sostanzialmente mancava al suo film per renderlo grande, ma anche il rapporto fra jazz e cinema: due mondi paralleli e perennemente in contatto grazie alla loro capacità di fare del movimento la caratteristica portante delle rispettive poetiche, tramite la narrazione registica e delle immagini per il cinema e l’improvvisazione per il jazz. Ad introdurre il film erano presenti due fra i più importanti jazzisti della scena italiana, il contrabbassista Gianmarco Scaglia e il sassofonista Daniele Malvisi, profondo conoscitore dell’arte di Miles Davis e autore del recente album “Virtuous Circle Of Miles Davis”, originale omaggio al musicista americano uscito ad ottobre dello scorso anno. L’importanza di un album epocale come “Kind Of Blue”, la rivoluzione del jazz modale, la storica svolta “elettrica” di Davis così come ricordi ed aneddoti personali hanno accompagnato le parole e la musica del duo che ha eseguito in una veste inedita classici come Blue in Green, Milestone e Jean Pierre per una sala gremita ed immersa nel più completo silenzio. Un’occasione più unica che rara per ricalcare un pezzo di storia della musica accompagnati da chi quella musica la vive ogni giorno riuscendo nello stesso tempo a trasmetterne il coinvolgimento e l’apertura: ed è per questo che abbiamo fatto quattro chiacchiere con Daniele Malvisi che si è gentilmente offerto alla nostra curiosità per scoprire di più sul complesso mondo dell’arte di Miles Davis e del jazz in Italia, mentre in sala il bianco e nero del film dettava il ritmo (naturalmente jazz) della storia fatta di amori assoluti ed impossibili e di assassinii. ![]() D: Se Ascensore per il Patibolo è il capolavoro che è riuscito a diventare è anche grazie alla musica di Miles Davis che non è semplicemente descrittiva ma aggiunge un’ulteriore dimensione narrativa alla pellicola come un film nel film. Davis era una personalità molto particolare e un musicista senza compromessi; da cosa deriva secondo te la forza della sua musica nel film di Malle? R: Non trovo grandi differenze fra le immagini e la musica. La musica infatti è stata composta in questo modo: Miles Davis chiese di far scorrere i fotogrammi senza i dialoghi, come un film muto, suonandoci praticamente sopra quasi ininterrottamente, facendo solo qualche taglio e qualche ritocco in determinati punti. Questa è una pratica che lui usava spessissimo quando doveva affrontare un lavoro particolarmente creativo, facendo in modo, nel caso del film, che alla fine uscisse un commento musicale molto suggestivo. Non bisogna infatti pensare alla classica figura del compositore che svolge il classico lavoro da colonna sonora, scrivendo vari leitmotiv per i personaggi, il tema principale e quant’altro. Il lavoro di Davis è stato l’esatto contrario: la sua è una colonna sonora che ha come sua essenza la suggestione che le immagini suscitarono in lui. Dette giusto qualche minima traccia, come delle tonalità o decidendo via via se suonare in modo più contrappuntistico o maggiormente aperto, facendo quasi da tappeto, tralasciando invece le indicazioni ritmiche; le indicazioni quindi furono poche e molto libere, lasciando generare tutto sul momento. Penso che questa suggestione che animò la musica di Davis sia un valore aggiunto al film e che si possa percepire in maniera forte. ![]() D: Si può dire quindi che il quintetto di Davis, composto principalmente da musicisti francesi a parte il batterista Kenny Clarke, jammasse a tutti gli effetti con le immagini del film. Dal tuo punto di vista cosa comporta un lavoro di questo tipo? Che cosa entra in funzione nella mente dei musicisti quando si trovano ad affrontare, magari per la primavolta nella loro carriera come lo è stato proprio per Miles Davis, un tipo di relazione così particolare come lo è quello fra immagini e suono in tempo reale? R: Una delle caratteristiche davisiane era che durante le prime fasi di lavoro lui ti metteva in difficoltà e in un vero e proprio stato di disagio, senza dare minimamente confidenza, parlando poco e trattando i musicisti come se non esistessero, anche se in realtà ascoltava qualsiasi cosa si stesse suonando. Si veniva a creare quindi un livello di concentrazione talmente alto che difficilmente emergeva qualcosa che non potesse funzionare: ogni nota era parsimoniosamente selezionata quasi automaticamente dai musicisti che erano obbligatoriamente messi in condizione di ascoltare e fare attenzione. Questo metodo altamente personale è stato usato da Davis anche per Ascensore per il Patibolo, dove le musiche sono frutto di una selezione emotiva del ventaglio creativo e improvvisativo molto alta. Inoltre, aveva un’attitudine verso le registrazioni e le session da “buona la prima”: al di là delle tecniche di registrazione che non erano naturalmente come quelle di oggi, era un suo modo di essere e di fare musica. Miles in sostanza ti costringeva a dare il massimo e a non mollare: lo faceva per ogni suo album, figuriamoci per una colonna sonora come quella del film di Malle dove esiste un equilibrio fra i musicisti e gli eventi musicali che è semplicemente unico. D: Stasera avete suonato con una formazione ridotta all’osso: come mai questa scelta? E com’è stato rapportarsi in duo con una musica creata da più musicisti come è il caso del quintetto per la colonna sonora di Ascensore per il Patibolo? R: Questa procedura è abbastanza tipica del jazz. Noi siamo abituati a suonare in diversi contesti e formazioni, accettando anche delle sfide che possono risultare creativamente stimolanti: suonare con una formazione così ridotta ti porta a far conto con i tuoi limiti, anche espressivi. In un contesto del genere, ad esempio, se non si suona si viene a creare un vuoto, e se proprio vuoto deve essere che sia per lo meno quanto più musicale possibile. A mio avviso è una sfida molto affascinante che porta a cercare dentro colui che sta suonando scelte musicali diverse che magari non uscirebbero fuori eseguendo qualcosa di più classico come può esserlo un accompagnamento. D: Ascoltando la vostra performance si notava infatti come il silenzio della sala vi influenzasse anche in maniera diretta, dando un’altra dimensione al suono e ad alcuni accorgimenti melodici che improvvisavate. R: Assolutamente. Questa cosa fra l’altro è molto davisiana: lui diceva che per essere dei buoni musicisti bisogna imparare a suonare anche le pause. Sono un elemento fondamentale per chiunque abbia a che fare con la musica, e che fra l’altro si lega al mondo della parola: una persona che sa parlare bene e ha una buona oratoria sa dosare i suoi spazi e prendere le giuste pause, dando anche la possibilità di rendere più avvincente ciò che racconta. La musica funziona nello stesso modo. D: Nella colonna sonora il contrabbasso a mio avviso riveste un ruolo fondamentale acquisendo ancora più fascino poiché il suo suono si lega perfettamente al bianco e nero della pellicola. Fra l’altro è l’unico strumento all’interno della colonna sonora che si ritaglia alcuni momenti completamente slegati dall’accompagnamento del resto dei musicisti: uno strumento solitario, come Jeanne Moreau che cammina lungo le strade al neon immersa nei suoi pensieri. Se riveste così tanta importanza nell’economia complessiva dell’opera è perché il suo suono deve aver colpito molto Malle. Cosa ne pensi del ruolo di questo strumento all’interno del film? R: Il contrabbasso è un elemento imprescindibile, in particolar modo in questa colonna sonora. Davis lo usa come un veicolo per passare da un affresco ad un altro: lasciare libero lo strumento che disegna una serie di figure melodico-ritmiche permette di essere portati non solo da una scena ad un'altra ma soprattutto da un mood ad un altro così come da un climax ad un altro. È tipico dei jazzisti fluttuare continuamente intorno a ciò che è stabilito, sia esso un giro di accordi o una progressione armonica; ebbene, mentre tutta la formazione fluttua, l’unico elemento stabile è il contrabbasso. È lui che ti dice dove sei gettando le basi per tutto ciò che si costruisce poi sopra. A ciò si unisce anche la capacità di disegnare figure ritmiche grazie alla walking bass: la funzione del contrabbasso è quindi duplice, ritmica e armonica, denotando quindi una grossa capacità narrativa e di sostegno per tutto quello che è l’apparato jazzistico in genere ma non solo, visto che si potrebbe estendere lo stesso discorso anche all’hip hop. È certamente uno strumento cinematico, il che lo rende perfetto per il discorso artistico di Louis Malle all’interno del film. D: L’anno scorso hai pubblicato l’album “Virtuous Circle Of Miles Davis” a nome Daniele Malvisi six group, dove omaggi il trombettista con un’operazione musicale molto personale, prima di tutto perché la tromba è assente e poi perché presenta arrangiamenti elettronici. Com’è nato questo progetto? E cosa rappresenta ancora oggi per te la musica di Miles Davis? R: La sua musica continua ancora oggi ad essere una scoperta. Ormai la sua figura è diventata quella di un guru e una delle cose più interessanti è che lui è stato un musicista che riusciva a suonare i musicisti stessi; pensiamo semplicemente alla quantità di talenti che sono passati da lui e che si sono formati sotto la sua direzione, come una vera e propria scuola. Sicuramente una delle cose che più mi affascinano di Davis è certamente la grande forza comunicativa che ha la sua musica che ha fatto da legame perenne fra stili, generi e correnti molto differenti fra loro. Leggendo a posteriori la sua storia ho notato che, in qualche modo, ha continuato qualcosa che già era successa in passato: basti pensare ad esempio a Benny Goodman, primo musicista bianco a far suonare un nero nella sua big band, e come lui così tanti altri. Traendo spunto da quest’etica comportamentale, Davis ha esteso questo livello d’accoglienza a stili e a modi di intendere la musica profondamente diversi da quelli del jazz, riuscendo ad essere all’avanguardia e anche a cavalcare l’onda, portando inoltre a far dire ad alcuni che lo facesse meramente per raggiungere il successo. Personalmente non so dare una risposta precisa su come ci riuscisse ma so di per certo che la musica di Davis ha una forza comunicativa intramontabile e profondamente totalizzante come solo i classici riescono ad avere. In particolare porto sempre con me quest’ultimo punto e me ne sono reso conto dalle piccole cose che inserisco negli arrangiamenti, nelle tipologie armoniche e negli assoli: il titolo del disco si riferisce proprio a tutto questo, ovvero a dei circoli virtuosi che ritornano costantemente in tutto ciò che fai da musicista. Sono dei modi di rapportarsi alla musica, così come dei modi di ascoltarla e di pensarla da prospettive parallele o differenti a quella del semplice musicista. D: Il jazz è sempre stato un genere molto cinematico, sia nel senso che ha cercato di guardare a nuove sperimentazioni nel corso della sua storia e sia perché fa dell’interplay e dell’improvvisazione fra i musicisti una delle sue caratteristiche portanti. Per questo il rapporto fra il film di Malle e la musica di Davis è più di una semplice collaborazione ma l’incontro fra due mondi molto simili e paralleli. Nel 2016 fra l’altro sono previste varie pellicole su alcuni personaggi del jazz fra cui Chet Baker e lo stesso Miles Davis: come vedi il rapporto fra cinema e musica jazz? Credi che bisognerebbe incoraggiare maggiormente questo legame? R: Trovo film come Ascensore per il Patibolo o Round Midnight opere molto rispettose verso il jazz, a differenza di tante altre che non fanno altro che diffondere un’immagine molto stereotipata dei musicisti jazz visti esclusivamente come tossicodipendenti e decadenti. Spesso alcuni registi ci vanno a nozze con visioni del genere ma questo tipo di operazioni personalmente mi danno molto fastidio. Ad esempio, pur amando alcuni film di Clint Eastwood, trovo che Bird non sia un buon film sul jazz perché secondo me mostra molto il dramma personale di Parker e molto poco quello che ha fatto di artistico… eppure quello che Parker ha fatto ha cambiato non solo la storia del jazz ma anche quella della musica! È molto delicato accostarsi a figure del genere perché si rischia sempre di far sovrastare la vicenda artistica da quella biografica e questo lo trovo una disattenzione un po’ grossolana: l’eredità che certi musicisti hanno lasciato è così grande che a mio avviso un regista sensibile ed intelligente non può tralasciare. Il film di Malle e Round Midnight e pochi altri questo per fortuna non lo fanno. Tolti i grandi nomi, ancora oggi i jazzisti fanno la fame e non esiste il merito neanche nel mondo di questa musica visto che tutto ormai non si gioca sui palchi ma tramite gli investimenti e i rischi correlati. Inoltre, per addentrarsi nel mondo della musica, bisognerebbe che ci fosse un forte background culturale che educhi alla scoperta e all’ascolto, un po’ come faceva la tv nei decenni passati, ma purtroppo questo non si fa più. Il mondo della musica è cambiato e molto probabilmente è molto più difficile che in passato riuscire ad emergere nonostante oggi ci siano un sacco di giovani musicisti pieni di talento. D: L’UNESCO ha istituito la Giornata Internazionale del Jazz, ovvero il trenta aprile, a dimostrazione di quanto ormai questa musica sia patrimonio artistico universale. Cosa pensi della scena jazzistica italiana attuale e di quanto jazz ha bisogno oggi la nostra scena culturale per cercare di strapparlo ai salotti e a una visione banalizzante che ancora purtroppo sopravvive? R: Il livello dei musicisti jazz italiani è molto alto e sono molto apprezzati all’estero anche per la loro poliedricità data dal fatto che, non essendo molto considerati in patria, devono adattarsi a varie situazioni. Questo fatto ti porta ad avere un approccio creativo più imprevedibile e che spiazza gli ascoltatori stranieri. Anche a livello di gestione e di tutela dei festival molte cose andrebbero riviste anche se qualcosa sta lentamente cambiando. A mio avviso il jazz è una musica libera e che ti educa al pensiero e a guardarti dentro ma per come è impostato il mercato, che mira ad avere un consumatore non pensante, puntare su questo tipo di musica è assolutamente controproducente, trovandosi di fatto contro questa forma d‘arte. In Italia la situazione si aggrava particolarmente in quanto ci sono vecchi dinosauri, come gli enti lirici, che si sono impossessati di mezzi e risorse lasciando al resto le briciole, creando delle contraddizioni tutte italiane come quella di dover sostenere dei costi esorbitanti per pagare un musicista nostrano invece che uno straniero. Tutto ciò non agevola il jazz italiano ma se mai lo relega in una posizione di retroguardia. Il discorso è molto ampio ma a mio avviso questi sono alcuni degli elementi più evidenti. Immagini tratte da:
- Locandina da cineblog.it. - Davis1 da discogs - Davis2 da repstatic.it Le restanti sono Immagini dell'autore
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Aprile 2023
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