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30/12/2016

L’anti classifica di fine anno, ovvero la vertigine della lista

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Invece che una classica top qualcosa, vi propongo una serie di album che hanno attirato la mia attenzione lungo quest’anno ormai agli sgoccioli. Una lista altamente personale e che non ha nessuna pretesa se non quella di mettere insieme dischi e autori secondo il mio gusto, anche molto differenti fra loro. Consigli o indicazioni d’ascolto, ognuno può intenderla come vuole.
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di Carlo Cantisani
Uno dei momenti più agognati e attesi del mondo musicale e non solo è la fine dell’anno, momento in cui incominciano a fioccare da ogni angolo del web o dalle pagine dei giornali le classifiche dei migliori dischi dell’anno. Un appuntamento al quale ormai nessuno sembra sottrarsi, divenuto un classico e talmente tanto atteso che, sempre più spesso, questi elenchi non aspettano neanche i giorni di Natale per essere pubblicati: non sono per niente rare, infatti, classifiche uscite verso la fine di novembre, quando ancora c’è un mese intero pieno di uscite discografiche, tanto che sarebbe interessante stilare a sua volta una graduatoria delle testate che arrivano prima al “traguardo”. Le si chiama anche top ten, giusto per usare un termine più “radio friendly” che sembra rimandare ad epoche ormai lontane in stile Top Of The Pops o Mtv, anche se oggi la graduatoria si è allargata anche ad altre posizioni facendo ormai risultare l’espressione “top ten” un’etichetta generale, un termine che si porta dietro un’aura mitica e che indicherebbe semplicemente l’atto del classificare secondo il principio che va dal migliore al peggiore (o meglio, dal migliore al buono nella stragrande maggioranza dei casi delle classifiche annuali); si va da listoni di venti o trenta titoli sino a punte di cinquanta, segno di quanto sia alquanto arduo stilare una vera e propria classifica nel panorama musicale odierno, così vario e ricco, e anche sostanzialmente inutile.
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Ma al di là dell’inutilità, stilare le classifiche dei migliori questo e quello appaga profondamente sia chi le fa e sia chi ne usufruisce, fattore questo che le pone oltre un mero valore utilitaristico. Di per sé elencare ci permette di portare alla nostra coscienza ciò che c’è e ciò che non c’è, di avere ben disposti davanti oggetti che sarebbero lontani dal nostro controllo, di riempire sostanzialmente un vuoto e di dare una certa forma al caos; elencare secondo il principio del migliore e del peggiore, poi, imprime un ordine ancora più profondo, ferreo e stabile: da ciò che sta al primo posto derivano le altre realtà, e sappiamo allora qual è la forma migliore alla quale dobbiamo puntare. Le classificazioni di quest’ultimo tipo però non possono sfuggire a due fattori, ovvero che per decidere che una cosa è migliore di un’altra bisogna necessariamente azzerare ogni tipo di differenza e particolarità sussistente fra le cose, e che ogni classifica è destinata a fallire nel momento in cui vorrebbe essere la più oggettiva possibile. Il primo fattore uniforma, di fatto, la ricchezza e la varietà delle pubblicazioni, e per quanto un’artista possa essere ascritto all’interno di un genere e trovi punti di contatto con altri artisti e correnti, la sua visione musicale è personale poiché nata in contesti e da intenti particolari, a volte oscuri all’artista stesso; il secondo fattore, forse il più velleitario, vorrebbe rifarsi a principi e regole estetiche per lo più vaghi, non molto chiari, che tradiscono invece la reale natura soggettiva di queste classifiche. Giusto per rimanere all’interno dei dischi usciti quest’anno (e che troverete anche in questa pagina), come si fa a confrontare ad esempio l’ultimo degli Autechre con quello di Colin Stetson? O il testamento di Bowie, Blackstar, con gli A Tribe Called Quest o con il lavoro di Bob Previte? Si rischierebbe di fare un torto agli artisti, e non per uno stupido elitarismo che vorrebbe porre le cose su piani assolutamente diversi e incomunicabili, ma anzi proprio per il motivo contrario, perché ogni cosa è degna di essere ascoltata e apprezzata sin nei suoi minimi particolari. Una volta adottata questa prospettiva, ogni classifica che decide chi va in un determinato posto diviene superflua. E potrebbe essere anche un gioco divertente, se solo chi le stilasse non si prendesse così tanto sul serio; e ancora, potrebbero essere anche utili per scoprire qualche gruppo o artista a noi sconosciuto, se solo la stragrande maggioranza di queste classifiche non fossero fatte con lo stampino – chi segue un minimo il panorama musicale internazionale potrebbe tranquillamente fare delle previsioni verosimili senza neanche aspettare di vedere chi finirà fra i primi posti alla fine dell’anno.
Le classifiche dei migliori e dei peggiori dischi dicono di più sui gusti di chi le fa. Non ci sarebbe niente di male in ciò ma si preferisce ammantare questo fatto con il velo dorato dell’oggettività e dell’affidabilità, cose che conducono dritte dritte alla “commerciabilità” delle top ten, visto che escono in tempo per gli acquisti natalizi e attirano i più svariati lettori a suon di clickbait.
Una semplice lista, all’apparenza disordinata ma affascinante proprio per questo, che non procede secondo il principio dell’elezione del migliore ma solo per la voglia di avvicinare e far coesistere elementi differenti e distanti, ha risvolti più divertenti e soprattutto non pretende di dire chi deve essere ascoltato e chi no. Una lista che riflette solo i gusti di chi la fa è un elenco mai fine a sé stesso, suscettibile di cambiamenti, orizzontale pur nel rispetto delle diverse attitudini artistiche e musicali e che sa mettere in comunicazione in maniera invisibile e misteriosa musiche, suoni, dettagli, visioni. Una classifica può portare ad una continua ansia da prestazione: la lista, come pensava il buon Umberto Eco, produce vertigine, la bellezza di “ciò che c’è”, che si cela anche in nuove scoperte al di là della lista stessa.


David Bowie - Blackstar
Praticamente acclamato come disco simbolo dell’anno e per alcuni già un classico della discografia del Duca Bianco, Blackstar trascende l’opera musicale in sé per diventare inevitabilmente altro: sublimazione del multiverso bowiano. È proprio solo dei grandi dare forma e il proprio volto alla morte, riuscendo ad essere all’altezza di essa. L’artista inglese ci è riuscito, con un disco attualissimo e che suona come un paradossale epitaffio: “Non sono morto, semplicemente non sono più qui”.


Esperanza Spalding – Emily’s D+Evolution
Un disco che è riuscito ad incorporare le molteplici anime di Esperanza Spalding, bassista, contrabbassista e cantante (nonché bambina prodigio che a cinque anni suonava già il violino) assai apprezzata negli States, che a questo giro dimette la sua folta capigliatura afro e adotta un look più “indie” e “alternativo”. La musica ne risente e il calderone di funky, r‘n’b, progressive e rock sforna un album dall’equilibrio esemplare, semplice e complesso, colto e popolare, suonato alla grandissima e interpretato ancora meglio.
 
Autechre – elseq 1-5
L’ultimo mastodonte digitale del duo inglese o lo si ama o lo si odia. Elseq 1-5 non lascia spazio a facili appigli della musica elettronica, neanche a quelli propri della carriera degli Autechre stessi: un monolite oscuro venuto da una galassia lontana e aliena dove ogni suono è stato assorbito per essere integrato in questa enorme macchina anti-umana. Astratto, freddo, massivo, labirintico nella sua struttura (oltre quattro ore di durata), ma dannatamente affascinante per chi vorrà lasciarsi assorbire dai ricami elettronici che esplodono e sprizzano in ogni direzione, secondo logiche conosciute solo alle macchine.


BadBadNotGood – IV

Un piccolo tornado, un fulmine a ciel sereno, uno schiaffo in pieno volto: il quarto album degli sbarbatelli canadesi, jazzisti di formazione ma col cuore sempre rivolto al mondo dell’hip hop, pone in risalto tutte le capacità di songwriting del gruppo elevandole allo stesso tempo su un nuovo livello grazie agli innesti dei synth e del comparto elettronico. Analogico e digitale jammano insieme creando una musica fresca, intelligente e coinvolgente.


Colin Stetson – Sorrow: A Reimagining of Gorecki’s 3rd Symphony

I tre movimenti della sinfonia dei “canti lamentosi” del polacco Henryk Gorecki nascono dal dolore del singolo e di un intero popolo oppresso, in un continuo saliscendi emozionale altamente coinvolgente. Un’opera alla quale è difficile approcciarsi ma alla quale Colin Stetson, uno dei sassofonisti oggi più quotati grazie alla sua ecletticità, rende omaggio con rispetto e senza stravolgimenti essenziali, affiancando ad un piccolo nucleo orchestrale chitarre, sax, batteria e synth. Ne risulta una musica immersiva dall’intaccato fascino liturgico e sacrale, un viaggio dal volto inedito crudo, pesante, teso che non può in ogni caso lasciare indifferenti.


Bob Previte – Mass

Anche questo Mass è simile all’operazione di Stetson, lavorando però su un materiale differente, la Missa Sancti Jacobi di Guillaume Du Fay del XV secolo. Bob Previte, batterista, opta per un approccio pesante che mette in comunicazione le chitarre del doom e dello stoner con i canti polifonici gregoriani per mettere in scena un rituale oscuro ed altamente evocativo. L’equilibrio fra i musicisti e la completa dedizione alla materia evitano di rendere il tutto pacchiano ed indigesto, ma anzi donando alle vecchie composizioni un fascino inedito.


A Tribe Called Quest – We Got It From Here… Thank you 4 Your Service

L’ultimo, in tutti i sensi visto che non ce ne saranno altri, disco degli ATCQ arriva in punta di piedi, dopo diciotto anni di silenzio discografico e, come per magia, mette in riga un’intera scena. E non lo fa imponendosi come tanti altri dinosauri musicali potrebbero fare senza nemmeno impegnarsi tanto, o inseguendo l’ultima moda abdicando alla propria identità: lo fa ribadendo uno stile che è solo degli A Tribe Called Quest. Contemporaneo ma dal sapore vintage, efficace, comunicativo, musicalmente ricco, il rap del gruppo vola alto sopra la scena e dialogando con i vecchi capolavori.

Dalek – Asphalt For Eden

Dai classici ancora vigorosi, ai contemporanei come i Dalek che sanno ritrasformare quella vecchia scuola. Vedere fra i primi posti delle classifiche lavori mediocri come quelli di Beyoncé o Kanye West soprattutto perché il 2016 è stato un anno ricco di uscite in ambito black, con tutto il contesto socio-politico nel quale si inserivano a dare a questi lavori ancora più valenza, fa abbastanza pensare su quanto il potere dell’immagine prevalga a discapito della proposta musicale. Ogni album dei Dalek esprime un passo a volte evolutivo, in ogni caso sempre altamente personale e caratteristico per tutta la scena rap più sperimentale. Non fa eccezione Asphalt For Eden, che con il suo mood ipnotico, liquido e metropolitano e uno dei dischi più interessanti dell’anno, insieme ad altri compagni di versi quali Atrocity Exhibition di Danny Brown e quel diario personalissimo da seduta psicanalitica che è Blonde di Frank Ocean.

 
Immagine tratta da:
michaeljarmer.files.wordpress.com

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