Fabrizio De Andrè è uno di quei fenomeni della cultura che mi ha fatto maledire la sorte per non essere nato almeno un decennio prima del 1988. Si, perché, ahimè, data la sua prematura scomparsa nel gennaio del 1998, non ho mai avuto e avrò la possibilità di poter essere completamente rapito dal vivo dalla sua poesia, dal suo carisma, dall’arte. Al di là di questo sfogo ingiustificato che credo però possa essere condiviso da molti coetanei e non, Faber per fortuna non soltanto non è stato messo da parte dalla storia, ma anzi vive oggi sempre più forte attraverso tanti e diversi modi d’espressione, e soprattutto attraverso la bellezza senza tempo dei suoi testi.
Al giorno d’oggi, ad esempio, il caldissimo tema dei migranti porta alla mente numerosi brani del cantautore genovese, in primis “Creuza de ma” e la sua anima multietnica, ma riscontra a mio avviso in “Khorakhanè” un’empatia di spirito ancor più grande. Contenuta in “Anime Salve” del 1996 scritto in tandem con Ivano Fossati, questa canzone trae nome da una tribù rom musulmana di origine serbo-montenegrina. “Khorakhanè” vuol dire nella medesima lingua rom “Amanti del Corano”, e compone un ritratto senza eccessivi cerimoniali né critiche dello stile di vita abbracciato da un popolo in duemila anni e più di storia dedito all’emarginazione, affetto da dromomania, ossia desiderio continuo di spostarsi, come affermava De Andrè durante la presentazione del brano nei concerti. Un popolo volutamente senza patria, ma non per questo privo di propri usi e costumi, né del tutto immacolato ed esemplare. Ma nemmeno completamente da condannare.
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“Khorakhanè” percorre con eleganza e realismo il tempo di una visita in un campo rom, tra le tipiche tende (kampine) e i ritmi di una vita mai facile, spesso in fuga dalle guerre, come accaduto in ex-Jugoslavia, Polonia e Ungheria. “Ogni terra si accende e si arrende la pace” è un chiasmo essenziale che sintetizza lo scoppio di un conflitto, mentre la vita torna a ricostruirsi poco dopo in contemporanea con i festeggiamenti di San Giorgio, il 6 maggio nel calendario gregoriano corrispondente al 24 aprile di quello giuliano in cui viene omaggiato l’inizio della primavera. “A forza di essere vento” è il sottotitolo del brano ma anche un suo verso che all’interno di una rima baciata corrisponde a una metafora della filosofia di vita zingaresca, quella di muoversi come il vento da una zona all’altra, di abbandonare un campo per tirarne su uno nuovo. Il protagonista della passeggiata in “Khorakhanè” altri non è se non un membro stesso di quest’etnia, del quale non importa se abbia precisi il nome, l’età, il sesso. Quel che conta è il suo spirito che da secoli e secoli interpreta il mondo seppure “con parole cangianti e nessuna scrittura”, secondo una tradizione misteriosa che resiste di padre in figlia, presumibilmente sorretta da una intima comprensione e devozione alla parola di Dio (“lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”). Non mancano i riferimenti alla carità richiesta in particolar modo dai bambini, e alla tendenza al rubare, entrambi toccati senza cadere né da una parte nell’ipocrisia né in un’esagerata piaggeria. Il finale della lirica si produce in un’improvvisa e contemporanea elevazione vocale e musicale da parte di un’interprete femminile che esplode nella strofa conclusiva in lingua rom (nella fattispecie Dori Ghezzi all’interno della versione del disco, la figlia Luvi De Andrè durante i concerti, e ancora Fiorella Mannoia e Ginevra Di Marco nelle rivisitazioni posteriori) : Immagini tratte da: Immagine 1 da www.Umbriatouring.it Immagine 2 da www.Fabriziodeandre.it
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Marzo 2023
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