di Carlo Cantisani
Quattordici anni sono un lungo periodo di tempo all’interno dell’attuale mercato discografico. Pochi artisti – i più longevi, di solito - possono permettersi archi di tempo di semi-inattività così ampi, inframmezzati magari soltanto da uscite minori come best of, live, qualche singolo sparso estemporaneo, split e così via. A “sopperire” a questo vuoto di pubblicazione, da qualche tempo, ci pensano però i social network: attraverso foto, video, commenti e post, gli artisti rimangono sempre in contatto col loro pubblico, o, più che altro, sempre “in vista” e in evidenza, catturando comunque l’attenzione della scena internazionale. L’importante è far parlare di sé, sempre e comunque, indipendentemente dalla musica che si crea.
Per gli A Perfect Circle il tempo non è mai stato un grosso problema. Billy Howerdel e Maynard James Keenan hanno sempre ribadito che le loro uscite sarebbero venute fuori al momento opportuno, dettate, cioè, dalla reale necessità artistica di doversi esprimere anziché dalle scadenze contrattuali. Un’attitudine – almeno apparentemente – senza compromessi, un “prendere o lasciare” che i numerosi fan hanno imparato sin da subito ad accettare, e che ha consentito ai due (soprattutto a Keenan) di rivestire i panni degli idoli e dei profeti dell’alternative rock americano del XXI secolo. La stessa attitudine, inoltre, che muove l’altra band del cantante, i Tool, anche loro attesi spasmodicamente ormai da dodici anni. Se questi due gruppi, speculari e complementari, possono permettersi oggi di prendersi tutto il tempo che vogliono è perché sono gli stessi fan a concederlo loro, forti soprattutto di un rapporto di reciproca fiducia con gli ascoltatori che, a volte, è al limite dell’idolatria. Fiducia che poi, a conti fatti, è stata sempre ripagata, grazie a grandissimi album e a delle discografie che hanno segnato la storia del rock degli ultimi venti anni. Consapevoli di tutto ciò, A Perfect Circle e Tool continuano imperterriti sulla loro strada, noncuranti delle mode del momento e fregandosene di dare anche solo di sfuggita un’occhiata al panorama musicale che li circonda. Probabilmente è anche per questo che Eat The Elephant, il quarto e ultimo album del progetto di Howerdel e Keenan, sembra quasi sbucato dal nulla e di soppiatto, senza grandi proclami pubblicitari. Una pubblicazione che si potrebbe definire “fuori contesto”, nel senso che non trova connessioni forti con ciò che domina oggi e va più per la maggiore nel panorama musicale internazionale, dominato dalla nuova ondata hip hop americana capitanata da Kendrick Lamar, moda trap, commistioni elettroniche e rigurgiti anni ’80. Proprio come la mortifera figura di Maynard James Keenan contrasta evidentemente col bianco dello sfondo della copertina, così il disco si pone fieramente a distanza – o meglio, di lato – rispetto a ciò che caratterizza il pop degli gli ultimi anni. Non sono molti i dischi di matrice puramente rock, dominati cioè dallo strumento chitarra, oggi capaci di intercettare e rappresentare determinati sentimenti collettivi, a meno che non siano targati Radiohead e per questo motivo, così come tanti altri ipotizzabili, una nuova uscita targata A Perfect Circle, che, per fama, di certo non sono i Radiohead e si rivolgono a un pubblico più ristretto, risulta un evento in sé, visto anche il modus operandi della band, sempre a metà fra mondo mainstream e quello underground. Il gruppo californiano parla solo ed esclusivamente con il suo peculiare linguaggio e solo coloro disposti ad ascoltarlo – sembra dire il gruppo – potranno goderne davvero appieno. Questa volta il linguaggio A Perfect Circle trova una veste nuova, anche se non completamente inedita per due motivi principali: Eat The Elephant riesce a mantenere vivo un legame con Emotive del lontano 2004, recuperandone sottotraccia (ma poi mica tanto) il discorso, ampliandolo ulteriormente, e, inoltre, mantenendo perfettamente integro quel mix unico di sentimenti fra malinconia, rabbia, sconforto, vulnerabilità e disillusione. Qui le chitarre si fanno da parte relegandosi intelligentemente sullo sfondo, costituendo insieme alle tastiere quell’ambiente sonoro dove la sezione ritmica di Matt McJunkis al basso e Jeff Friedl alla batteria suona piena e compatta, e dove, soprattutto, la voce di Keenan svetta in primo piano. Il lavoro di quest’ultimo è particolarmente encomiabile, senza assolutamente nulla togliere agli altri membri, soprattutto a Howerdel, il vero motore della band, ma è da sottolineare il fatto che molto del fascino dell’album è dato dalle melodie vocali e dall’interpretazione altamente personale che qui il cantante riesce a dare ancora una volta, tanto che in alcuni episodi sembra che i pezzi siano stati costruiti proprio intorno alla voce. La commistione di questi elementi dà luogo ad un album differente dagli altri, con suoni più morbidi, soffusi, a cavallo fra rock ed elettronica, dove l’abusata e vuota etichetta di alternative rock perde tutto il suo significato in favore di una musica altamente personale, fatta con eleganza e classe navigata. Le ombre di David Bowie (quello da Hours… in poi), dei Depeche Mode, dei The Cure, dei R.E.M., del post-punk e di chissà quanti altri artisti giocano a nascondino fra le pieghe delle composizioni, rimaneggiati e rivisti secondo una propria ottica e non con mero citazionismo. Basterebbe l’iniziale title track per rendersi conto che quest’ultimo lavoro è destinato a dividere gli ascoltatori: l’attacco affidato al pianoforte è spiazzante, irruento nella sua inaspettata delicatezza, continuando poi in punta di piedi con un tono quasi da ballad su una batteria quasi jazzata. Oppure l’elettronica acida di Hourglass, l’andadura quasi hip hop e gli scratch di Get The Lead Out e il continuo oscillare fra rabbia contenuta e delicatezza di un pezzo formalmente perfetto come The Doomed. Per non parlare poi di So Long, And Thanks For All The Fish, il vero e proprio pomo della discordia per chiunque ami i dischi passati del gruppo per via della melodia che lo caratterizza, quasi sfacciata nella sua spensieratezza. Ma proprio questa canzone può, forse, essere vista un po’ come il simbolo dell’intero album, perché dietro a una superficie accomodante, luminosa e compiacente si cela, invece, un cuore solcato da ombre, inquietudini e aspetti irrisolti che Maynard, con i suoi testi, rintraccia in noi stessi e nella società in cui viviamo. Per chi, comunque, volesse sentirsi a casa ci sono brani come TalkTalk, Disillusioned o Delicious, dove è possibile rintracciare gli spettri degli A Perfect Circle che furono, ma mai, nonostante tutto, preponderanti. E questo non può che essere un bene, perché, superato lo scoglio dei primi ascolti in cui ci si può ritrovare spiazzati, successivamente il disco sa regalare tutto il suo valore, ascolto dopo ascolto, lentamente. Se alla fine il risultato suoni stucchevole e artificioso oppure, al contrario, emozionante e coinvolgente, dipenderà essenzialmente dalla sensibilità, dai gusti e dall’orecchio di ognuno; una cosa però rimane ed è la capacità degli A Perfect Circle di non accontentarsi e adagiarsi sugli allori nonostante ne possano avere sempre l’occasione, di costruire album all’apparenza semplici ma che nascondono un’anima complessa, di muoversi fra luce ed ombra in maniera consapevole. Di lanciare a ogni disco sempre nuove sfide ai propri ascoltatori, e di questo bisognerebbe ringraziarli.
A Perfect Circle – Eat The Elephant (BMG, 2018)
Immagine tratta da: http://spillmagazine.com/
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Aprile 2023
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