25/11/2016 METAL FOR THE MASSES, ovvero il mestiere secondo i nuovi album di Korn, Rob Zombie, Dark Tranquillity, In Flames e Metallica – Pt.1Read Now
A volte il saper scrivere canzoni, sapere che note mettere sul pentagramma per ottenere determinati risultati compositivi ed emotivi, conoscere insomma il mestiere a dovere, può salvare un artista. Altre volte invece lo condanna. Le ultime uscite discografiche di tre gruppi americani e due svedesi possono fare da esempio, in ambito metal ma non solo. In questa prima parte, Korn e Rob Zombie.
Conoscere il mestiere, in ambito artistico, è un’arma a doppio taglio. Partendo dal presupposto che è in ogni caso necessario, quella che si potrebbe definire con un gioco di parole “l’arte di fare arte” presenta molti aspetti positivi e interessanti, così come diverse problematiche, sia per l’artista che per il fruitore. Per un musicista, quando si dice che “conosce il mestiere”, si intende di solito che lui sa usare molto bene tutte le armi che la musica gli mette a disposizione, utilizzandole in una maniera creativamente valida per piegarle a ciò che si vuole esprimere. In questa prospettiva, la differenza la fa chi ha una visione della propria arte talmente forte e piena che riesce a nascondere il mestiere così bene da far sembrare le proprie creazioni assolutamente naturali e incredibilmente spontanee, come se la musica fosse stata sempre lì a disposizione e il musicista non avesse fatto altro che allungare la mano per prenderla. Chi conosce il mestiere e i suoi trucchi sa, invece, che molto è frutto di un’attenta pianificazione e di un’accurata scelta dei vari elementi che poi, una volta assemblati, formano il fine ultimo al quale mira l’atto del mestierante: un buon prodotto. Il caso, dall’altra parte, gioca un ruolo altrettanto importante ma segue altre vie, e quindi non c’è nulla di male nell’affermare che per un musicista (e un artista in generale) conoscere il mestiere è altrettanto importante tanto quanto sapersi abbandonare alla casualità. Il problema sorge nel momento in cui questa conoscenza prende il sopravvento: è lì che una musica diventa allora sterile e la formalità domina. In questo caso, a farne le spese, sono lo spessore, la profondità e l’energia comunicativa che si perdono fra le strutture portanti messe in piedi dal mestiere e i suoi trucchi. Non si usa il mestiere neanche per intervenire e aggiustare ciò che non va in una canzone, per darle ora un certo aspetto e ora un altro, come un pittore che, distanziandosi un poco dalla tela, osserva dubbioso l’opera ancora incompleta e decide di dare un tocco di colore qui e là. No, ci si attiene rigidamente alle regole che la conoscenza del mestiere del fare musica adotta, dimenticandosi che quelle regole dovrebbero servire solo per far emergere al meglio la visione musicale di un artista, il quale intrattiene un continuo dialogo con esse, trasformandole o addirittura eludendole se necessario. L’abuso del mestiere svuota l’individualità di una creazione, ma la cosa peggiore, forse, è vedere gruppi ed artisti che a loro tempo hanno fatto la storia piegando le regole alla loro arte e che, a distanza di anni, sono invece diventati schiavi del loro stesso stile, ormai depotenziato, arrugginito, formalizzato e incapace di comunicare qualcosa a chi ascolta all’infuori di quegli stessi artisti. È un processo, questo, al quale pochi si salvano e diventa la triste testimonianza di un’era ormai tramontata. Diventa necessario allora accorgersene e saper dare una sterzata forte e decisa al proprio stile, o appendere gli strumenti al chiodo se necessario. Perché, arrivati a questo punto di non ritorno, neanche conoscere il mestiere e i suoi mille trucchi potrà essere d’aiuto: la musica non è solo lavoro di bricolage, per quanto sapiente possa essere, ma soprattutto comunicatività ed espressione.
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Per dare prova di ciò che si è tentato di spiegare si potrebbero prendere come esempio i cinque nuovi album di altrettanti gruppi, che come stile di riferimento possono essere etichettati sotto quello del metal, alternativo, estremo o più rock oriented a seconda dei casi: Korn, Rob Zombie, Dark Tranquillity, In Flames e Metallica. Per le band in questione, “metal” è solo un’etichetta di comodo derivante più dalla loro storia passata che ha fatto si che la critica li ponesse sempre in quella specifica categoria: oggi, alla luce dei diversi decenni che gravano sulle loro spalle, rientrano più nella categoria del pop, o al massimo del pop rock, grazie alla loro massiccia esposizione mediatica che li ha portati a divenire delle vere e proprie icone anche al di fuori del mondo del metal in quanto tale, alle numerose copie vendute degli album e ad uno stile che ha saputo accentuare in alcuni casi, o a far emergere in altri, aspetti melodici e maggiormente orecchiabili che invece erano, in un primo momento, in secondo piano rispetto all’aggressività e alla potenza del sound generale (l’unica piccola eccezione la fanno i Dark Tranquillity, per i quali queste considerazioni sono valide solo in parte). Tutto ciò ha fatto si che questi gruppi siano diventati popolari e quindi mainstream, con buona pace di quei metallari che ancora si ostinano a credere il contrario concependo il loro genere prediletto come qualcosa di avulso dalle dinamiche di mercato o da un certo processo creativo che porta a trasformare la musica anche in qualcosa di più fruibile. Si sta parlando, in ogni caso, di artisti che nei loro tempi migliori sono stati dei veri e propri apri pista per determinate tendenze, rappresentando quanto di meglio un certo filone potesse offrire e con dischi che sono ormai entrati di diritto sia nella storia del rock e del metal, che della musica in generale (basti pensare ad esempio a “Master Of Puppets” dei Metallica).
Ed oggi? In un panorama musicale in cui il rock e le chitarre elettriche si stanno sempre più facendo contaminare dall’elettronica, dall’uso massiccio di sampler, effetti e sintetizzatori vari, cosa hanno ancora da dire questi gruppi? In un mondo in cui Kanye West è il personaggio chiave, nel bene e nel male, di un’era (tanto da potersi permettere di avanzare una sua prossima candidatura alle presidenziali negli USA), cosa possono rappresentare con i loro nuovi album questi artisti? Il metal, come genere musicale ma soprattutto come attitudine e modo di vedere il mondo, è stato completamente fagocitato (ed anche risputato) dal fluire del tempo che ha portato alla ribalta altri personaggi, trasformato scene, modificato la percezione stessa alla musica. Il metal, in particolare quello di matrice più estrema, ha perso molta di quella carica dirompente che aveva negli anni ’80 perché, evidentemente, non riesce più a concepire il mondo come un qualcosa contro cui opporsi per far valere la propria soggettività, cosa che invece era ben chiara ai metallari di trenta e passa anni fa, bensì come un luogo al quale bisogna sapersi adattare, pena l’estinzione. Ed è per questo che, a distanza di svariati decenni dai rispettivi esordi, i cinque gruppi sopra citati sono ancora qui a pubblicare dischi: la loro rabbia iniziale si è tramutata in mansueta capacità di adattamento. E in questo processo la conoscenza profonda del mestiere si è rivelata assolutamente centrale; talmente importante che senza di quella molto probabilmente non sarebbero sopravvissuti alle mode che gli anni hanno sputato loro addosso. ![]()
Del filone nu-metal degli anni ’90, il gruppo che ha saputo resistere senza scomparire nel dimenticatoio (cosa accaduta invece ad uno dei fenomeni più famosi dell’epoca, che sembrava destinato a marcare le scene per molto tempo ancora, i Limp Bizkit) sono i Korn, recentemente usciti con il loro dodicesimo album in studio “The Serenity Of Suffering”. Il quintetto di Bakersfield è sempre stato molto attento nel gestire il loro impero musicale e commerciale, fra collaborazioni, grosse sponsorizzazioni, cambi di rotta, ripensamenti e ritorni. Forti quindi di un’esperienza ventennale, i Korn attuali, da quello che traspare dai solchi delle loro canzoni, sembrano piuttosto puntare a consolidare la loro presenza nel panorama commerciale anziché provare a rinnovarsi, magari cavalcando l’onda della moda del momento (com’era successo ad esempio con “The Path Of Totality”). A dispetto dei vari proclami che sbandierano a gran voce un presunto ritorno alle origini, il nuovo disco prosegue invece quanto fatto quattro anni fa con “The Paradigm Shift”, perfezionando e centrando ancora meglio il quadro sonoro che si andava delineando con quel lavoro. E quel quadro è fatto di pochi elementi, semplici e funzionali: un sound robusto che sorregge delle canzoni che trovano il loro fulcro in ritornelli melodici ed efficacissimi nel loro essere catchy al punto giusto. Nelle undici canzoni di “The Serenity Of Sufferin” (più due come bonus tracks), i Korn fanno trasparire tutta la loro minuziosa conoscenza del mestiere, utilizzandolo per costruire una serie di pezzi dall’impostazione autenticamente pop. Un vero e proprio lavoro di artigianato, dove ogni singolo elemento è perfettamente cesellato e costruito per collegarsi all’altro, creando alla fine un quadro musicale d’insieme che riesce ad evitare un appiattimento stilistico generale. E questo perché, anche se tutto gira intorno ai ritornelli, ogni melodia è diversa da quella che la precede, contraddistinguendo una canzone dall’altra e rendendole alla fine riconoscibili. Ciò che si perde in rabbia e in malsana follia, lo si recupera in melodia: da quelle trascinanti di Rotting In Vain e A Different World (con Corey Taylor degli Slipknot come ospite), a quelle più sofferte di The Hating e When You’re Not There, passando per l’ossessività di Die Yet Another Night sino a Please Come For Me (che ci catapulta per un attimo ai tempi di “Life Is Peachy”), chi ricerca gusto nella costruzione melodica avrà pane per i suoi denti. Invece che riesumare un passato ormai morto, i Korn fanno un’operazione molto intelligente: trasformano il loro stile, non in maniera radicale ma certamente in modo per loro inedito. E grazie a ciò, da bravi mestieranti, riescono a confezionare un buon prodotto.
![]() Colui che può essere considerato uno dei padrini di certe sonorità dissonanti, ossessive, minimali e piene di groove che faranno la fortuna di molte band della frangia più alternativa del metal anni ’90, è sicuramente il grande Rob Zombie, che, prima con i suoi White Zombie e poi da solista, ha attraversato la scena praticamente a testa alta, facendo sempre e solo quello che gli pare. Ed imperterrito, anche nel 2016 continua a suonare quello che gli pare, con il suo solito gusto che mischia b-movie, horror, psichedelia hippies e cafonaggine da redneck americano. Il cocktail questa volta prende il nome di “The Electric Warlock Acid Witch Satanic Orgy Celebration Dispenser”, un lavoro che già dal titolo riassume un intero immaginario tanto caro al Rob. Anche se chi conosce il mondo dell’artista americano sa perfettamente cosa aspettarsi da ogni suo lavoro, che sia musicale o cinematografico (a proposito, assolutamente consigliato il suo ultimo film, 31, già uscito negli States), gli strumenti del mestiere gli consentono di volta in volta di confezionare dei prodotti di ottima fattura, che centrano spesso e volentieri l’obiettivo e sanno soddisfare i suoi numerosi estimatori. Rob Zombie può essere visto come un vero e proprio artigiano dell’universo freak: il suo modo di ragionare è da perfetto appassionato e cultore di un certo tipo di cinema e di musica, riuscendo così ad azzerare la distanza fra lui e chi fruisce i suoi lavori proprio perché, lui per primo, ama alla follia quel particolare universo. E questo suo amore per tutto ciò che è assurdo, bizzarro, orrorifico, allucinato, sanguinario ed esagerato è genuino, e lo si percepisce solo se si adotta il suo stesso sguardo da fan di quel mondo. Il suo nuovo album non fa eccezione a nessuna regola del mestiere di Rob Zombie: un sound solido e robusto fa da cornice a canzoni accattivanti nel loro incedere ora pesante, ora invece pieno di un groove talmente acido da lambire atmosfere quasi da rave come in Medication For The Melancholy. La breve durata di ogni canzone (la media si aggira al di sotto dei tre minuti) permette praticamente di evitare qualsiasi calo e di arrivare alla fine senza quasi neanche accorgersene: la batosta finale di Wurdalak, uno dei pezzi migliori, ci congeda con i suoi spettri doom e con una lunga malinconica coda finale al pianoforte da questa folle corsa, lasciandoci atterriti ma stranamente esaltati, pronti a riprenderla in ogni momento. Perché i segreti del mestiere di Rob Zombie sono talmente fini che, pur non creando mai nulla di particolarmente originale o che abbia un particolare spessore, riescono sempre a fare la loro maledetta figura. Sarà anche che la sua musica, oltre che ascoltata, va anche vista esattamente come i suoi film e i videoclip di quest’ultimo disco si rivelano essere la ciliegina sulla torta, un corredo indispensabile per godere appieno di quest’ultima esperienza targata Rob Zombie. Se non altro perché, spesso e volentieri, ci infila quella biondona di sua moglie, Sheri Moon Zombie. Come non amarlo? Nel prossimo articolo, faremo un salto oltre oceano sino in Svezia con gli ultimi dischi dei Dark Tranquillity e In Flames, per poi ritornare negli USA con il doppio dei Metallica. Immagini tratte da:
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