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2/12/2016

METAL FOR THE MASSES, ovvero il mestiere secondo i nuovi album di Korn, Rob Zombie, Dark Tranquillity, In Flames e Metallica – Pt.2

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Nella prima parte di questa disamina si è tentato di comprendere l’importanza della conoscenza del mestiere e dei suoi trucchi: che valore ha e che posto occupa all’interno del mondo di un musicista e quanto esso sia funzionale in un’ottica prettamente pop. Continuiamo adesso con i tre nuovi album di Dark Tranquillity, In Flames e Metallica.
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​di Carlo Cantisani
In musica, quanto più ci si inoltra in un ambito così detto “estremo”, sembra quasi che la conoscenza dei trucchi del mestiere venga meno, lasciando posto invece ad una maggiore libertà compositiva e sonora. Quasi in barba a ciò che renderebbe una musica più accattivante per una larga parte di ascoltatori, l’ambito estremo sembra poco curante di alcuni, se non di molti, dei vincoli che regolano il fare musica: ecco allora che il suono si fa più duro o più impalpabile, le composizioni indugiano in ripetizioni ossessive o in strutture continuamente mutevoli, si tende al rumore e alla saturazione o al silenzio e alla sottrazione di suoni. Anche la figura stessa di “mestierante” sembra apparentemente lontana dagli ambiti più estremi e sperimentali, proprio perché secondo questi ultimi “conoscere il mestiere” coinciderebbe con un appiattimento espressivo e un formalismo dettato da regole assai rigide. Ma il tempo ha man mano smentito quest’idea rendendola solo un’illusione, visto che questi modi di approcciarsi alla musica hanno sviluppato alla fine le loro regole e fatto emergere nuovi mestieranti. Non di rado, inoltre, il mondo della musica più all’avanguardia si è incrociato con quella pop e più propriamente commerciale, con risultati eccellenti e ormai entrati nella storia (vedasi ad esempio alla voce Brian Eno).
Il metal non è rimasto naturalmente immune a questo processo ed anche le sue frange più estreme ed oltranziste come il death metal e il black metal hanno sviluppato nel tempo quelli che si potrebbero definire dei “topos musicali”, elementi ricorrenti che li contraddistinguono e che fanno parte del bagaglio di ogni mestierante dell’estremo. L’ibridazione di questi elementi tipici si sono innestati su quelli della canzone della musica leggera, ed è interessante notare come due mondi apparentemente lontani siano riusciti a congiungersi. Capacità del metal di sapersi trasformare o del pop che riesce a fagocitare qualunque forma, come si era accennato nella prima parte dell’articolo?

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Se si guarda agli Dark Tranquillity e alla loro ultima opera, “Atoma”, verrebbe da considerare più la prima opzione, mentre se si ascolto il nuovo album degli In Flames, “Battles”, si tenderebbe più per la secoda: due modi di concepire il “Gothenburg sound” (la città natale delle band) differenti, ma solo all’apparenza opposti, visto che sono stati capaci di appropriarsi di elementi della musica pop, primo fra tutti una forte accentuazione della melodia, sia vocale nei ritornelli che nelle parti strumentali. Non è un caso, forse, che entrambi (anche se maggiormente gli In Flames) si siano sempre apertamente ispirati agli Iron Maiden, che non sono esattamente la band più estrema in circolazione. Se il terreno sul quale i due gruppi si muovono è comune, divergente è il modo di usare il mestiere: i Dark Tranquillity si muovono ancora in un ambito riconducibile alla musica estrema (termine ormai vuoto e che ha valore solo come mera indicazione) mentre gli In Flames hanno intrapreso una strada che grazie agli ultimi due o tre dischi li ha condotti completamente su altri lidi, più vicini al rock che al metal. E se il mestiere è certamente pane quotidiano di entrambi, alla fine quello che emerge è la qualità, questa si opposta, che contraddistingue in maniera netta “Atoma” da una parte e “Battles” dall’altra. La prima opera va ad affiancare le due precedenti “Construct” e “We Are The Void” in un ipotetico trittico che già sei anni fa aveva destabilizzato i fan dei Dark Tranquillity, inaugurando una fase in cui l’estremismo sonoro e l’aggressività venivano limate non tanto per addolcire il tutto ma più che altro per far emergere ancora di più l’elemento caratteristico del gruppo: la sua malinconia, quel fondo di disperazione che è sempre stato presente ma a volte un po’ latente perché sommerso dai watt delle chitarre e dalle ritmiche sostenute della batteria. “Atoma” sembra essere il capitolo conclusivo di questa fase, dimostrandosi quello maggiormente riuscito dei tre, nonostante già “Construct” avesse alzato di molto l’asticella della qualità dei pezzi rispetto al suo disco precedente. In “Atoma”, i Dark Tranquillity mettono in scena tutta la loro conoscenza del mestiere in ambito death metal svedese senza mai scendere a patti per rinunciare alla loro identità: un’identità che mai forse come ora fa intravedere i suoi contorni chiaroscurali, gotici e ancora più decadenti perché diretti a quella parte dell’anima dove risiede la nostra fragilità e la voglia di isolamento. In questo quadro, la voce unica di Mikael Stanne ricopre un ruolo fondamentale soprattutto durante le sue parti pulite, che seppur quantitativamente minori rispetto a quelle in growl, assumono la stessa identica importanza: l’una graffia e ferisce, l’altra soffre e consola. Difficile citare una canzone rispetto ad un’altra visto che “Atoma” mantiene integro il suo profilo qualitativo dall’inizio alla fine, senza evidenti cali; forse uno dei singoli, Forward Momentum potrebbe meglio descrivere l’aura gotica del disco ma si rischierebbe di fare torto ad un disco che non vive di singoli attimi ma che pretende invece di essere ascoltato dall’inizio alla fine, senza rinunciare comunque al gusto di affezionarsi ad un brano anziché ad un altro. I Dark Tranquillity potrebbero tranquillamente passare all’”altra sponda”, raggiungere un pubblico molto più vasto di quello del metal, semplificando ancora di più le melodie, abbandonando il growl, appiattendo la tensione delle loro atmosfere. Ne avrebbero tutte le capacità e anche, c’è da dire, la facoltà visto il meritato successo per una carriera sempre all’altezza. Ma non sembra questo il loro obiettivo e se ancora a distanza di venticinque anni non è stato raggiunto allora significa solo una cosa: che vogliono creare musica nella loro maniera, subordinando il mestiere all’espressività.

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​Cosa che invece non si può purtroppo dire dei loro amici In Flames. E attenzione, qui non si fa un discorso volto a criticare il netto cambio di genere del quintetto: a parere di chi scrive, la band ha sempre mantenuto un buon livello qualitativo, anche negli album più criticati dai fan, quelli che li hanno visti abbandonare sempre più la veste di act del death metal melodico per abbracciare un songwriting molto meno pesante e quindi più mainstream. Ad ogni uscita targata In Flames è diventato all’ordine del giorno leggere pesanti critiche che diventano il più delle volte insulti a tutto ciò che riguarda la band: esternazioni che lasciano il tempo che trovano visto che si basano non tanto su quello che effettivamente gli In Flames propongono ma su quello che, nella mente dei fan, dovrebbero proporre. Nonostante la considerazione negativa acquisita, il gruppo però ha sempre mantenuto ostinatamente la sua strada senza badare troppo a queste stupidaggini, con risultati magari altalenanti ma suonando sempre quello che più ha voluto; che la musica prodotta sia il frutto di una cosciente operazione di marketing o meno questo non ha importanza ai fini della comprensione della qualità del prodotto che gli In Flames hanno di volta in volta partorito. Ebbene, dopo questa doverosa introduzione, bisogna ammettere che “Battles” non è un prodotto propriamente riuscito. Rispetto al precedente “Siren Charms” col quale condivide un’attitudine più “rock”, quest’ultimo disco suona nella maniera più commercialmente negativa possibile. Che significa: melodie finalizzate solo ed esclusivamente ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore senza veicolare un proprio punto di vista, una propria visione artistica caratteristica. E di fatti, passati i primi due brani Drained e il singolo The End che hanno il merito di introdurre il disco con un bel tiro, già da Like Sand le cose iniziano ad ammorbidirsi per poi appiattirsi completamente nel corso dei restanti pezzi. Il problema non risiede tanto nella paraculagine del disco, scritto indubbiamente per ampliare ancora di più la propria fetta di pubblico soprattutto in territorio americano (e il disco suona molto “americano”, sia nel songwriting che nella produzione curata per la prima volta negli States, a Los Angeles), né tanto meno in alcune scelte in sede di scrittura come le tanto criticate voci infantili che spunterebbero in rari episodi e che tanto scandalo hanno seminato: no, molto più semplicemente “Battles” non ha energia né tiro, e questo è sicuramente un punto a sfavore per un disco, metal o pop rock che sia. Il problema principale risiede nel fatto che gli In Flames hanno subordinato ciò che avevano da dire con gli strumenti del rock e del metal più melodico a loro ormai famigliari al mestiere. Che il gruppo avesse abdicato da tempo alla sua identità si era capito, ma non tanto da arrivare al punto da sacrificare il suo gusto melodico e l’energia necessaria per evitare di rendere un disco un semplice compitino, fatto per di più in maniera svogliata. “Siren Charms” da questo punto di vista è di gran lunga più coinvolgente ed anche meglio concepito, “Battles” invece, pur non essendo un brutto disco, è anonimo, cosa ben peggiore. Probabilmente farà felici solo chi da un disco non pretende più di tanto visto che si ritroverà fra le mani un prodotto abbastanza anonimo e prevedibile in ogni singola nota, dall’inizio alla fine. Forse è arrivata l’ora anche per i fan di Ligabue e Vasco Rossi di avvicinarsi al death metal melodico dopo essere passati da Metallica ed Iron Maiden: “Battles” può essere un buon passaporto, peccato però che sia testimonianza non tanto di un gruppo “venduto” ma di alcuni musicisti che non sanno approcciarsi ad una materia complessa come la musica pop.

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Il pubblico che ascolta i Metallica oggi è lo stesso che per l’appunto ascolta anche Ligabue, Vasco, Iron Maiden, Ac/Dc, Kiss, Queen, legge (qualche volta) Rolling Stones, va più agli Hard Rock Cafè che ai concerti, alza le corna con la lingua di fuori credendo (ma fino a che punto) che il rock “non morirà mai perché è la musica più trasgressiva del mondo”. Peccato che i Metallica 2.0 siano la testimonianza dell’esatto contrario, un lungo funerale rock che dura almeno dall’inizio del nuovo secolo. Il fatto che si sia usata maggiormente la parola “rock” in un articolo che vorrebbe parlare di metal la dice lunga, ma i Metallica ormai sono questo, sono “rock” nel senso più ampio possibile e non solo strettamente musicale. Principalmente, diciamo che il quartetto californiano è “rock” in un senso che vorrebbe definirli essenzialmente come icone entrate nell’immaginario collettivo e quindi pop. E nell’immaginario collettivo non sono entrati solo loro ma tutto il mondo dell’heavy metal, che chi non segue il genere proprio come fa il pubblico generalista nominato all’inizio identifica esclusivamente con quello statunitense, ignorando tutto il resto. Il thrash metal poi si adatta abbastanza bene a questa operazione semplificante: estremo si, quindi ribelle, ma non tanto da spaventare come potrebbe fare il death o il black metal, con quell’aria scazzona, punk e festaiola che bene o male quasi ogni gruppo thrash americano si porta dietro; in questi ultimi anni di rievocazione totale o parziale degli anni ’80 nella musica e nel cinema, poi, capita con un tempismo perfetto. In base a queste considerazioni, un nuovo album dei Metallica non va forse giudicato esclusivamente da un punto di vista musicale ma più che altro da ciò che rappresenta per il nostro immaginario popolare. E da quest’ultimo punto di vista, “Hardwired…to Self-Destruct” assolve egregiamente il suo compito, ovvero rinfocola il mito dell’heavy metal, tirandolo a lucido cercando di dargli una patina scintillante da musica che appunto “non morirà mai perché è la musica più trasgressiva del mondo”. I Metallica, nel nuovo millennio, servono essenzialmente a questo, a lubrificare la macchina generatrice di miti con cui poi il mercato si alimenta e le frasi di corredo della band come quelle che vorrebbero il nuovo disco come un agognato ritorno alle origini sono funzionali all’intero meccanismo: i fan di vecchia data e gli estimatori si sentono rincuorati mentre tutti gli altri possono continuare a vivere adorando il totem della “musica più trasgressiva del mondo”. Su tutto ciò, ogni altra considerazione che riguardi l’aspetto prettamente musicale non incide più di tanto ed è anzi completamente subordinata. Perché alla fin fine sarebbe troppo facile smontare un disco come “Hardwired…to Self-Destruct”, visto che è la copia sbiadita e sfiorita di tutto quello che i Metallica hanno fatto in più di trent’anni di carriera, da “Kill’em All” a “Load” e “Reload”. Di certo il mestiere non li ha mai abbandonati, consentendoli di imbastire questo grande spettacolo in due atti finalizzato ad assemblare riff su riff. Quello che alla fine ne viene fuori è la riesumazione di un cadavere, un Frankenstein che a prima vista risulta imponente e grandioso ma che a lungo andare non riesce a stare in piedi, rivelandosi fragile e vuoto. Lungo l’arco dei dodici pezzi si ha come l’impressione che i Metallica vogliano dimostrare a tutti i costi, prima a sé stessi e poi agli altri, che questo Frankenstein sia capace di camminare: una continua dimostrazione di forza, di muscoli, di testosterone e di energia pompata a forza. Gli elementi ci sono tutti, proprio come piacciono ai fan, di qualunque frangia siano: Hetfield con i suoi “yeah” che più americani non si può, Kirk Hammett che fa Kirk Hammett, Rob Trujillo che cerca invano di ritagliarsi il suo spazio ed il solito insulso Lars Ulrich, un batterista che invece di migliorare in tutti questi anni è riuscito probabilmente a peggiorare, con un tocco talmente tanto anonimo da risultare paradossalmente personale perché ce l’ha solo lui così. Nonostante i four ex-horsemen ce la mettano tutta, alla fine però il gioco non regge e il disco si rivela per quello che è: un involucro vuoto, didascalico ed anche noioso. Bisogna resistere sino agli ultimi tre pezzi per avere un sussulto nella piattezza generale mascherata da varietà, con la lenta e pesante Am I Savage? che rievoca gli anni ’90 di “Load” ibridati con dei toni alla Black Sabbath, Murder One (dedicata a Lemmy) e Spit Out The Bone, pezzo che si ispira a vecchie schegge impazzite come Damage Inc. e tutto sommato riuscito. Ma è troppo poco per risollevare un album che vuole spacciarsi per qualcosa che vorrebbe tanto essere ma che non è, ovvero un’opera capace di tenere testa ai vecchi capolavori degli anni ’80. I Metallica vivono nel passato e creano la loro musica credendo ancora di poter comporre canzoni come trent’anni fa; questo è quello che per lo meno loro vogliono vendere, peccato però che il risultato sia grottesco. In “Hardwired…to Self-Destruct” conoscere il mestiere arriva a toccare il suo picco più estremo: essere schiavi del proprio stesso stile. Un vicolo cieco, che una volta imboccato può portare soltanto alla ripetizione sterile e formale di determinati stilemi. E all’autodistruzione, come indicato dal titolo stesso.
In questo eterno meccanismo, quella che era davvero la musica più trasgressiva del mondo non fa ormai più paura a nessuno ed è morta già da un pezzo per mano dei suoi stessi creatori.


Immagini tratte da: 
​discogs.com

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