Siamo agli sgoccioli di questo 2016 e fra bilanci e classifiche sbirciamo fra le uscite attese per i primi mesi del prossimo anno.
L’inaugurazione del 2017 spetta a Mannarino e i Baustelle. Sono già pronte le date del tour della band di Francesco Bianconi che partirà dopo l’uscita di L’amore e la violenza il prossimo 13 gennaio. Il nuovo album, che dalle dichiarazioni del leader si preannuncia “oscenamente pop”, contiene dodici tracce ed esce dopo tre anni dal precedente lavoro in studio, Fantasma. Lo stesso giorno uscirà Apriti Cielo, nuovo album del cantautore romano dopo una pausa di due anni dal precedente Al monte. Il disco è stato anticipato dal singolo omonimo uscito a novembre e anche per lui sono già pronte le date del tour che però non partirà prima di marzo. Il 20 gennaio invece arriva, a tre anni di distanza da Vol.3 – Il cammino di Santiago in taxi, il nuovo album di Brunori Sas. Il quarto album si intitola A casa tutto bene e sarà complesso e stratificato, un insieme musicale che prende sia i ritmi ancestrali calabresi, sia i suoni freddi della metropoli. Meno ironico e poetico affonderà le sue radici narrative nella complessità sociale attuale. Già pronte anche per lui le date del tour che partirà a febbraio. Lo stesso giorno, da un genere all’altro, potremo trovare accanto a Brunori il nuovo lavoro della coppia Fedez-J-Ax insieme a vari ospiti: Comunisti col Rolex. Il 3 febbraio, dopo un periodo di silenzio con il quale si sono congedati dall’Alaska tour, tornano anche i Fast Animals and Slow Kids con il loro Forse non è la felicità. Il quarto album si preannuncia in continuità con i precedenti ed è stato anticipato dal singolo Annabelle, uscito il 16 dicembre. Sempre il 3 febbraio in uscita un doppio cd live di Francesco de Gregori, registrato durante un concerto a Taormina lo scorso agosto. Febbraio, si sa, è il mese di Sanremo e di tutto quello che ne consegue. I partecipanti in gara scaldano la voce ma anche il nuovo disco. Atteso il ritorno di diversi artisti. Fra questi Giusy Ferreri, Marco Masini e una delle maggiori attese del prossimo anno: il primo disco solista di Samuel Romano. Prodotto da Michele Canova, due estratti di successo La risposta e La rabbia, conta varie collaborazioni, fra le quali quella con Jovanotti. I fan dei Subsonica sono già stati rassicurati: la parentesi solitaria non è un addio alla band. Per la primavera attendiamo il nuovo album di Cesare Cremonini che lo accompagnerà verso i venti anni di carriera. In uscita anche il nuovo lavoro di Levante che nel 2017 apparirà anche in libreria con il suo primo libro per Rizzoli. Non c’è ancora una data precisa per Terra, il nuovo disco firmato Le luci della centrale elettrica che hanno invece già pronto il calendario del tour in partenza da marzo. Attendiamo anche il nuovo album del Pan del Diavolo che dopo tante foto in studio hanno regalato ai fan un teaser di presentazione e quello di Lo stato sociale che è stato preannunciato da un singolo Amarsi Male e dalla data di un concerto di presentazione la prossima primavera.
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Invece che una classica top qualcosa, vi propongo una serie di album che hanno attirato la mia attenzione lungo quest’anno ormai agli sgoccioli. Una lista altamente personale e che non ha nessuna pretesa se non quella di mettere insieme dischi e autori secondo il mio gusto, anche molto differenti fra loro. Consigli o indicazioni d’ascolto, ognuno può intenderla come vuole.
Uno dei momenti più agognati e attesi del mondo musicale e non solo è la fine dell’anno, momento in cui incominciano a fioccare da ogni angolo del web o dalle pagine dei giornali le classifiche dei migliori dischi dell’anno. Un appuntamento al quale ormai nessuno sembra sottrarsi, divenuto un classico e talmente tanto atteso che, sempre più spesso, questi elenchi non aspettano neanche i giorni di Natale per essere pubblicati: non sono per niente rare, infatti, classifiche uscite verso la fine di novembre, quando ancora c’è un mese intero pieno di uscite discografiche, tanto che sarebbe interessante stilare a sua volta una graduatoria delle testate che arrivano prima al “traguardo”. Le si chiama anche top ten, giusto per usare un termine più “radio friendly” che sembra rimandare ad epoche ormai lontane in stile Top Of The Pops o Mtv, anche se oggi la graduatoria si è allargata anche ad altre posizioni facendo ormai risultare l’espressione “top ten” un’etichetta generale, un termine che si porta dietro un’aura mitica e che indicherebbe semplicemente l’atto del classificare secondo il principio che va dal migliore al peggiore (o meglio, dal migliore al buono nella stragrande maggioranza dei casi delle classifiche annuali); si va da listoni di venti o trenta titoli sino a punte di cinquanta, segno di quanto sia alquanto arduo stilare una vera e propria classifica nel panorama musicale odierno, così vario e ricco, e anche sostanzialmente inutile. ![]()
Ma al di là dell’inutilità, stilare le classifiche dei migliori questo e quello appaga profondamente sia chi le fa e sia chi ne usufruisce, fattore questo che le pone oltre un mero valore utilitaristico. Di per sé elencare ci permette di portare alla nostra coscienza ciò che c’è e ciò che non c’è, di avere ben disposti davanti oggetti che sarebbero lontani dal nostro controllo, di riempire sostanzialmente un vuoto e di dare una certa forma al caos; elencare secondo il principio del migliore e del peggiore, poi, imprime un ordine ancora più profondo, ferreo e stabile: da ciò che sta al primo posto derivano le altre realtà, e sappiamo allora qual è la forma migliore alla quale dobbiamo puntare. Le classificazioni di quest’ultimo tipo però non possono sfuggire a due fattori, ovvero che per decidere che una cosa è migliore di un’altra bisogna necessariamente azzerare ogni tipo di differenza e particolarità sussistente fra le cose, e che ogni classifica è destinata a fallire nel momento in cui vorrebbe essere la più oggettiva possibile. Il primo fattore uniforma, di fatto, la ricchezza e la varietà delle pubblicazioni, e per quanto un’artista possa essere ascritto all’interno di un genere e trovi punti di contatto con altri artisti e correnti, la sua visione musicale è personale poiché nata in contesti e da intenti particolari, a volte oscuri all’artista stesso; il secondo fattore, forse il più velleitario, vorrebbe rifarsi a principi e regole estetiche per lo più vaghi, non molto chiari, che tradiscono invece la reale natura soggettiva di queste classifiche. Giusto per rimanere all’interno dei dischi usciti quest’anno (e che troverete anche in questa pagina), come si fa a confrontare ad esempio l’ultimo degli Autechre con quello di Colin Stetson? O il testamento di Bowie, Blackstar, con gli A Tribe Called Quest o con il lavoro di Bob Previte? Si rischierebbe di fare un torto agli artisti, e non per uno stupido elitarismo che vorrebbe porre le cose su piani assolutamente diversi e incomunicabili, ma anzi proprio per il motivo contrario, perché ogni cosa è degna di essere ascoltata e apprezzata sin nei suoi minimi particolari. Una volta adottata questa prospettiva, ogni classifica che decide chi va in un determinato posto diviene superflua. E potrebbe essere anche un gioco divertente, se solo chi le stilasse non si prendesse così tanto sul serio; e ancora, potrebbero essere anche utili per scoprire qualche gruppo o artista a noi sconosciuto, se solo la stragrande maggioranza di queste classifiche non fossero fatte con lo stampino – chi segue un minimo il panorama musicale internazionale potrebbe tranquillamente fare delle previsioni verosimili senza neanche aspettare di vedere chi finirà fra i primi posti alla fine dell’anno.
Le classifiche dei migliori e dei peggiori dischi dicono di più sui gusti di chi le fa. Non ci sarebbe niente di male in ciò ma si preferisce ammantare questo fatto con il velo dorato dell’oggettività e dell’affidabilità, cose che conducono dritte dritte alla “commerciabilità” delle top ten, visto che escono in tempo per gli acquisti natalizi e attirano i più svariati lettori a suon di clickbait. Una semplice lista, all’apparenza disordinata ma affascinante proprio per questo, che non procede secondo il principio dell’elezione del migliore ma solo per la voglia di avvicinare e far coesistere elementi differenti e distanti, ha risvolti più divertenti e soprattutto non pretende di dire chi deve essere ascoltato e chi no. Una lista che riflette solo i gusti di chi la fa è un elenco mai fine a sé stesso, suscettibile di cambiamenti, orizzontale pur nel rispetto delle diverse attitudini artistiche e musicali e che sa mettere in comunicazione in maniera invisibile e misteriosa musiche, suoni, dettagli, visioni. Una classifica può portare ad una continua ansia da prestazione: la lista, come pensava il buon Umberto Eco, produce vertigine, la bellezza di “ciò che c’è”, che si cela anche in nuove scoperte al di là della lista stessa.
David Bowie - Blackstar
Praticamente acclamato come disco simbolo dell’anno e per alcuni già un classico della discografia del Duca Bianco, Blackstar trascende l’opera musicale in sé per diventare inevitabilmente altro: sublimazione del multiverso bowiano. È proprio solo dei grandi dare forma e il proprio volto alla morte, riuscendo ad essere all’altezza di essa. L’artista inglese ci è riuscito, con un disco attualissimo e che suona come un paradossale epitaffio: “Non sono morto, semplicemente non sono più qui”. Esperanza Spalding – Emily’s D+Evolution Un disco che è riuscito ad incorporare le molteplici anime di Esperanza Spalding, bassista, contrabbassista e cantante (nonché bambina prodigio che a cinque anni suonava già il violino) assai apprezzata negli States, che a questo giro dimette la sua folta capigliatura afro e adotta un look più “indie” e “alternativo”. La musica ne risente e il calderone di funky, r‘n’b, progressive e rock sforna un album dall’equilibrio esemplare, semplice e complesso, colto e popolare, suonato alla grandissima e interpretato ancora meglio. Autechre – elseq 1-5 L’ultimo mastodonte digitale del duo inglese o lo si ama o lo si odia. Elseq 1-5 non lascia spazio a facili appigli della musica elettronica, neanche a quelli propri della carriera degli Autechre stessi: un monolite oscuro venuto da una galassia lontana e aliena dove ogni suono è stato assorbito per essere integrato in questa enorme macchina anti-umana. Astratto, freddo, massivo, labirintico nella sua struttura (oltre quattro ore di durata), ma dannatamente affascinante per chi vorrà lasciarsi assorbire dai ricami elettronici che esplodono e sprizzano in ogni direzione, secondo logiche conosciute solo alle macchine. BadBadNotGood – IV Un piccolo tornado, un fulmine a ciel sereno, uno schiaffo in pieno volto: il quarto album degli sbarbatelli canadesi, jazzisti di formazione ma col cuore sempre rivolto al mondo dell’hip hop, pone in risalto tutte le capacità di songwriting del gruppo elevandole allo stesso tempo su un nuovo livello grazie agli innesti dei synth e del comparto elettronico. Analogico e digitale jammano insieme creando una musica fresca, intelligente e coinvolgente. Colin Stetson – Sorrow: A Reimagining of Gorecki’s 3rd Symphony I tre movimenti della sinfonia dei “canti lamentosi” del polacco Henryk Gorecki nascono dal dolore del singolo e di un intero popolo oppresso, in un continuo saliscendi emozionale altamente coinvolgente. Un’opera alla quale è difficile approcciarsi ma alla quale Colin Stetson, uno dei sassofonisti oggi più quotati grazie alla sua ecletticità, rende omaggio con rispetto e senza stravolgimenti essenziali, affiancando ad un piccolo nucleo orchestrale chitarre, sax, batteria e synth. Ne risulta una musica immersiva dall’intaccato fascino liturgico e sacrale, un viaggio dal volto inedito crudo, pesante, teso che non può in ogni caso lasciare indifferenti. Bob Previte – Mass Anche questo Mass è simile all’operazione di Stetson, lavorando però su un materiale differente, la Missa Sancti Jacobi di Guillaume Du Fay del XV secolo. Bob Previte, batterista, opta per un approccio pesante che mette in comunicazione le chitarre del doom e dello stoner con i canti polifonici gregoriani per mettere in scena un rituale oscuro ed altamente evocativo. L’equilibrio fra i musicisti e la completa dedizione alla materia evitano di rendere il tutto pacchiano ed indigesto, ma anzi donando alle vecchie composizioni un fascino inedito. A Tribe Called Quest – We Got It From Here… Thank you 4 Your Service L’ultimo, in tutti i sensi visto che non ce ne saranno altri, disco degli ATCQ arriva in punta di piedi, dopo diciotto anni di silenzio discografico e, come per magia, mette in riga un’intera scena. E non lo fa imponendosi come tanti altri dinosauri musicali potrebbero fare senza nemmeno impegnarsi tanto, o inseguendo l’ultima moda abdicando alla propria identità: lo fa ribadendo uno stile che è solo degli A Tribe Called Quest. Contemporaneo ma dal sapore vintage, efficace, comunicativo, musicalmente ricco, il rap del gruppo vola alto sopra la scena e dialogando con i vecchi capolavori. Dalek – Asphalt For Eden Dai classici ancora vigorosi, ai contemporanei come i Dalek che sanno ritrasformare quella vecchia scuola. Vedere fra i primi posti delle classifiche lavori mediocri come quelli di Beyoncé o Kanye West soprattutto perché il 2016 è stato un anno ricco di uscite in ambito black, con tutto il contesto socio-politico nel quale si inserivano a dare a questi lavori ancora più valenza, fa abbastanza pensare su quanto il potere dell’immagine prevalga a discapito della proposta musicale. Ogni album dei Dalek esprime un passo a volte evolutivo, in ogni caso sempre altamente personale e caratteristico per tutta la scena rap più sperimentale. Non fa eccezione Asphalt For Eden, che con il suo mood ipnotico, liquido e metropolitano e uno dei dischi più interessanti dell’anno, insieme ad altri compagni di versi quali Atrocity Exhibition di Danny Brown e quel diario personalissimo da seduta psicanalitica che è Blonde di Frank Ocean. Immagine tratta da: michaeljarmer.files.wordpress.com 23/12/2016 Da Mantova a Catania, la musica protagonista nelle piazze italiane la notte del 31 DicembreRead Now
Come da tradizione, le piazze italiane si preparano ad accogliere l'anno nuovo affidandosi al linguaggio condiviso della musica. Da Mantova a Catania, sono tanti i concerti gratuiti di artisti principalmente nostrani (e questa non può che essere una nota positiva) che animeranno la notte di San Silvestro nella speranza che l'anticiclone annunciato per quell'occasione possa essere clemente, perlomeno nelle "ore calde" dei primi festeggiamenti. Noi del Termopolio cercheremo di segnalarvi gli eventi più interessanti procedendo con ordine da Nord verso Sud con il proposito di risolvere l'angustioso dilemma del "cosa fare l'ultimo dell'anno" grazie alla buona musica.
Partendo dal Nord Italia dunque, Daniele Silvestri e gli Acrobati invaderanno Piazza Sordello a Mantova con il loro sound trascinante sound funk. Piazza Duomo a Milano sarà invece teatro dell'atteso live di Mario Biondi, il cantante soul catanese conosciuto in tutto il mondo grazie alla sua voce calda che richiama grandi interpreti statunitensi del genere. Sul palco meneghino ci sarà spazio anche per il pop di Annalisa, la trentunenne artista savonese protagonista all'ultimo Festival di Sanremo con il brano "Il Diluvio Universale". Proprio nella città ligure si svolgerà a Piazzale Lorenzo Vesco un importante appuntamento dal vivo con i tanti successi di Enrico Ruggeri accompagnato dai ritmi popolari della Med Free Orkestra, ensemble multietnica composta da sedici musicisti provenienti dai cinque continenti. A Genova si segnala all'interno della suggestiva cornice del Porto Antico l'opportunità di un revival della musica dance anni '90 – 2000 in compagnia di Prezioso e Marvin, mentre a Torino invece sarà un padrone di casa a scortare il pubblico di Piazza San Carlo alla volta del 2017. Stiamo parlando di Samuel Romano, noti a più semplicemente come Samuel, frontman dei Subsonica, mentre dopo la mezzanotte entreranno in azione i Planet Funk, progetto costituito da djs napoletani che ricorderete per le hits "The Switch", "Who said" e tante altre. Ancora a Torino, per la precisione a Moncalieri, Piazza Vittorio Emanuele vedrà l'esibizione grintosa e armoniosa di Irene Grandi, la cantante fiorentina dall'inconfondibile vena rock.
Spostandoci in Centro Italia, la notizia bomba viene dal Cortile della Pilotta a Parma che si prepara ad accogliere il grande show a spasso tra hip-hop ed elettronica ad opera di Fatboy Slim, il dj e produttore britannico giunto a vent'anni di carriera. Sempre in Emilia Romagna, particolarmente ricca la notte del 31 Dicembre in quel di Rimini, laddove se in Piazzale Fellini sarà protagonista la musica italiana con Francesco Renga, il Cantiere del Teatro Galli dalle 00-30 porterà alla console una special guest di altissimo livello che risponde al nome di Skin. Anche Firenze offrirà ai suoi cittadini e turisti più di una scelta a disposizione per concludere l'anno nel migliore dei modi. Sul palco di Piazzale Michelangelo salirà infatti Marco Mengoni, uno degli interpreti più amati della scena nazionale, mentre al Teatro dell'Opera Mika metterà in scena il suo spettacolo "Sinfonia Pop" nella doppia data 30-31 Dicembre. Spostandoci nelle Marche, a Civitanova Gigi D'alessio dirigerà un lungo concerto in compagnia di numerosi ospiti. A Pescara Piazza della Rinascita si vestirà di un abito rock al seguito dei Negrita, la band aretina recentemente insignita del Premio "De Andrè" alla carriera. Piazza Italia a Sassari seguirà i ritmi jazz e retrò del talentuoso Raphael Gualazzi, mentre da Roma non sono giunti ancora comunicati ufficiali riguardanti il consueto concerto del Circo Massimo. Nelle ultime ore è rimbalzata una clamorosa indiscrezione secondo la quale lo spettacolo sarebbe saltato a causa del ritiro improvviso da parte della ditta incaricata della sua organizzazione.
Al Sud, Piazza del Plebiscito a Napoli offrirà un vasto programma che comprenderà un commosso omaggio a Pino Daniele a due anni dalla sua scomparsa, la successiva esibizione dei Tiromancino, per concludere i festeggiamenti con Clementino e gli Stadio. Nella vicina Salerno, la location di Piazza Amendola sarà attrezzata per un grande concerto gratuito di Antonello Venditti, durante il quale parteciperà anche l'attrice Claudia Gerini. Spostandoci in Puglia, Piazza della Libertà a Bari ospiterà una tappa speciale del tour "Communisti col rolex" della premiata ditta J-Ax – Fedez. A Catania infine la regina della notte sarà la padrona di casa Carmen Consoli, spalleggiata esclusivamente per l'occasione dall'Orchestra popolare della Notte della Taranta.
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Andrà tutto bene conclude il tutto in una passeggiata nelle vie del centro, dove la rivoluzione scoppia fra un aperitivo e i saldi di fine stagione, dove i cantanti sono bugiardi e nessuno chiede più come stai.
“quello che dalla musica la gente vuole / è sentirsi dire che andrà sempre tutto bene / e che l’amore vince ancora / che c’è tutto da scoprire / che la vita va vissuta nella gioia e nel dolore / ed è tutto quanto vero / hanno solo che ragione / siamo noi quelli sbagliati / che hanno sempre da ridire” Una coda strumentale di cinque minuti ci porta al termine di questa guerra dalle quale non abbiamo risposte ma solo punti di domanda. Sicuramente questo non appartiene al genere di musica che la gente ascolta per sentirsi dire che va tutto bene. Dopo il fragore di queste fotografie della realtà sociale attuale il tutto si chiude con un sussurro ripetuto: “ora fate silenzio tutti, state zitti”. Immagini tratte da: Immagine 01: https://www.facebook.com/events/179719215801071/ Immagine 02: https://www.youtube.com/watch?v=YOVqgN-1cwM
Per la seconda collaborazione con Tom Ford, il compositore polacco Abel Korzeniowski imbastisce per Animali Notturni una colonna sonora sontuosa ed elegante ma percorsa da sottili brividi inquieti che fanno piombare continuamente l’ascoltatore nel mondo intimo e fragile dei protagonisti.
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La musica di Abel Korzeniowski per Animali Notturni, il nuovo film scritto e diretto dallo stilista Tom Ford, è una musica che va assaporata, lasciata crescere lentamente dentro di noi e alla fine abbandonata. Può sembrare paradossale, ma bisogna subito dire che in questo caso l’abbandono non sarebbe dettato certamente dalla sua scarsa qualità, ma se mai proprio per il motivo contrario. Musica come quella custodita nei solchi e fra le immagini della pellicola del regista americano, qui alla sua seconda prova dopo A Single Man, quest’ultimo musicato sempre da Korzeniowski, può far male, e questo a causa della sua incredibile capacità di andare a scavare a fondo nelle emozioni e riuscire a far vibrare le corde della malinconia, tristezza, inquietudine e abbandono. Se non ben gestite, musiche come queste si avvolgono come una seconda pelle scivolando dentro ascolto dopo ascolto, senza neanche la possibilità di accorgersene. E, alla fine, fare male.
Chi ha visto la pellicola, un’opera molto personale e capace di mantenere un solido equilibrio fra le sue parti narrative a scatole cinesi, avrà notato probabilmente che il forte trasporto emotivo della/delle vicenda/vicende era amplificato dal commento sonoro che a volte faceva da cerniera fra le storie, traghettando da una scena a un’altra, mentre in altre accompagnava in maniera ottimale la narrazione. In pochi casi i brani di Korzeniowski riescono a diventare indipendenti dalle immagini sullo schermo, ma quando accade ecco allora che tutto il potenziale della sua musica erompe, imponendosi e riempiendo lo spazio circostante: perché gli archi dell’orchestra londinese con la quale il compositore ha lavorato sembrano quasi costantemente allargare le loro braccia in un movimento arioso e solenne, come vuole la lezione di Bernard Herrmann, Jerry Goldsmith e tanti altri compositori di impronta classica per il cinema. Sono tre i momenti topici della colonna sonora di Animali Notturni che riescono ad andare oltre lo schermo, come mai Korzeniowski era forse riuscito a fare in altri suoi lavori: Wayward Sisters, Mothers e Table For Two. In questi brani, la carica drammatica che ha sempre caratterizzato l’opera del polacco è molto più presente e accentuata grazie al lavoro sulle melodie che è riuscito a bilanciare la particolare atmosfera voluta da Ford, e un gusto melodico emotivamente profondo e mai stucchevole. A mo di esempio si potrebbe prendere il terzo dei brani sopra citati, dove da metà durata fa il suo ingresso il pianoforte che, giocando e rimodellando il tema principale, si incontra con l’orchestra in un crescendo emotivo di forte impatto, capace non solo di saper caratterizzare situazioni e personaggi del film ma soprattutto di dare la possibilità all’ascoltatore di ricreare dentro di sé le sue personali immagini emotive, che possono andare da una profonda malinconia ad una luminosa tenerezza. Sfido chiunque a non lasciarsi coinvolgere da una composizione come questa. Il resto della scaletta si muove su queste stesse coordinate, con una caratterizzazione leggermente meno forte ma che non intacca minimamente l’andamento e l’unità generale della colonna sonora: Exhibition ha un’atmosfera sospesa e leggermente ansiogena grazie ai sospiri di Amy Adams che accompagnano quasi tutto il pezzo, un piccolo grande brano che poteva dispiegare tutto il suo potenziale se solo si fosse sviluppato su un minutaggio più lungo; o ancora, la sommessa desolazione dipinta dagli archi in The Field, dove gli spettri in bianco e nero di Hitchcock e Herrmann si aggirano silenziosi, va a braccetto con l’atmosfera noir di Revenge e con la melodia del piano sorretta dagli archi pizzicati di A Solitary Woman, in cui sembra di sentire echi alla Michael Nyman. Elegante, sontuosa, delicata, drammatica, semplice e grandiosa insieme, la colonna sonora di Korzeniowski procede per contrasti emotivi, prima ancora che musicali. Una musica che è la trasposizione sonora dello sguardo ammaliante, ma a tratti gelido e distaccato, di Amy Adams. E questo perché perso in sé stesso, dietro ai rimpianti del passato che hanno causato ferite profonde e che reclamano ora la voglia di evadere da una vita che non si sente più propria. Finalmente, una volta tanto nel mondo del cinema mainstream, una musica poco consolatoria per un film molto poco consolatorio.
Abel Korzeniowski – Nocturnal Animals (Original Motion Pictures Soundtracks) (Silva Screen Records, 2016)
Tracklist:
Immagini tratte da: indiewire.com Domani sera a partire dalle 21-30 il palco del Lumiere di Pisa vivrà dei battiti e dell'energia travolgente dei 99 Posse, la storica band partenopea che dal 1991 anima la realtà musicale italiana rivelando uno straordinario impatto tanto per i contenuti dei testi quanto per le evoluzioni musicali vissute. Prima la cavalcata poderosa avvenuta negli anni Novanta con l'album "Curre curre guagliò" del 1993, L'"Incredibile Opposizione Tour" in compagnia dei Bisca nell'anno successivo e gli ottimi risultati raggiunti con i dischi "Cerco tiempo" e "Corto circuito". Poi la separazione negli anni 2000, lo scioglimento ufficiale del gruppo nel 2005, e la reunion celebrata nel 2009 ripartendo dalla loro Napoli, che ha riportato in scena il trio composto da Luca "O Zulu" Persico (voce), Marco "Kaya Pezz8" Messina (campionatore e dub) e Massimo "JRM" Iovine (basso), ai quali si sono aggiunte le tastiere di Sascha Ricci. "Cattivi guagliuni" del 2011 ha segnato la vigorosa ricomparsa dello stile posse, "Curre curre guagliò 2.0" del 2014 la rivisitazione del passato mettendo in mostra un metalinguaggio che con "Il tempo. Le parole. Il suono." di quest'anno si è espresso in tutta la sua forza. Immagine tratta da www.repubblica.it
La Madama Butterfly di Riccardo Chailly ha aperto, il 7 dicembre, la nuova stagione del Teatro della Scala.
Lo scintillio degli abiti del pubblico vip è stato un po’ meno presente quest’anno, causa la poca presenza della politica e del Presidente della Repubblica Mattarella che ha preferito lasciare un messaggio per scusarsi della sua assenza. Un clima un po’ meno da red carpet dunque per la serata che recupera la prima versione dell’opera di Puccini, ampiamente fischiata in quello stesso teatro nel febbraio del 1904, tre mesi prima della versione modificata e presentata a Brescia che ne fece una delle opere più famose al mondo.
Madama Butterfly è la storia drammatica di un amore tormentato e dal destino tragico, ambientata nella condanna a una civiltà occidentale offuscata da principi di cinica superiorità. È fortissimo e centrale in quest’opera il confronto-scontro fra culture diverse e opposte. America e Giappone si trovano ad unirsi in matrimonio. Da un lato F.B. Pinkerton, tenente della marina degli Stati Uniti, che prende in moglie una quindicenne giapponese con un contratto rinnovabile mensilmente basato sul pagamento di cento yen. “La comperai per novecento novantanove anni, con facoltà, ogni mese, di rescindere i patti.” Mentre si sposa progetta già mentalmente il matrimonio con una “vera moglie americana”, valutando gli usi e i costumi del paese orientale, sciocchi, buffi e curiosi. Basti pensare che decide di chiamare i giapponesi “musi”. Non è certo il massimo del romanticismo e nemmeno dell’accoglienza multiculturale, cosa che attualmente non è poi così inconsueta, purtroppo.
Dall’altra la “dolce Butterfly”, Cio-Cio-San. Decide, non solo di sposare Pinkerton, ma di abbandonare le sue tradizioni e la sua religione convertendosi al cristianesimo, con il risultato di essere rinnegata dalla sua gente, destinata all’abbandono e ad una snervante e fedele attesa. Una volta sposata, infatti, aspetta per tre anni con un’incredibile dedizione il ritorno del marito dall’America, andando contro a chi la deride perché la pensa un’illusa, scrutando con il cannocchiale ogni barca che attracca al porto in cerca di quella agognata bandiera a stelle e strisce, in compagnia della fedele ancella, Suzuki. (Qui una delle arie più famose dell’opera Un bel dì vedremo) Nemmeno il console americano Sharpless, alla vista di suo figlio, biondo con gli occhi azzurri, cercando di leggerle una lettera di Pinkerton riesce a dirle la dura verità. Dovrà vederla da sola, incarnata nella bella moglie statunitense arrivata nella sua casa a chiederle in custodia il figlioletto. Sarà così, lasciando il frutto di quell’amore ingannevole fra le braccia della patria americana, che deciderà di compiere l’ultimo atto verso quell’amaro destino che aveva colpito anche il padre. “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”. L’occidente si mescola all’oriente anche musicalmente, in tutti quei tratti che richiamano il Giappone disseminati con finalità drammaturgiche nella partitura, così come gli accenni all’inno americano. Un’opera moderna, nella musica che sorregge la vicenda portandoci dentro la trama con richiami e rimandi, accompagnando quell’amore così struggente e allo stesso tempo così drammaticamente destinato a finire nel più tragico dei modi, così come nei soggetti, nella denuncia sociale e nel protagonismo femminile.
La versione primaria scelta dal direttore Riccardo Chailly ha ricevuto tredici minuti di applausi. Grande entusiasmo è stato donato alla Butterfly di Maria José Siri e allo Sharpless del baritono Carlos Alvarez. Apprezzata invece la bravura vocale ed attoriale di Annalisa Stroppa in Suzuki. Più tiepidi i consensi per il tenore Hymel che ha interpretato Pinkerton e per il regista, Alvis Hermanis, per imprecisioni il primo e per l’eccessiva tradizione il secondo. Le scene, soprattutto nel primo tempo, un po’ troppo abitate da figure in sfarzosi costumi dagli atteggiamenti plastici, quasi irreali marionette, sicuramente poco innovativo e certamente lontano dall’essere moderno. Lascia così un sapore di ambivalenza fra l’innovazione della riscoperta della versione originaria dell’opera e la prudenza tradizionale della regia. Un’apertura segnata da una spinta verso la sfida ai fischi da un lato e la paura di osare troppo dall’altro.
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Ascoltando "Ho hey", successo clamoroso che li ha portati a vendere due milioni e mezzo di copie in tutto il mondo con l'album omonimo d'esordio, sembra di ritrovarsi immersi tra i fumi e i whiskeys di un pub di Dublino o dintorni. Niente di tutto ciò. Ancora il singolo successivo, "Stubborn Love" (altra grande hit), lascia intendere una derivazione irlandese per i The Lumineers, ma nulla di tutto ciò corrisponde alla realtà, bensì ad un rapido e scorretto abbaglio. The Lumineers infatti non ripropongono soltanto una nuova ventata di folk sull'onda di una splendida rinascita per questo genere grazie alle produzioni di altre bands anglosassoni come gli Of Monsters and Men, Mumford & Sons, The Strumbellas su tutti. Non soltanto questo quantomeno. C'è rock e ritmi decisi, toni entusiastici di scoperta giovanile, ballate vibranti perfette per essere eseguite in strada a capo di una parata concepite grazie all'attività da buskers (i cantautori di strada per l'appunto) più che decennale che li contraddistingue. Uno spettacolo vivo, trascinante, da brindisi impetuosi, soprattutto dal vivo come ben ricordano ad esempio qui in Italia i fans che li accolsero al Pistoia Blues del 2014. Adesso, dopo quattro anni di tour da un emisfero all'altro, l'ansia dei primi spettacoli soprattutto per il frontman, e il ritiro in sei mesi in un cottage eremitico per la registrazione, i The Lumineers celebrano un distacco ulteriore dall'etichetta maldestra di folksingers e basta manifestando attraverso il secondo album "Cleopatra" un'espressa volontà di maturità e avvicinamento ad un pop votato all'introspezione. Partiamo dall'origine dei componenti del gruppo. Il cantante Wesley Schultz e il batterista Jeremiah Fraites, amici di lunga data cresciuti a Ramsey, sobborgo a sud di New York, dopo aver militato in altre formazioni decidono di trasferirsi nel più economico Colorado, e per la precisione a Denver, laddove assoldano una violoncellista, Neyla Pekarek, insieme alla quale compongono lo stabile trio dei The Lumineers. Dal 2005 al 2011, anno della svolta con il singolo "Ho Hey", il loro folk-rock è passato dai locali con a stento un centinaio di spettatori alle platee oceaniche di Glastonbury, permettendo ai musicisti di affinare le loro doti e in particolar modo a Wesley Schultz di dedicarsi alla scrittura di testi da un contenuto maggiormente oscuro e riflessivo. "Cleopatra" consta di 11 brani che non superano mai i quattro minuti, con il risultato di stringare in appena mezzora di ascolto storie vissute da personalità differenti ma unite da un'aria di rimorso forte, da una tristezza e caos interiore dominanti che denotano una netta separazione dai toni più ottimistici del lavoro precedente. Sono i ritratti femminili, attinti dalla letteratura ("Ophelia") e dalla storia ("Cleopatra", title track che in copertina mostra la regina del cinema muto di inizio secolo Theda Bara nei panni della tormentata sovrana egizia), o semplicemente inventati di sana pianta ("Angela") a racchiudere nella prima metà dell'album la profondità di pensieri che vanno molto spesso a ritroso, perchè ritornati alla memoria in un attimo di stasi quando però si è fatto troppo tardi. Ma attenzione. Non parliamo delle solite crisi di rimpianto buoniste, che mettono in risalto lo smarrimento di un amore per colpa degli altri o della sorte avversa. Come la Cleopatra del I secolo a.C., la sua versione moderna vive nella perfetta consapevolezza di desiderare di far fuori la moglie dell'uomo che ama, di provar goduria nell'essere impura, mentre Ofelia cade nella rete della febbre della gloria sotto i riflettori mettendo da parte tutto il resto. Bontà e cattiveria fanno a cazzotti all'interno del corpo di queste donne, finendo per arrendersi agli errori e spegnendosi con una morte solitaria e di rimpianto. La morte diventa una presenza cruciale, alla quale la conclusione dei racconti arriva sempre, come in "Long way from home" che descrive la perdita dolorosa da parte della voce narrante del compagno di fuga dalla casa natale, e con essa dal peso della famiglia e dal confronto insoluto con la fede. Se l'istituzione della Chiesa è presentata in una dimensione oppressiva e integralista da cui occorre scappare per poter finalmente vivere in libertà il proprio tempo come in "Sleep on the floor", d'altra parte il legame diretto con Dio, il bisogno di pregarsi per chi se ne è andato o si è tradito, e la ricerca di una chiarezza spirituale si addensano negli animi dei personaggi senza rappresentare però un traguardo finale da raggiungere, bensì una componente effettiva della vita da non poter trascurare o annullare. Menzione speciale merita la bellissima "Where the skies are blue", che mette in scena l'esaltazione dei pregi di una madre per bocca del figlio, e di legame familiare, questa volta tra un padre e un figlio, parla "Gun song" in un flashback che porta il protagonista all'infanzia e ad un ricordo del suo genitore. Temi cupi e l'insofferenza ai pregiudizi della società animano altre canzoni, tra cui spiccano "My eyes" e la conclusiva "White lie". La calma solenne, il rifugio momentaneo nella riflessione espressi dai testi di Wesley Scultz trovano nella musica un partner attivo che produce un affievolimento crescente della strumentazione, quasi come a segnare un lento accompagnamento del pubblico dal folk dei primi due brani derivato dal disco d'esordio ad un'innovativa dimensione pop, acustica, intimistica. L'atmosfera da stornello, il canto collettivo e gli stessi cori, elemento caratterizzante de "The Lumineers", cedono il posto agli assoli di pianoforte, agli intrecci della voce con la chitarra, all' attenuarsi del suono del violoncello da parte di Neyla Pekarek. Tanto i contenuti, quanto la forma, giungono dunque ad obbedire alla necessità da parte dei The Lumineers di trasmettere con "Cleopatra" un unico centrale messaggio, ossia quello di non voler rimanere ancorati ai fasti di "Ho hey", all'indie-folk disimpegnato, ed essere di conseguenza confinati ad una determinata etichetta. "Cleopatra" costituisce senza dubbio un rischio, ma un rischio calcolato con consapevolezza, una transizione indispensabile per non porsi dei limiti. Immagini tratte da: Immagine 1 da www.rollingstone.it Immagine 2 da www.nytimes.com 2/12/2016 METAL FOR THE MASSES, ovvero il mestiere secondo i nuovi album di Korn, Rob Zombie, Dark Tranquillity, In Flames e Metallica – Pt.2Read Now
Nella prima parte di questa disamina si è tentato di comprendere l’importanza della conoscenza del mestiere e dei suoi trucchi: che valore ha e che posto occupa all’interno del mondo di un musicista e quanto esso sia funzionale in un’ottica prettamente pop. Continuiamo adesso con i tre nuovi album di Dark Tranquillity, In Flames e Metallica.
In musica, quanto più ci si inoltra in un ambito così detto “estremo”, sembra quasi che la conoscenza dei trucchi del mestiere venga meno, lasciando posto invece ad una maggiore libertà compositiva e sonora. Quasi in barba a ciò che renderebbe una musica più accattivante per una larga parte di ascoltatori, l’ambito estremo sembra poco curante di alcuni, se non di molti, dei vincoli che regolano il fare musica: ecco allora che il suono si fa più duro o più impalpabile, le composizioni indugiano in ripetizioni ossessive o in strutture continuamente mutevoli, si tende al rumore e alla saturazione o al silenzio e alla sottrazione di suoni. Anche la figura stessa di “mestierante” sembra apparentemente lontana dagli ambiti più estremi e sperimentali, proprio perché secondo questi ultimi “conoscere il mestiere” coinciderebbe con un appiattimento espressivo e un formalismo dettato da regole assai rigide. Ma il tempo ha man mano smentito quest’idea rendendola solo un’illusione, visto che questi modi di approcciarsi alla musica hanno sviluppato alla fine le loro regole e fatto emergere nuovi mestieranti. Non di rado, inoltre, il mondo della musica più all’avanguardia si è incrociato con quella pop e più propriamente commerciale, con risultati eccellenti e ormai entrati nella storia (vedasi ad esempio alla voce Brian Eno). Il metal non è rimasto naturalmente immune a questo processo ed anche le sue frange più estreme ed oltranziste come il death metal e il black metal hanno sviluppato nel tempo quelli che si potrebbero definire dei “topos musicali”, elementi ricorrenti che li contraddistinguono e che fanno parte del bagaglio di ogni mestierante dell’estremo. L’ibridazione di questi elementi tipici si sono innestati su quelli della canzone della musica leggera, ed è interessante notare come due mondi apparentemente lontani siano riusciti a congiungersi. Capacità del metal di sapersi trasformare o del pop che riesce a fagocitare qualunque forma, come si era accennato nella prima parte dell’articolo? ![]()
Se si guarda agli Dark Tranquillity e alla loro ultima opera, “Atoma”, verrebbe da considerare più la prima opzione, mentre se si ascolto il nuovo album degli In Flames, “Battles”, si tenderebbe più per la secoda: due modi di concepire il “Gothenburg sound” (la città natale delle band) differenti, ma solo all’apparenza opposti, visto che sono stati capaci di appropriarsi di elementi della musica pop, primo fra tutti una forte accentuazione della melodia, sia vocale nei ritornelli che nelle parti strumentali. Non è un caso, forse, che entrambi (anche se maggiormente gli In Flames) si siano sempre apertamente ispirati agli Iron Maiden, che non sono esattamente la band più estrema in circolazione. Se il terreno sul quale i due gruppi si muovono è comune, divergente è il modo di usare il mestiere: i Dark Tranquillity si muovono ancora in un ambito riconducibile alla musica estrema (termine ormai vuoto e che ha valore solo come mera indicazione) mentre gli In Flames hanno intrapreso una strada che grazie agli ultimi due o tre dischi li ha condotti completamente su altri lidi, più vicini al rock che al metal. E se il mestiere è certamente pane quotidiano di entrambi, alla fine quello che emerge è la qualità, questa si opposta, che contraddistingue in maniera netta “Atoma” da una parte e “Battles” dall’altra. La prima opera va ad affiancare le due precedenti “Construct” e “We Are The Void” in un ipotetico trittico che già sei anni fa aveva destabilizzato i fan dei Dark Tranquillity, inaugurando una fase in cui l’estremismo sonoro e l’aggressività venivano limate non tanto per addolcire il tutto ma più che altro per far emergere ancora di più l’elemento caratteristico del gruppo: la sua malinconia, quel fondo di disperazione che è sempre stato presente ma a volte un po’ latente perché sommerso dai watt delle chitarre e dalle ritmiche sostenute della batteria. “Atoma” sembra essere il capitolo conclusivo di questa fase, dimostrandosi quello maggiormente riuscito dei tre, nonostante già “Construct” avesse alzato di molto l’asticella della qualità dei pezzi rispetto al suo disco precedente. In “Atoma”, i Dark Tranquillity mettono in scena tutta la loro conoscenza del mestiere in ambito death metal svedese senza mai scendere a patti per rinunciare alla loro identità: un’identità che mai forse come ora fa intravedere i suoi contorni chiaroscurali, gotici e ancora più decadenti perché diretti a quella parte dell’anima dove risiede la nostra fragilità e la voglia di isolamento. In questo quadro, la voce unica di Mikael Stanne ricopre un ruolo fondamentale soprattutto durante le sue parti pulite, che seppur quantitativamente minori rispetto a quelle in growl, assumono la stessa identica importanza: l’una graffia e ferisce, l’altra soffre e consola. Difficile citare una canzone rispetto ad un’altra visto che “Atoma” mantiene integro il suo profilo qualitativo dall’inizio alla fine, senza evidenti cali; forse uno dei singoli, Forward Momentum potrebbe meglio descrivere l’aura gotica del disco ma si rischierebbe di fare torto ad un disco che non vive di singoli attimi ma che pretende invece di essere ascoltato dall’inizio alla fine, senza rinunciare comunque al gusto di affezionarsi ad un brano anziché ad un altro. I Dark Tranquillity potrebbero tranquillamente passare all’”altra sponda”, raggiungere un pubblico molto più vasto di quello del metal, semplificando ancora di più le melodie, abbandonando il growl, appiattendo la tensione delle loro atmosfere. Ne avrebbero tutte le capacità e anche, c’è da dire, la facoltà visto il meritato successo per una carriera sempre all’altezza. Ma non sembra questo il loro obiettivo e se ancora a distanza di venticinque anni non è stato raggiunto allora significa solo una cosa: che vogliono creare musica nella loro maniera, subordinando il mestiere all’espressività.
![]() Cosa che invece non si può purtroppo dire dei loro amici In Flames. E attenzione, qui non si fa un discorso volto a criticare il netto cambio di genere del quintetto: a parere di chi scrive, la band ha sempre mantenuto un buon livello qualitativo, anche negli album più criticati dai fan, quelli che li hanno visti abbandonare sempre più la veste di act del death metal melodico per abbracciare un songwriting molto meno pesante e quindi più mainstream. Ad ogni uscita targata In Flames è diventato all’ordine del giorno leggere pesanti critiche che diventano il più delle volte insulti a tutto ciò che riguarda la band: esternazioni che lasciano il tempo che trovano visto che si basano non tanto su quello che effettivamente gli In Flames propongono ma su quello che, nella mente dei fan, dovrebbero proporre. Nonostante la considerazione negativa acquisita, il gruppo però ha sempre mantenuto ostinatamente la sua strada senza badare troppo a queste stupidaggini, con risultati magari altalenanti ma suonando sempre quello che più ha voluto; che la musica prodotta sia il frutto di una cosciente operazione di marketing o meno questo non ha importanza ai fini della comprensione della qualità del prodotto che gli In Flames hanno di volta in volta partorito. Ebbene, dopo questa doverosa introduzione, bisogna ammettere che “Battles” non è un prodotto propriamente riuscito. Rispetto al precedente “Siren Charms” col quale condivide un’attitudine più “rock”, quest’ultimo disco suona nella maniera più commercialmente negativa possibile. Che significa: melodie finalizzate solo ed esclusivamente ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore senza veicolare un proprio punto di vista, una propria visione artistica caratteristica. E di fatti, passati i primi due brani Drained e il singolo The End che hanno il merito di introdurre il disco con un bel tiro, già da Like Sand le cose iniziano ad ammorbidirsi per poi appiattirsi completamente nel corso dei restanti pezzi. Il problema non risiede tanto nella paraculagine del disco, scritto indubbiamente per ampliare ancora di più la propria fetta di pubblico soprattutto in territorio americano (e il disco suona molto “americano”, sia nel songwriting che nella produzione curata per la prima volta negli States, a Los Angeles), né tanto meno in alcune scelte in sede di scrittura come le tanto criticate voci infantili che spunterebbero in rari episodi e che tanto scandalo hanno seminato: no, molto più semplicemente “Battles” non ha energia né tiro, e questo è sicuramente un punto a sfavore per un disco, metal o pop rock che sia. Il problema principale risiede nel fatto che gli In Flames hanno subordinato ciò che avevano da dire con gli strumenti del rock e del metal più melodico a loro ormai famigliari al mestiere. Che il gruppo avesse abdicato da tempo alla sua identità si era capito, ma non tanto da arrivare al punto da sacrificare il suo gusto melodico e l’energia necessaria per evitare di rendere un disco un semplice compitino, fatto per di più in maniera svogliata. “Siren Charms” da questo punto di vista è di gran lunga più coinvolgente ed anche meglio concepito, “Battles” invece, pur non essendo un brutto disco, è anonimo, cosa ben peggiore. Probabilmente farà felici solo chi da un disco non pretende più di tanto visto che si ritroverà fra le mani un prodotto abbastanza anonimo e prevedibile in ogni singola nota, dall’inizio alla fine. Forse è arrivata l’ora anche per i fan di Ligabue e Vasco Rossi di avvicinarsi al death metal melodico dopo essere passati da Metallica ed Iron Maiden: “Battles” può essere un buon passaporto, peccato però che sia testimonianza non tanto di un gruppo “venduto” ma di alcuni musicisti che non sanno approcciarsi ad una materia complessa come la musica pop. ![]() Il pubblico che ascolta i Metallica oggi è lo stesso che per l’appunto ascolta anche Ligabue, Vasco, Iron Maiden, Ac/Dc, Kiss, Queen, legge (qualche volta) Rolling Stones, va più agli Hard Rock Cafè che ai concerti, alza le corna con la lingua di fuori credendo (ma fino a che punto) che il rock “non morirà mai perché è la musica più trasgressiva del mondo”. Peccato che i Metallica 2.0 siano la testimonianza dell’esatto contrario, un lungo funerale rock che dura almeno dall’inizio del nuovo secolo. Il fatto che si sia usata maggiormente la parola “rock” in un articolo che vorrebbe parlare di metal la dice lunga, ma i Metallica ormai sono questo, sono “rock” nel senso più ampio possibile e non solo strettamente musicale. Principalmente, diciamo che il quartetto californiano è “rock” in un senso che vorrebbe definirli essenzialmente come icone entrate nell’immaginario collettivo e quindi pop. E nell’immaginario collettivo non sono entrati solo loro ma tutto il mondo dell’heavy metal, che chi non segue il genere proprio come fa il pubblico generalista nominato all’inizio identifica esclusivamente con quello statunitense, ignorando tutto il resto. Il thrash metal poi si adatta abbastanza bene a questa operazione semplificante: estremo si, quindi ribelle, ma non tanto da spaventare come potrebbe fare il death o il black metal, con quell’aria scazzona, punk e festaiola che bene o male quasi ogni gruppo thrash americano si porta dietro; in questi ultimi anni di rievocazione totale o parziale degli anni ’80 nella musica e nel cinema, poi, capita con un tempismo perfetto. In base a queste considerazioni, un nuovo album dei Metallica non va forse giudicato esclusivamente da un punto di vista musicale ma più che altro da ciò che rappresenta per il nostro immaginario popolare. E da quest’ultimo punto di vista, “Hardwired…to Self-Destruct” assolve egregiamente il suo compito, ovvero rinfocola il mito dell’heavy metal, tirandolo a lucido cercando di dargli una patina scintillante da musica che appunto “non morirà mai perché è la musica più trasgressiva del mondo”. I Metallica, nel nuovo millennio, servono essenzialmente a questo, a lubrificare la macchina generatrice di miti con cui poi il mercato si alimenta e le frasi di corredo della band come quelle che vorrebbero il nuovo disco come un agognato ritorno alle origini sono funzionali all’intero meccanismo: i fan di vecchia data e gli estimatori si sentono rincuorati mentre tutti gli altri possono continuare a vivere adorando il totem della “musica più trasgressiva del mondo”. Su tutto ciò, ogni altra considerazione che riguardi l’aspetto prettamente musicale non incide più di tanto ed è anzi completamente subordinata. Perché alla fin fine sarebbe troppo facile smontare un disco come “Hardwired…to Self-Destruct”, visto che è la copia sbiadita e sfiorita di tutto quello che i Metallica hanno fatto in più di trent’anni di carriera, da “Kill’em All” a “Load” e “Reload”. Di certo il mestiere non li ha mai abbandonati, consentendoli di imbastire questo grande spettacolo in due atti finalizzato ad assemblare riff su riff. Quello che alla fine ne viene fuori è la riesumazione di un cadavere, un Frankenstein che a prima vista risulta imponente e grandioso ma che a lungo andare non riesce a stare in piedi, rivelandosi fragile e vuoto. Lungo l’arco dei dodici pezzi si ha come l’impressione che i Metallica vogliano dimostrare a tutti i costi, prima a sé stessi e poi agli altri, che questo Frankenstein sia capace di camminare: una continua dimostrazione di forza, di muscoli, di testosterone e di energia pompata a forza. Gli elementi ci sono tutti, proprio come piacciono ai fan, di qualunque frangia siano: Hetfield con i suoi “yeah” che più americani non si può, Kirk Hammett che fa Kirk Hammett, Rob Trujillo che cerca invano di ritagliarsi il suo spazio ed il solito insulso Lars Ulrich, un batterista che invece di migliorare in tutti questi anni è riuscito probabilmente a peggiorare, con un tocco talmente tanto anonimo da risultare paradossalmente personale perché ce l’ha solo lui così. Nonostante i four ex-horsemen ce la mettano tutta, alla fine però il gioco non regge e il disco si rivela per quello che è: un involucro vuoto, didascalico ed anche noioso. Bisogna resistere sino agli ultimi tre pezzi per avere un sussulto nella piattezza generale mascherata da varietà, con la lenta e pesante Am I Savage? che rievoca gli anni ’90 di “Load” ibridati con dei toni alla Black Sabbath, Murder One (dedicata a Lemmy) e Spit Out The Bone, pezzo che si ispira a vecchie schegge impazzite come Damage Inc. e tutto sommato riuscito. Ma è troppo poco per risollevare un album che vuole spacciarsi per qualcosa che vorrebbe tanto essere ma che non è, ovvero un’opera capace di tenere testa ai vecchi capolavori degli anni ’80. I Metallica vivono nel passato e creano la loro musica credendo ancora di poter comporre canzoni come trent’anni fa; questo è quello che per lo meno loro vogliono vendere, peccato però che il risultato sia grottesco. In “Hardwired…to Self-Destruct” conoscere il mestiere arriva a toccare il suo picco più estremo: essere schiavi del proprio stesso stile. Un vicolo cieco, che una volta imboccato può portare soltanto alla ripetizione sterile e formale di determinati stilemi. E all’autodistruzione, come indicato dal titolo stesso. In questo eterno meccanismo, quella che era davvero la musica più trasgressiva del mondo non fa ormai più paura a nessuno ed è morta già da un pezzo per mano dei suoi stessi creatori. Immagini tratte da: discogs.com |
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Aprile 2023
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