night sino a Please Come For Me (che ci catapulta per un attimo ai tempi di “Life Is Peachy”), chi ricerca gusto nella costruzione melodica avrà pane per i suoi denti. Invece che riesumare un passato ormai morto, i Korn fanno un’operazione molto intelligente: trasformano il loro stile, non in maniera radicale ma certamente in modo per loro inedito. E grazie a ciò, da bravi mestieranti, riescono a confezionare un buon prodotto.

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​Colui che può essere considerato uno dei padrini di certe sonorità dissonanti, ossessive, minimali e piene di groove che faranno la fortuna di molte band della frangia più alternativa del metal anni ’90, è sicuramente il grande Rob Zombie, che, prima con i suoi White Zombie e poi da solista, ha attraversato la scena praticamente a testa alta, facendo sempre e solo quello che gli pare. Ed imperterrito, anche nel 2016 continua a suonare quello che gli pare, con il suo solito gusto che mischia b-movie, horror, psichedelia hippies e cafonaggine da redneck americano. Il cocktail questa volta prende il nome di “The Electric Warlock Acid Witch Satanic Orgy Celebration Dispenser”, un lavoro che già dal titolo riassume un intero immaginario tanto caro al Rob. Anche se chi conosce il mondo dell’artista americano sa perfettamente cosa aspettarsi da ogni suo lavoro, che sia musicale o cinematografico (a proposito, assolutamente consigliato il suo ultimo film, 31, già uscito negli States), gli strumenti del mestiere gli consentono di volta in volta di confezionare dei prodotti di ottima fattura, che centrano spesso e volentieri l’obiettivo e sanno soddisfare i suoi numerosi estimatori. Rob Zombie può essere visto come un vero e proprio artigiano dell’universo freak: il suo modo di ragionare è da perfetto appassionato e cultore di un certo tipo di cinema e di musica, riuscendo così ad azzerare la distanza fra lui e chi fruisce i suoi lavori proprio perché, lui per primo, ama alla follia quel particolare universo. E questo suo amore per tutto ciò che è assurdo, bizzarro, orrorifico, allucinato, sanguinario ed esagerato è genuino, e lo si percepisce solo se si adotta il suo stesso sguardo da fan di quel mondo. Il suo nuovo album non fa eccezione a nessuna regola del mestiere di Rob Zombie: un sound solido e robusto fa da cornice a canzoni accattivanti nel loro incedere ora pesante, ora invece pieno di un groove talmente acido da lambire atmosfere quasi da rave come in Medication For The Melancholy. La breve durata di ogni canzone (la media si aggira al di sotto dei tre minuti) permette praticamente di evitare qualsiasi calo e di arrivare alla fine senza quasi neanche accorgersene: la batosta finale di Wurdalak, uno dei pezzi migliori, ci congeda con i suoi spettri doom e con una lunga malinconica coda finale al pianoforte da questa folle corsa, lasciandoci atterriti ma stranamente esaltati, pronti a riprenderla in ogni momento. Perché i segreti del mestiere di Rob Zombie sono talmente fini che, pur non creando mai nulla di particolarmente originale o che abbia un particolare spessore, riescono sempre a fare la loro maledetta figura. Sarà anche che la sua musica, oltre che ascoltata, va anche vista esattamente come i suoi film e i videoclip di quest’ultimo disco si rivelano essere la ciliegina sulla torta, un corredo indispensabile per godere appieno di quest’ultima esperienza targata Rob Zombie. Se non altro perché, spesso e volentieri, ci infila quella biondona di sua moglie, Sheri Moon Zombie. Come non amarlo?

 
Nel prossimo articolo, faremo un salto oltre oceano sino in Svezia con gli ultimi dischi dei Dark Tranquillity e In Flames, per poi ritornare negli USA con il doppio dei Metallica.
 
Immagini tratte da:
  • img.wennermedia.com
  • cdn.metallus.it/
  • sentieriselvaggi.it/

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25/11/2016

Duecento anni del Barbiere più famoso del mondo

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di Alice Marrani
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Sono passati duecento anni da quel 20 febbraio del 1816 che con un incredibile coro di fischi segnò l'inizio della storia di una delle opere più famose di tutto il mondo. Percorso nato da una prima al teatro Torre Argentina di Roma che accolse malamente il Barbiere di Siviglia di Rossini per poi consacrarlo subito dopo come uno dei più grandi e duraturi successi della storia della musica. L’opera è entrata nella cultura comune e vi è rimasta fino ad oggi. Basti pensare al fatto che è quasi impossibile trovare chi, al nome dell’opera non canticchi “Figaro qua, Figaro là” “sono il factotum della città” o varie frasi della cavatina di Figaro, anche se l’opera intera non l’ha mai sentita. È diventata parte del vivere quotidiano culturale anche attuale, entrato anche nel mondo cinematografico, pubblicitario e in tutt’altro genere di musica, dal Quartetto Cetra a Elio e le Storie Tese. Le vicende nella città di Siviglia incentrate sui tentativi del Conte di Almaviva di avvicinarsi alla sua amata Rosina con l’aiuto di Figaro travalicano i generi e il tempo.


L'opera che arrivò quella sera a Roma si presentava come: “Almaviva o sia l'inutile precauzione, commedia del signor Beaumarchais, di nuovo interamente versificata e ridotta ad uso dell'odierno teatro Musicale italiano da Cesare Strebini”.
Ma non fu il confronto con Beaumarchais a far storcere il naso del pubblico conservatore romano davanti a quella che sarebbe diventata l'opera buffa per antonomasia, quanto quello con l’opera di Paisiello del 1782, il cui successo era stato tanto imponente da essere ancora ben presente nel pubblico del 1816. Il libretto si apre proprio con un avvertimento del librettista Strebini che premette l'assoluto rispetto di Rossini verso il Barbiere di Paisiello e la mancanza di volontà di rivalità fra i due, tanto da volere un'opera di nuovo versificata e con l'aggiunta di nuovi pezzi musicali vicini al nuovo gusto musicale. Ma le buone intenzioni iniziali non bastarono ad evitare il confronto. La versione di Rossini risulta moderna e innovativa nella musica, nelle tecniche teatrali e nei personaggi.
Il Figaro di Rossini, che nella prima rappresentazione fu del basso bolognese Luigi Zamboni, è un personaggio che mescola doti attoriali a quelle canore. Rappresentante furbo e spigliato della piccola borghesia artigianale entra in contatto e in contrasto con la nobiltà rappresentata invece dal Conte di Almaviva. Tenore capace di grande virtuosismo esecutivo, rappresenta il nobile “salvatore della fanciulla” ma attraverso vari travestimenti che lo portano dentro diverse categorie sociali e vocali. Rosina invece è lontana dal simbolo della fanciulla fragile e repressa dal malvagio tutore, Don Bartolo. Basti pensare alla sua cavatina dove canta di essere docile, ubbidiente, dolce e amorosa ma se toccata nel suo debole capace di diventare una vipera: “e cento trappole prima di cedere farò giocar”. Scaltra e capace di seguire le furbe macchinazioni della coppia Figaro e Conte.
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Frontespizio del libretto originale

Certo fa strano pensare che le seicento pagine della partitura sono state scritte in circa venti giorni da un Rossini appena ventitreenne, dall’anno prima diventato direttore del Fondo e del San Carlo di Napoli, già uno dei compositori più famosi del tempo dopo i grandi successi veneziani del 1813 di Tancredi e L’Italiana in Algeri. Seguendo alla lettera le nuove esigenze della musica italiana del tempo, in quella che era diventata all’inizio del 1800 una macchina imprenditoriale che sfornava un'opera dopo l'altra, la varietà e velocità erano necessarie, unite ad un'impeccabile lavoro di artigianato compositivo. Non essendo in vigore il diritto d’autore (in Italia dal 1865) lo scopo di chi voleva vivere di musica era quello di raggiungere un successo immediato: non c'era tempo di lunghi ripensamenti creativi. Si scriveva di getto, talvolta prendendo in prestito qua e là da opere di altri o dalle proprie. Rossini stesso riutilizzò spunti da alcuni suoi precedenti lavori e grazie alle nuove tecniche, riesce a ridurre i tempi di composizione potenziando il messaggio. Creò così un’opera innovativa e che, nonostante l’immediato flop, vide crescere il suo successo fino a diventare, ancora oggi dopo duecento anni, una delle opere più eseguite al mondo.


Immagini tratte da:

Immagine 01:
Gioachino Rossini fotografato nel 1865 da Étienne Carjat
https://it.wikipedia.org/wiki/Gioachino_Rossini

Immagine 02:
https://commons.wikimedia.org/wiki/File%3ABarbiere_di_Siviglia_frontespizio.JPG
By Stamperia di Crispino Puccinelli in Roma
 

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18/11/2016

Un 2017 in Italia a tutto rock

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di Enrico Esposito

Il rock invade la nostra Penisola. Da gennaio a giugno (per ora), da Roma a Milano passando per Firenze, Bologna, Torino, palazzetti e arene nostrane saranno teatri di concerti e rassegne che riporteranno in azione bands straniere storiçhe e dal passato recente che con i loro successi coprono un arco temporale dagli anni '80 a oggi.

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Ad aprire le danze durante il primo mese del nuovo anno i Green Day a quattro anni di distanza dall'ultimo tour europeo. La band capitanata da Billie Joe Armstrong cavalcherà il Centro-Nord del Belpaese per promuovere il nuovo album "Revolution Radio" uscito lo scorso 7 ottobre. La prima tappa del loro tour italiano li vedrà calcare il palco del Palalpiltur di Torino il giorno 10 gennaio, mentre l'11 saranno di scena al MandelaForum di Firenze, il 13 all'Unipol Arena di Casalecchio di Reno (BO) e infine il 14 al Mediolanum Forum di Milano. E notizia degli ultimi giorni, ancora nei dintorni milanesi, precisamente all'Autodromo di Monza nell'ambito del Festival I-Days 2017 saranno loro i protagonisti della serata del 15 giugno accompagnati dall' acid-punk dei Rancid.

Dal punk al metal, da Roma a Milano, stanno andando a ruba i biglietti messi in vendita questa mattina per le tre date a cavallo tra gennaio e febbraio con cui i Dream Theater festeggeranno i 25 anni di una pietra miliare del progressive-rock mondiale, vale a dire l'album "Images and Words". Si parte il 30 gennaio all'Auditorium Parco della Musica della Capitale, per poi salire al Gran Teatro Geox di Padova due giorni dopo e chiudere in bellezza il 4 di febbraio ancora a Milano, al Mediolanum Forum.
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Ritornando all' Indipendent Days di Monza il concerto inaugurale dei Green Day del 15 giugno sarà seguito il giorno successivo dallo spettacolo dei Radiohead e il 17 giugno da un' esclusiva doppietta firmata Blink 182 e Linkin Park.

A Firenze invece, alla Visarno Arena delle Cascine il Firenze Rocks alzerà il sipario il 23 giugno su una delle più storiche rock'n'roll bands ancora in attività, ossia gli Aerosmiths, che due giorni dopo lasceranno il testimone ad un altro grande fenomeno, seppur più dalla storia più recente e dall'animo metal, che prende il nome di System of A Down.

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Ma non finisce qui. A questi appuntamenti già ufficializzati probabilmente si aggiungeranno le conferme dei ritorni sulla scena nostrana di altri grandi interpreti del genere rock, dai Pearl Jam ai Foo Fighters, arrivando sino a Sir Paul Mccartney che il Lucca Summer Festival spera di poter regalare al proprio pubblico.

Immagini tratte da:

Immagine 1 da www.Ticketek.it
Immagine 2 da www.concertionline.com
Immagine 3 da www.soundsblog.it

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18/11/2016

Elisa On tour

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​di Alice Marrani
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Avevamo parlato del suo ultimo album, ON, uscito a marzo. Dopo sei mesi con curiosità ci siamo seduti dentro il Nelson Mandela Forum di Firenze lo scorso 11 novembre per ascoltare il concerto di inizio del tour.
"Non sempre penso che quello che faccio sia profondo" ha dichiarato post-concerto ed è proprio questa l’essenza di quella che è stata definita la meta della sua evoluzione. Una svolta verso il gioco, il divertimento leggero. Dal cantautorato rock al pop di sapore internazionale. La sfida però era quella di riassumere la sua carriera in una scaletta. Un assaggio di ogni direzione presa negli ultimi venti anni e dato che di direzioni ne ha prese tante non era un’impresa facile. Possiamo dire che lo scopo può dirsi raggiunto: da Bad Habits e i brani dell’ultimo album a L’anima vola, Eppure sentire, Luce, Heaven out of Hell fino a Cure Me. La scaletta ben pensata fa cogliere al pubblico tutte le sfumature di una delle voci più belle del panorama musicale italiano, partendo dal nuovo e coloratissimo pop per finire al rock degli inizi della sua carriera.

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Si muove costantemente da una parte all’altra del palco e lascia ampio spazio al canto spiegato del pubblico che interviene spesso nei brani e a volte quasi la sovrasta. Un’Elisa diversa da quella con i capelli lunghi, l’aria hippy e raffinata di qualche anno fa. Probabilmente la sintesi dell’esperienza come guida artistica degli Amici di Maria De Filippi: estroversa, colorata e ovviamente pop. A chi storce il naso per questo nuovo “vestito” che indossa, per chi l’ha storto per l’arcobaleno munito di gattino che fa da copertina all’album e per i balletti fra le verdure del video di Love Me Forever la cantante risponde rivendicando una grande libertà delle sue scelte artistiche. Nella carriera di chi vuole rimanere discograficamente a galla per decine di anni consecutivi è fondamentale evolversi in qualcosa di costantemente nuovo, possibilmente senza perdersi per strada. Se questo significa per Elisa immergersi in un mondo più leggero, movimentato, giocoso e meno profondo senza lasciare indietro il passato non possiamo dire che non ci sia riuscita. 
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Il concerto si snoda fra i brani, vecchi e nuovi, effetti speciali di luci e video, coreografie pensate da Veronica Peparini. L’elettronica si alterna con il piano, l'handpan e il flauto traverso, le chitarre acustiche, i brani intimi con le coriste Jessica Childress e Sharlotte Gibson. Una presenza scenica in generale più incentrata al contatto complice con il pubblico e meno alla purezza del canto (che comunque non manca), scelta la cui nascita forse deriva da quella di partecipare ad un reality/talent televisivo. La sua voce comunque si riconferma indiscutibile, dai tempi di Luce a quelli della nuova No Hero.
I messaggi sociali sugli schermi si fondono con l’atmosfera scherzosa, con la raffinatezza di Hallelujah, già presente in scaletta ma tributo a Leonard Cohen ancora più emozionante data la coincidenza della sua scomparsa proprio venerdì scorso, con la sorpresa del brano in duetto con Renato Zero (Cercami), con l’intimità dei pezzi acustici, la bellezza di Almeno tu nell’universo con la quale, ricordando Mia Martini, presenta al pubblico l’album in progetto con Loredana Bertè il quale ricavato sarà devoluto per la lotta alla violenza sulle donne.
La cantante e la sua band composta da Andrea Rigonat (chitarra), Curt Schneider (basso), Victor Indrizzo (batteria) e Cristian Rigano (tastiere), proseguono il tour arrivando domani a Roma e girando poi l’Italia fino a dicembre. A febbraio sarà in tour nel Regno Unito e per la prima volta in Irlanda.
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Per conoscere tutte le date del tour: http://elisatoffoli.com/it/tour/
Per la nostra recensione dell’album ON: http://www.iltermopolio.com/musica/elisa-on

Immagini tratte da:
Immagine 01: http://news.mtv.it/musica/elisa-on-tour-raddoppia-le-date-a-grande-richiesta/
Immagine 02: https://www.youtube.com/watch?v=YZ8drIxNA54
Immagine 03: https://www.youtube.com/watch?v=Tc_07fb0ibA

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11/11/2016

Quando RaiUno sceglie Bollani, l’importante è avere un piano.

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​di Alice Marrani 
Stefano Bollani è tornato alla Rai con un nuovo programma televisivo dedicato alla musica. Ciò che può sorprendere (e che ha ammesso di aver sorpreso anche lui) è che non stiamo parlando della nuova stagione di “Sostiene Bollani” e non stiamo parlando nemmeno di RaiTre. La prima puntata di “L’importante è avere un piano” è andata in onda ieri sera nella seconda serata di RaiUno. L’apertura è stata affidata a Francesco De Gregori con una Guarda che non sono io accompagnata dalle mani di Bollani, seguito da Fiorella Mannoia e Cameron Carpenter. Seguiranno altre sei puntate “e poi si vedrà”. È stato definito una specie di “jam session” e serve capire perché in quanto è proprio il carattere del programma ad allontanarsi un po’ dalle tendenze della musica attualmente più presente in televisione (e non solo). Quindi qual è il “piano”?
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È di pochi giorni fa un’affermazione del musicista, riguardante i “talent”, che ha scatenato polemiche varie. Lontano da questo tipo di intrattenimento, Bollani si dichiara lontano anche dallo spirito che li caratterizza. Si sono moltiplicati negli ultimi anni diversi talent show di vari tipi, dalla cucina alla musica, ormai uno degli elementi più saldi e amati dell’intrattenimento televisivo insieme al “reality”. Da quelli musicali sono usciti tanti vincitori (e non) che poi si sono affermati nel panorama musicale italiano. Alcuni sono rimasti e sono cresciuti (Marco Mengoni, Noemi, Alessandra Amoroso, per fare qualche nome) altri si sono eclissati poco dopo aver ritirato il premio. Una bolla di sapone scintillante pronta ad esplodere senza lasciare traccia. Certamente questi spettacoli televisivi sono diventati la vetrina più “facile” (o almeno così appare) per chi vuole passare dall’anonimato musicale alla notorietà. Una scelta che talvolta sembra l’unica possibile. In alcuni casi hanno premiato l’artista e anche il pubblico ma in altri, oltre a non essere poi tutto oro quel che luccica, questa notorietà è stata tanto effimera da durare il tempo di un applauso, portando velocemente il nuovo arrivato dalla vetta più alta al punto esatto dal quale è partito. Non per tutti, ma spesso è stato così. Certamente, vista dal lato televisivo, un tipo di spettacolo che porta risultati più facilmente visti i grandi successi di pubblico. Ha tutt’altra direzione il “Il piano” di RaiUno che offre sette puntate di una concezione diversa della musica, sicuramente più rischiosa ma alternativa e che merita di essere valutata. 
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È soprattutto lo spirito fondante del format in quanto “talent” che il programma evita: la competizione, la lotta ad eliminazione dove solo uno arriva alla vetta. Ed è così che quando Bollani sceglie le regole del suo programma se ne allontana. In una specie di salotto, pianoforte in primo piano, invita artisti vari da lui scelti personalmente, accogliendoli in un’atmosfera allegra e piacevolmente rilassata. Fra quelli scelti personalmente non ci sono solo amici di vecchia data o collaboratori. Ci sono anche artisti che il grande pubblico ancora non conosce e quelli con cui confessa di aver avuto il desiderio di suonare. Per citarne alcuni che saranno nelle prossime puntate a fianco della Resident Band (formata da Jeff Ballard alla batteria e Gabriele Evangelista al contrabbasso): Elio, David Garrett, Andrew Bird, Enrico Rava, Cameron Carpenter e The Vegetable Orchestra, Max Gazzè, Samuele Bersani, Daniele Silvestri, Vinicio Capossela, Valerio Mastandrea, Manu Katchè, Banbardò, Igudesman & Joo, Neri Marcorè, Lillo & Greg, Antonio Rezza, Irene Grandi, Carmen Consoli, La batteria, Jan Bang, il trio Daniele Sepe, Nico Gori, Bernardo Guerra, Chano Dominguez e Barbara Casini.
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Non ci sono dischi da presentare, né interviste con scopi promozionali, né gare da vincere, ne scopi didattici ed educativi. Una jam session, dove gli ospiti parlano di musica e suonano e con un unico scopo chiaramente espresso: divertirsi (e quindi divertire). Nelle interviste di presentazione Bollani ha parlato spesso di questa componente di divertimento, per lui fondamentale. Si fa notare che “play” in inglese significa “giocare, suonare e recitare” ed è questo che si fa in questo programma: si gioca con la musica. Non è uno spazio nel quale ci si divide ma dove ci si stima e ci si unisce mettendosi in gioco ognuno con la propria carriera, più o meno lunga, la propria musica, più o meno apprezzata dal grande pubblico, mescolandola a quella degli altri senza nessun’altro scopo. Non ci si divide nemmeno fra il pubblico, fra intenditori, esperti e meno esperti perché non è uno spettacolo pensato per una nicchia ma per tutti i generi e tutti gli spettatori.
È un rischio che Rai 1 ha deciso di correre: sfidare gli ascolti per promuovere uno spettacolo che intrattenga, ma in modo diverso, fuori dalla moda, fuori dall’Auditel e fuori dal business, dando visibilità televisiva ad un omaggio ad un altro lato della musica. Non rimane che vedere se questa scelta porterà i suoi frutti.
http://www.rai.it/rai1/
http://www.stefanobollani.com/

Immagini tratte da:
Immagine 01: https://www.facebook.com/StefanoBollaniOfficial/?fref=ts
Immagine 02: https://twitter.com/RaiUno
Immagine 03: http://www.radiowebitalia.it/102944/cinema-tv-e-spettacolo/stefano-bollani-limportante-e-avere-un-piano-rai1.html

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10/11/2016

REWIND - L'edera rivitalizzata da Erica Mou dopo quasi sessant'anni

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di Enrico Esposito

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A Nonna Lina cantare piaceva molto. Come a tutti. In particolare mentre stendeva i panni al sole bruciante del Sud, cucinava o semplicemente si riposava un poco in casa nel pomeriggio dopo il pranzo. Alle orecchie della nipote Erica, conosciuta in Italia da un numero di anni che già ora sono diventati un pò, ancora oggi come da piccola arrivano i grandi classici della musica italiana, dei primi Festival di San Remo, di una tradizione nostrana agli albori entrata nella storia della cultura mondiale e celebrata ancora a lunghi paralleli di distanza. Tra un Modugno e un Endrigo, un Nicola Di Bari e una Zanicchi, Erica Mou ha scelto di riportare alla luce del Nuovo Millennio, a quasi Sessant'anni da quel secondo posto al Sanremo del 1958 alle spalle de "Nel blu dipinto di blu", un'avvolgente e cospicua dichiarazione d'amore interpretata da Nilla Pizzi, una delle più grandi cantanti italiane degli anni '50 scomparsa nel 2011.

Al secolo Adionilla Pizzi, nata nel 1919 a Sant' Agata Bolognese, la Pizzi raggiunse nel corso della sua formidabile carriera primati storici come la vittoria del Primo Festival di Sanremo nel 1951 con "Grazie dei fiori", salvo poi aggiudicarsi il podio intero l'anno seguente con il trittico "Vola colomba", "Papaveri e papere", "Una donna prega", e conquistando 4 secondi posti e 2 terzi posti. Sebbene tali successi appartengano a tempi molto lontani alla maggior parte dei lettori odierni, la loro forza e grandezza nell'ambito dell'autentica cultura italiana le rende oggi familiari o quantomeno non estranee, se pensiamo ad esempio soltanto a "Papaveri e papere" e "Vola colomba" per l'appunto. Da questo punto di vista "L'edera" ha ottenuto un riscontro mediatico differente che si è sviluppato in sordina probabilmente perchè oscurato dall'improvvisa ascesa del fenomeno Modugno e dal nuovo di stile di espressione messo in scena dal leggendario cantautore pugliese. "Nel blu dipinto di blu" infatti trasmetteva una ventata fresca di liberazione dalla consueta atmosfera di tensione melodrammatica ed emotiva della canzone italiana dell'epoca sia per mezzo del testo sognante e della melodia ariosa che per l'interpretazione medesima di Modugno con le braccia aperte al cielo in un motto di vibrante apertura alla vista
Composto da Saverio Seracini e Vincenzo D'Acquisto, "L'Edera" si inserisce invece perfettamente nella linea tradizionale già delineata, producendo un inno di passione fortissima rivolto da una donna nei confronti dell'uomo che ama, un attaccamento totale e senza paure destinato al presente come al resto della vita. La cornice orchestrale cui si affida il timbro alto di Nilla Pizzi valorizza appieno la profondità della promessa avanzata, l'abbandono senza dubbi di una donna al servizio dell'uomo amato.

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Riportare questo brano ad una nuova dimensione non era così facile. Riadattarlo sia da una prospettiva musicale che narrativa lasciandone il testo completamente intatto presupponeva dunque la capacità di trasmettere emozioni diverse, che Erica Mou tocca trasportando l'ascoltatore all'interno di un sogno sospeso e pieno di riflessione. Riducendo all'essenziale il tappeto strumentale (con il pianoforte di Antonio Iammarino, violoncello di Flavia Massimo e l'elettronica di Giuseppe Saponari), la giovane cantautrice di Bisceglie sostituisce il robusto supporto orchestrale della canzone originale con silenzi leggermente vibrati dalle basi elettroniche. Sono pause che tra una frase e l'altra permettono di soffermarsi ampiamente su quanto viene detto, che consentono a chi ne è destinatario di pensare al loro effettivo significato, inaugurando se vogliamo un confronto tra l'uomo e la donna sconosciuto alla versione precedente.
Per quanto concerne l'aspetto vocale, d'altra parte Erica Mou adatta alle sue caratteristiche l'andamento dell'inno d'amore seguendo un'evoluzione crescente del tono, a differenza dell'uniformità tenuta dalla Pizzi. La delicatezza e ascesa in alcuni punti chiave del brano ad opera della Mou richiamano alla mente l'esecuzione di Tonina Torrielli, cantante alessandrina che accompagnò Nilla Pizzi durante la performance di Sanremo. In sintonia con l'aura di levità e purificazione resa dalla cover di Erica Mou è stato realizzato un adatto videoclip ispirato all'autrice pugliese dalla sua esperienza con gli adolescenti della Dynamo Camp, associazione che aiuta e ospita all'interno delle sue strutture bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni affetti da patologie gravi e croniche.


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4/11/2016

LIVE! - La Siberia rovente dei Diaframma al Deposito Pontecorvo

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di Enrico Esposito

Ad osservare la sua imponenza e vitalità, a rimanere catturati da quello spilungone secco e ciuffo caratterizzante che occupa il centro magnetico del palco, non si sa a quale divinità rivolgersi per capire come sia possibile che Federico Fiumani abbia 56 anni. Anche nell'aspetto e per non parlare della voce, che egli modella magistralmente tra un brano e l'altro, il leader dei Diaframma sembra il giovane vigoroso di trent'anni fa che con la pietra miliare "Siberia" e tanti altri successi importò in Italia l'onda new-wave britannica capeggiata dai Joy Division. Erano loro, i Diaframma, che trassero il nome dal componente della macchina fotografica, a costruire insieme a Skiantos, CCCP, CSI, Litfiba una realtà rock ribollente specialmente nell'underground dell'Italia centrale, lasciando un'impronta perpetua nei fans dell'epoca. Per fortuna, decenni dopo, in misura maggiore durante l'ultimo, l'exploit di Internet e delle multiformi piattaforme musicali da esso rese disponibili hanno consentito al sottoscritto e ai suoi coetanei di avere accesso non soltanto agli archivi sonori, ma anche al significativo patrimonio video riguardante la storia di queste originali bands. Per questa ragione, venerdì scorso, 28 Ottobre, il Deposito Pontecorvo di via Carducci radunava in occasione del concerto di Fiumani & co un entusiasta pubblico eterogeneamente diviso tra coetanei di Fede e coetanei del sottoscritto.
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Sono brividi ai primi tre accordi della title-track "Siberia". Si viene circondati dalle tenebre e dal freddo, nell'impressione di venire risucchiati per davvero al centro di un deserto irraggiungibile, e il tono di narrazione che senza trasporto emotivo dipinge l'assoluto isolamento del luogo sentenzia, Nonostante siano trascorsi 32 anni dall'uscita di questo LP, nonostante del quartetto originale non esista più nessuno se non "lo spilungone dal ciuffo pronunciato", non si avverte alcuna differenza nell'esecuzione a menadito dell'intero album che la band fiorentina nel corso di quest'anno sta regalando alle platee di Nord-Sud-Ovest-Est Belpaese e al di là dei confini alpini. Ascoltandoli suonare e vivere con il corpo e l'espressione del viso le frasi dei testi anche chi incuriosito si presenta ad un loro concerto per la prima volta si rende presto conto che a dominare sul palcoscenico si trovi un'immensa e semplice voglia matta di dedicarsi alla musica, di esaltarla e renderle merito. Di darsi anima e corpo, e tentare ogni volta se possibile una fusione o quantomento un parallelo tra le note e le parole, tra l'incedere dei ritmi e l'evolversi del racconto, tra lo zigzagante cambio di melodia e il punto morto di uno sfogo sulla carta.
Con un'intesa di squadra affiatata, i quattro componenti danno luogo ad una rivisitazione di più di trent'anni di storia dei Diaframma, dividendosi tra brani trascinanti ("Gennaio", "Asterdam" che dal vivo brilla di un vigore straordinario) a riflessioni liftate ("Labbra blu", "Oceano") che in due ore si abbattono come proiettili sul pubblico. Finita una canzone, senza fiato ne comincia subito un'altra nello stesso modo in cui produce senza pausa un concept album. E come da consuetudine, "Siberia" apre le danze alla fine chiuse da "Libra". Ma negli anni Duemila, col Terzo Millennio, anche i Diaframma non rifiutano il bis dopo la pseudo-fine del concerto, e risaltano a bordo congendandosi con "Mi sento un mostro", adottata da un pò di anni a questa parte a rappresentativa conclusione. Ma se sotto i riflettori il lavoro dei Diaframma termina tra gli applausi, dall'altro lato, accanto al bancone delle bevute, all'interno di un piccolo angolo del locale ritrovi pochi istanti dopo l'ultima canzone il batterista Lorenzo Moretto e il bassista Luca Cantasano (il chitarrista è invece Edoardo Daidone) intenti a vendere i dischi come una band indipendente seria fa.


Un'altra data del ricco e aggiornato tour "Siberia reloaded" è riuscita. Federico Fiumani saluta i supporters dopo aver messo in scena l'ennesima prova di classe della sua carriera invidiabile e mai doma, illuminata da una creatività assordante, instancabile. Vanno soltanto a lui i complimenti per aver evitato che un punto di riferimento così importante per la musica italiana scomparisse a metà degli anni '80, e sia invece assurto a nuova luce e fasti, culminati in una dose eccezionale di nuovi album dall'Ep di "Gennaio" del 1989 alla ristampa dello scorso anno de "Il ritorno dei desideri". E doverosamente non si possono non citare la vittoria del Premio Ciampi del 1995, e il filo conduttore lungo i tre decenni che ha visto Fiumani esprimere la sua vena profondamente cantautoriale, solo chitarra e voce, attraverso il Live "Confidenziale" del 1992, l'album di covers delle ballate di grandi maestri italiani intitolata "Un ricordo che vale dieci lire" del 2014 e il successivo inedito del 2015 "Buchi nell'acqua" con Piero Pelù. Nel solco della tradizione dei veri artisti, esponenti dell'arte musicale, operai testardi e umili malgrado quarant'anni di storia alle spalle.

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Immagini tratte da Pagina fb Diaframma

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3/11/2016

Il festival Musica dei Popoli 2016

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di Alice Marrani

Viviamo ogni giorno in un mondo sempre più globalizzato nel quale possiamo venire a contatto con culture anche molto lontane grazie a possibilità turistiche di qualsiasi tipo e mezzi di comunicazione molto potenti. I flussi migratori di popoli vicini e lontani sono sulle pagine dei giornali ogni giorno, sulla bocca dei politici e su quella della gente. Le tradizioni si mescolano, si scontrano e si incontrano in una società sempre più variegata, multietnica e multiculturale che da un lato va a ricercare e riscoprire le proprie radici mentre dall’altro si arricchisce e muta, volontariamente o involontariamente, fondendosi a elementi nuovi. Fondamentale rimane, oggi come in passato, la conoscenza, l’apertura alla scoperta, la curiosità che ci spinge verso ciò che non è nostro. “Destinazioni sonore” è il nome del tema del festival Musica dei Popoli del 2016, che ha al centro quelle ibridazioni sonore che derivano dal movimento migratorio, presente e passato.
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Il festival fiorentino è nato nel 1979 su iniziativa del Centro Flog per le Tradizioni Popolari con lo scopo di presentare la musica tradizionale di tutti i continenti in una prospettiva di relativismo culturale-musicale che portasse ad una pari dignità artistica le civiltà extraeuropee e quelle a noi più vicine.  Da sempre l’obiettivo è stato quello di valorizzare la musica come bene artistico e culturale. È stata la prima rassegna internazionale italiana di musica etnica e folklorica e uno dei primi festival etnomusicali al mondo. Nelle sue edizioni ha presentato grandi maestri di tradizioni sia popolari che colte, italiane, europee ed extra-europee: dal Mondo Arabo al Giappone, dall’Africa all’India. Ha mescolato concerti e performing art passando dalle tradizioni musicali africane al teatro orientale come il Kathakali del Kerala, alla divulgazione delle musiche italiane di tradizione orale come le musiche popolari di tradizione artigiana o agro-pastorali. Da sempre rappresenta dunque una finestra aperta sulla musica etnica nella sua tradizione ma anche innovazione e contaminazione, dovuta ai cambiamenti sociali, economici, politici e socioculturali.
Un’occasione, di elevato livello artistico, di unione fra cultura e intrattenimento che arriva oggi alla sua quarantunesima edizione e che unisce concerti, spettacoli e attività didattiche di formazione del pubblico di tutte le età.

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L’apertura di questa edizione è stata affidata, il 24 settembre, a Fatoumata Diawara, cantautrice che ha saputo dare, in una prospettiva africana, una nuova forma ai ritmi veloci e le melodie blues della sua ancestrale tradizione Wassoulou. Passeggiando lungo il programma si passa dal punto di riferimento della musica balcanica a Barcellona, la Barcelona Gipsy Balkan Orchestra, verso la musica irlandese con il prodigioso violino di Frankie Gavin, per poi partire per la costa caraibica della Colombia con i ritmi travolgenti di Palenque La Papayera, banda di ottoni e percussioni. La prodigiosa voce di Lisa Simone precede il duetto di arpe gallesi e senegalesi di Catrin Finch e Seckou Keita e il repertorio soul, R&B, jazz, fusion, pop, disco degli Earth Wind & Fire con Al McKay.
Il 28 ottobre è stato il turno di “Scanzonata”, una produzione originale del festival. Un viaggio fra i classici della canzone italiana degli anni Sessanta e Settanta, reinterpretati da Musica Nuda, il suggestivo connubio fra il contrabbasso di Ferruccio Spinetti e l’incredibile voce di Petra Magoni, arricchiti dalla tromba di Fabrizio Bosso in un repertorio che si è esteso da Da Dalla a Tenco, dal Tuca tuca a Non ho l’età e Guarda che luna, da Mina a Battisti con un assaggio di francese fino a I Will Survive.  


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Dopo l'arte dei dervisci rotanti il 29 e 30 ottobre rimangono gli ultimi due concerti in programma: Il Canzoniere Grecanico Salentino ed Erri De Luca domani 5 novembre e la Sercuk Orkestar l’11 novembre.
Quello che domani sera sarà sul palco della FLOG è uno spettacolo originale nel quale la parola di Erri De Luca si fonde con la musica e la danza in uno spettacolo che diventa un racconto, fra storie antiche e nuove, fra tradizione e mito. La collaborazione torna in vita dopo il grande successo di Solo Andata che ha conquistato il premio Arte e Diritti Umani 2014 di Amnesty International e la menzione di The Guardian che ha inserito il brano nella playlist delle migliori canzoni folk/world.

Per informazioni sulle prevendite: http://www.boxofficetoscana.it/eventi/concerti/3621-de-luca-canzoniere-salentino-musica-popoli-flog-firenze#.WBuEQ_nhDIV
Musica dei Popoli: http://www.musicadeipopoli.com/
Flog: http://www.flog.it/

Immagini tatte da:
immagine 01: https://www.facebook.com/musicadeipopoli/?fref=ts
immagine 02: http://www.intoscana.it/site/it/articolo/Fatoumata-Diawara-apre-a-Firenze-il-Festival-Musica-dei-Popoli/
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