La Madama Butterfly di Riccardo Chailly ha aperto, il 7 dicembre, la nuova stagione del Teatro della Scala.
Lo scintillio degli abiti del pubblico vip è stato un po’ meno presente quest’anno, causa la poca presenza della politica e del Presidente della Repubblica Mattarella che ha preferito lasciare un messaggio per scusarsi della sua assenza. Un clima un po’ meno da red carpet dunque per la serata che recupera la prima versione dell’opera di Puccini, ampiamente fischiata in quello stesso teatro nel febbraio del 1904, tre mesi prima della versione modificata e presentata a Brescia che ne fece una delle opere più famose al mondo.
Madama Butterfly è la storia drammatica di un amore tormentato e dal destino tragico, ambientata nella condanna a una civiltà occidentale offuscata da principi di cinica superiorità. È fortissimo e centrale in quest’opera il confronto-scontro fra culture diverse e opposte. America e Giappone si trovano ad unirsi in matrimonio. Da un lato F.B. Pinkerton, tenente della marina degli Stati Uniti, che prende in moglie una quindicenne giapponese con un contratto rinnovabile mensilmente basato sul pagamento di cento yen. “La comperai per novecento novantanove anni, con facoltà, ogni mese, di rescindere i patti.” Mentre si sposa progetta già mentalmente il matrimonio con una “vera moglie americana”, valutando gli usi e i costumi del paese orientale, sciocchi, buffi e curiosi. Basti pensare che decide di chiamare i giapponesi “musi”. Non è certo il massimo del romanticismo e nemmeno dell’accoglienza multiculturale, cosa che attualmente non è poi così inconsueta, purtroppo.
Dall’altra la “dolce Butterfly”, Cio-Cio-San. Decide, non solo di sposare Pinkerton, ma di abbandonare le sue tradizioni e la sua religione convertendosi al cristianesimo, con il risultato di essere rinnegata dalla sua gente, destinata all’abbandono e ad una snervante e fedele attesa. Una volta sposata, infatti, aspetta per tre anni con un’incredibile dedizione il ritorno del marito dall’America, andando contro a chi la deride perché la pensa un’illusa, scrutando con il cannocchiale ogni barca che attracca al porto in cerca di quella agognata bandiera a stelle e strisce, in compagnia della fedele ancella, Suzuki. (Qui una delle arie più famose dell’opera Un bel dì vedremo) Nemmeno il console americano Sharpless, alla vista di suo figlio, biondo con gli occhi azzurri, cercando di leggerle una lettera di Pinkerton riesce a dirle la dura verità. Dovrà vederla da sola, incarnata nella bella moglie statunitense arrivata nella sua casa a chiederle in custodia il figlioletto. Sarà così, lasciando il frutto di quell’amore ingannevole fra le braccia della patria americana, che deciderà di compiere l’ultimo atto verso quell’amaro destino che aveva colpito anche il padre. “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”. L’occidente si mescola all’oriente anche musicalmente, in tutti quei tratti che richiamano il Giappone disseminati con finalità drammaturgiche nella partitura, così come gli accenni all’inno americano. Un’opera moderna, nella musica che sorregge la vicenda portandoci dentro la trama con richiami e rimandi, accompagnando quell’amore così struggente e allo stesso tempo così drammaticamente destinato a finire nel più tragico dei modi, così come nei soggetti, nella denuncia sociale e nel protagonismo femminile.
La versione primaria scelta dal direttore Riccardo Chailly ha ricevuto tredici minuti di applausi. Grande entusiasmo è stato donato alla Butterfly di Maria José Siri e allo Sharpless del baritono Carlos Alvarez. Apprezzata invece la bravura vocale ed attoriale di Annalisa Stroppa in Suzuki. Più tiepidi i consensi per il tenore Hymel che ha interpretato Pinkerton e per il regista, Alvis Hermanis, per imprecisioni il primo e per l’eccessiva tradizione il secondo. Le scene, soprattutto nel primo tempo, un po’ troppo abitate da figure in sfarzosi costumi dagli atteggiamenti plastici, quasi irreali marionette, sicuramente poco innovativo e certamente lontano dall’essere moderno. Lascia così un sapore di ambivalenza fra l’innovazione della riscoperta della versione originaria dell’opera e la prudenza tradizionale della regia. Un’apertura segnata da una spinta verso la sfida ai fischi da un lato e la paura di osare troppo dall’altro.
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Aprile 2023
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