Nuova prova discografica per gli Afterhours di Manuel Agnelli: “Folfiri o Folfox” è pesante, acido, a suo modo urticante e spigoloso, ritagliandosi un posto del tutto particolare all’interno della lunga discografia del gruppo. Un passo ulteriore nella loro personale evoluzione.
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Folfiri e folfox sono due metodi chemioterapici alternativi per curare il cancro all’intestino in uno stato abbastanza avanzato. I trattamenti ai quali, come ha svelato Manuel Agnelli nelle varie interviste in seguito all’uscita del nuovo disco, si è dovuto sottoporre suo padre ma che non hanno comunque potuto evitargli la morte.
Da questo evento personale molto forte, che si va a sommare ad altre dolorose concomitanze accadute agli altri membri del gruppo, prende le mosse il decimo album degli Afterhours, “Folfiri o Folfox” per l’appunto, composto da ben diciotto tracce divise in due dischi. Trattandosi di un vero e proprio concept in pieno stile rock anni ‘70, i musicisti hanno tentato di dare un andamento ben preciso all’intero lavoro, a partire dai suoni sino agli arrangiamenti, dalla disposizione delle canzoni ai testi, riuscendo a far emergere chiaramente il carattere cupo, rabbioso e duro ma anche forte, maturo e incline ad una reazione attiva al dolore che vicende del genere possono scatenare individualmente. Il carattere così soggettivo dell’intera vicenda capitata a Manuel Agnelli (che, non dimentichiamolo, si riflette anche nelle altre e fa un po’ da trait d’union) viene espresso senza troppi giri di parole, con l’uso di metafore che rimandano a situazioni e sensazioni facilmente riscontrabili nella vita di ognuno, e quindi, proprio per questo, permettendo di creare un ponte empatico verso l’ascoltatore che si ritrova nell’ambivalente situazione di non poter ignorare l’urlo di rabbia dei musicisti e di poterne, nello stesso tempo, reinterpretare le parole a seconda della propria esperienza. ![]()
“Ambivalente” può essere l’aggettivo più adatto a descrivere anche la musica contenuta in “Folfiri o Folfox”: una commistione sonora che nasce dall’unione degli ultimi lavori del gruppo, in particolare “Padania” e “I Milanesi ammazzano il sabato”, con soluzioni inedite per gli standard degli Afterhours. Il suono asciutto, scarno e spigoloso di quei dischi viene preso a modello e fa da trampolino di lancio per innesti sonori che in quest’ultimo disco sono più pesanti e acidi, specchi perfetti di quell’urgenza espressiva che è palpabile lungo tutto il lavoro. A tal proposito, canzoni come Qualche tipo di grandezza, Il mio popolo si fa, martoriata da un riff di basso pesantissimo e cupo che si ritrova anche nella strumentale Cetuximab dai toni math e noise, o Fra i non viventi vivremo noi, scheggia hardcore impazzita, risultano dei veri e propri schiaffi a mano aperta, piccoli shock sonori per chi è abituato ai soliti Afterhours degli anni ’90. È meglio essere chiari: Manuel Agnelli e la sua ciurma ribadiscono con forza che quegli Afterhours non esistono ormai più e nei due dischi di “Folfiri o Folfox” fanno di tutto per ribadire il concetto tracciando un solco profondo che li distanzi da quel loro periodo storico. Da questo solco emergono nuove forme di vita, sconosciute e alquanto aliene, nelle sembianze di pezzi che traggono linfa vitale dalla voglia di osare e sperimentare del gruppo milanese: in primis, la title track, manifesto sonoro dell’album e pervasa da un andamento ossessivo tipico dell’indutrial alla Einstürzende Neubauten, nella quale, a metà canzone, irrompe un break di piano che da un minimo respiro al tutto. Ma è solo un’illusione momentanea e Folfiri o folfox continua imperterrita nella sua marcia, trasmettendo il suo DNA ad altri episodi interessanti che riescono a riadattarlo sotto altre forme, tipo Il trucco non c’è, che partendo da pochi suoni minimali procede per accumulazione, e soprattutto San Miguel, uno degli esperimenti più interessanti del disco dove la voce di Agnelli recita come un mantra la preghiera del santo protettore degli aviatori, “disturbata” in sottofondo da tappeti di suoni elettroacustici; sicuramente la traccia più particolare dell’intera carriera degli Afterhours.
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Se da una parte questi pezzi costituiscono l’ammasso sonoro compatto e duro, come la lava appena solidificata, di “Folfiri o Folfox”, l’altra faccia di quell’ambivalenza sopra accennata si rispecchia invece nel carattere più acustico e cantautoriale della nuova musica degli Afterhours. Scampoli di Battisti, Tenco e Dalla fanno capolino fra gli arrangiamenti, influenzando con la loro eleganza e maturità anche lo stile più classicamente rock per il quale la band è diventata famosa negli anni. Basti ascoltare ad esempio Grande e Oggi, i due pezzi d’apertura rispettivamente della prima e della seconda parte dell’album, uno specchio dell’altro, oppure la magnifica L’Odore della giacca di mio padre, con un piano quasi jazz che trasporta emotivamente l’ascoltatore e che fa della semplicità la sua arma migliore. Gli fa eco Noi non faremo niente, con il suo tono intimo e raccolto, quasi fosse una confessione, mentre Se io fossi il giudice, posta simbolicamente al termine dell’album, stupisce per il tono solare e aperto, come se il gruppo volesse comunque lasciare uno spiraglio per una futura rinascita dopo aver attraversato le intemperie del dolore.
Naturalmente sono presenti anche pezzi che si rifanno allo stile classico degli Afterhours e che saranno sicuramente apprezzati da chi è più abituato ai loro singoli: Ti cambia il sapore, Fa male solo la prima volta, Né pani né pesci o il singolo Non voglio ritrovare il tuo nome vengono però per lo più messi in ombra dalla particolarità e la ricercatezza del resto della scaletta, risultando poco incisivi sul piano musicale. Gli Afterhours hanno creato un album che procede per contrasti, un’altalena sonora capace di sferrare colpi feroci così come delicate carezze. Da un punto di vista più generale non siamo in presenza di nulla di rivoluzionario, nonostante le testate faranno a gara per eleggere “Folfiri o Folfox” a disco del mese (e probabilmente a disco dell’anno a fine 2016): gli Afterhours non sono certo i primi a sperimentare determinate soluzioni, ma anzi arrivano in ritardo rispetto ad altri artisti che lo fanno in maniera più radicale e da molto più tempo. È da sottolineare l’apporto della nuova line-up, dall’alto tasso tecnico e molto più orientata alla sperimentazione, rinnovata grazie all’ingresso di Fabio Rondanini (dei Calibro35) alla batteria e di Stefano Pilia alle chitarre (Massimo Volume, In Zaire e autore lo scorso anno di un album solista assolutamente di rilievo); si percepisce che la coppia Pilia-Iriondo ha giocato un ruolo decisivo, e che molto di quello che i due musicisti fanno in sede solista o con altri progetti è stato trasposto anche in “Folfiri o Folfox”. In ogni caso, ciò che l’album ha da offrire lo offre in maniera appagante ed onesta, senza risultare forzato. Stravolgere trent’anni di storia non è affatto facile e se un gruppo di caratura internazionale come gli Afterhours è riuscito a non scendere a compromessi così radicali tali da comprometterne la credibilità artistica, allora si può dire che “Folfiri o Folfox” è perfettamente riuscito nel suo intento. Da questo momento un ciclo si è chiuso ed un altro potrà essere aperto.
Afterhours – Folfiri o Folfox (Universal, 2016)
CD1
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Marzo 2023
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