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22/4/2016

MICKEY MOUSE A TEMPO DI JAZZ - Intervista ad Andrea Pellegrini e Steve Lunardi

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​di Carlo Cantisani
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​Essere trasportati nelle atmosfere dei primi cinema del secolo scorso, quando ancora il sonoro era assente e la musica dal vivo di un semplice pianoforte accompagnava le immagini in bianco e nero dello schermo: un’esperienza più unica che rara quella che si è svolta martedì 19 presso il cinema Arsenale di Pisa dove, per celebrare l’International Jazz Day indetto dall’UNESCO, il pianista Andrea Pellegrini e il violinista Steve Lunardi hanno musicato dal vivo una selezione dei primi cortometraggi della Walt Disney. Piccoli frammenti della storia dell’animazione come Steamboat Willie, The Gallopin’ Gaucho, Plane Crazy, The Fire Fighters e tanti altri (tutti con protagonista Topolino) hanno trasportato la sala gremita direttamente degli anni venti del novecento: a ricreare la giusta atmosfera un po’ vintage ci hanno pensato anche i due musicisti toscani avvezzi all’improvvisazione e al dialogo con le immagini cinematografiche.
L’affiatamento fra violino e piano è evidente, consolidato da anni di collaborazioni, contribuendo quindi alla buona riuscita dei vari commenti sonori tutti molto vari e finalizzati sia alla creazione di un tema ben preciso per ogni corto e sia per sottolineare particolari scene e situazioni dei personaggi. Considerando che i musicisti non hanno visionato anticipatamente le opere, l’improvvisazione ha avuto un ruolo fondamentale, permettendo di giocare con i fotogrammi e di non fossilizzarsi solo su un mood jazzistico ma spaziando anche in altri ambiti con piccoli accenni folk e sonorità più d’atmosfera. La musica seguiva meticolosamente il susseguirsi delle immagini senza mai sovrastarle o rubando loro la scena: un lavoro impeccabile e pieno di stile, di chi ancora crede che per fare jazz bisogna avere il coraggio di rischiare.

​Com’è nata l’idea di musicare questi primi corti della Walt Disney?
Andrea Pellegrini: Poiché al cinema Arsenale c’è la tradizione di fare musica improvvisata su vari tipi di pellicole, dai cortometraggi ai film muti, abbiamo pensato di farlo anche per questa occasione. È un’operazione che facciamo ormai da diversi anni e che ha una valenza particolare soprattutto durante il mese di aprile in cui in tutto il mondo cade la Giornata Mondiale del Jazz.
Parlando del vostro lavoro, com’è stato impostato?
A. P.: Si tratta totalmente di improvvisazione libera e quando capitano questo tipo di operazioni  spesso non abbiamo neanche visto prima il film col quale ci dovremo confrontare. Delle volte può capitare di trarre qualche idea dalle musiche originali della pellicola oppure di visionare il materiale segnandoci degli appunti, ma la maggior parte delle volte non guardiamo nulla quindi ciò che esce è pura improvvisazione. Ci si relaziona con l’immagine che vediamo lavorando per imitazione, per contrasto, per pura evocazione e spesso anche lasciandoci andare al caso.
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Sempre presso il cinema Arsenale, la settimana scorsa è stato proiettato Ascensore per il Patibolo, il film di Luis Malle con la colonna sonora di Miles Davis. In sede d’intervista, Davide Malvisi descriveva il metodo di composizione ed improvvisazione del trombettista come estremamente rigoroso e parsimonioso nella scelta delle sfumature sonore. A vostro avviso, cosa scatta nella mente di un musicista quando si pone in relazione alle immagini in tempo reale come farete questa sera?
A. P.: È un’esperienza bellissima nonché molto divertente perché sei libero di suonare quello che senti sul momento; inoltre il confronto è più stimolante rispetto al suonare da soli o a condurre una performance di musica improvvisata perché è una sfida, quindi un gioco. Il nostro approccio è abbastanza differente rispetto a quello di Davis in quanto lui si preparò un canovaccio di accordi sui quali poi improvvisare, ma il punto è che nessuno dei due metodi è meglio dell’altro, semplicemente sono due stili e tecniche diverse. Se hai una serie di accordi già preparata puoi dedicarti con più calma al timbro, riesci a capire cosa aspettarti, quindi quello che si fa è in realtà composizione in estemporanea; se invece non hai nulla di tutto questo allora sarà pura improvvisazione nella quale il caso, l’ascolto e l’interplay giocano un ruolo fondamentale. Sono approcci diversi ma in ogni caso rimane un’esperienza bellissima.
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​L’evento di questa sera riporterà indietro nel tempo agli albori del cinema quando le pellicole non erano dotate del sonoro e tutto era affidato alla bravura dei musicisti (specialmente dei pianisti visto che nelle prime sale era presente soprattutto un pianoforte) che sul momento dialogavano con le immagini. Cosa può dire ancora oggi un approccio del genere al mondo del cinema e anche del jazz? Lo ritenete ancora valido?
Steve Lunardi: Penso proprio di si, lo riteniamo adattissimo. Ogni musicista si abbandona completamente a sé stesso e non si sa cosa succederà: in ognuno di noi possono scaturire delle emozioni date da quello che sta succedendo nel film, dal dialogo fra i musicisti o anche da chi ascolta fra il pubblico. Fondamentali sono anche le nostre esperienze così come i nostri ricordi in base a film già visti in passato che magari non c’entrano nulla con quello che avviene sullo schermo ma che in noi rievocano dei collegamenti che diventano idee; queste idee si devono poi sviluppare dapprima attraverso un tema formale o informale, cioè suonato con note reali o con degli effetti sugli strumenti, e poi subire ulteriori sviluppi nel corso della composizione. L’obiettivo quindi è quello di creare delle vere e proprie composizioni, ma se il risultato sarà positivo questo sarà tutto da vedere: l’importante è rischiare.
A. P.: Il jazz dovrebbe confrontarsi sempre con il rischio. Sempre più spesso oggi si suona jazz o cose simili al jazz con poco senso dell’avventura, con poco amore per il rischio, senza mettersi in gioco producendo alla fine cose abbastanza asfittiche. Non bisogna accettare il rischio solo quando si fa musica libera ma anche quando si fa musica scritta c’è sempre un margine di improvvisazione e quindi di avventura.
S. L.: Ogni idea ti apre una porta, anzi un mondo: bisogna entrare in questo mondo e visitarlo. Se ciò che vedi e senti ti piace allora continui altrimenti chiudi quella porta e ne riapri un’altra. Il fine è questo: spostarsi da una parte all’altra continuamente in viaggio.
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Cosa pensate dell’attuale scena jazzistica italiana e di quanto jazz c’è bisogno oggi in Italia?
A. P.: C’è un enorme bisogno di jazz. Non riesco ad immaginare un altro stile musicale di cui c’è più bisogno oggi da un punto di vista strettamente sociale: riesce ad abbattere le barriere fra le diverse generazioni, i popoli e le culture in senso generale. C’è bisogno di più jazz anche da un punto di vista più musicale e tecnico perché dà l’opportunità a tutti di entrare in relazione col suono in una maniera relativamente semplice attraverso la musica d’insieme, l’improvvisazione, il gioco. Per quanto riguarda il jazz in Italia, ma così come in tutto l’Occidente visto che si è abbastanza uniformato il modo di fare questa musica, da una parte c’è un’enorme offerta nei conservatori, nelle scuole di musica, nelle accademie e nelle università così come una maggiore possibilità di poter ascoltare qualsiasi cosa attraverso internet, ma dall’altra si trova un grande appiattimento. Sicuramente in Italia il livello tecnico e delle conoscenze si è alzato tantissimo ma si è persa quella che è la poesia del jazz, ovvero il lato artigianale e la componente del fare, sommersi come siamo da un sacco di progetti e di gruppi in più ma che raramente lasciano davvero il segno. È probabile che prima un musicista era più motivato ad incidere sulla scena nazionale ed internazionale visto che era più difficile apprendere determinate tecniche jazzistiche e potersi ritagliare il proprio spazio; uscivano meno cose ma erano quasi sempre rivoluzionarie, basti pensare a Massimo Urbani, Bruno Tommaso, a Pino Minafra, alle prime cose di Fresu o a Franco D’Andrea che è stato un colosso assoluto. Oggi sono tantissimi che fanno jazz ma quella poesia nel fare musica lasciando un segno e un significato si è persa.
 
Forse in Italia ancor più che all’estero faticano a trovare spazio ed a emergere nuovi suoni e correnti, come la commistione fra jazz ed elettronica che sta prendendo sempre più piede. Questo è solo un esempio, e probabilmente fra i più ovvi e lampanti, ma dà già una certa indicazione della necessità di un ricambio di creatività in Italia.
A. P.: Questo è vero ma c’è da aggiungere che c’è una sempre minore presenza di poesia e significato nella società, e personalmente riesco a spiegarmelo solo in parte. A mio avviso siamo in un periodo molto buio e di regressione dal punto di vista culturale in cui i mezzi di comunicazione sono posseduti solo dai più potenti e tutte le manifestazioni dal basso vengono sostenute sempre di meno; c’è un conflitto sempre più acceso fra le vecchie generazioni di rettori, insegnanti, presidi e gli insegnanti e gli allievi più giovani. Precedentemente capitava di suonare molto di più e soprattutto percepivi che chi ascoltava era molto più reattivo: giusto per fare degli esempi, l’applauso dopo il solo, la chiacchierata a fine concerto, lo scambio di opinioni con chi voleva conoscerti dopo un live sono tutte piccole cose che si stanno perdendo man mano gettando nell’anonimato i musicisti e la loro arte. Le persone faticano ad emozionarsi e bisognerebbe che si torni ad un rapporto molto più diretto e attivo, magari veicolato dalla classe dei maestri di musica che anche a costo di insegnare una scala o un autore in meno potrebbero lavorare con i ragazzi in questa direzione. È questo che fa il jazz.

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