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Negli ultimi anni in Italia si è assistito a un forte revival per quanto riguarda le sonorità anni ’60 e ’70, soprattutto quelle che hanno reso grande e conosciuto a livello mondiale il cinema di genere di quei decenni. Maestri come Morricone, Ortolani, Umiliani, Piccioni, Trovajoli e tanti altri sono stati recuperati e riportati nuovamente all’attenzione del pubblico dopo decenni di semi oblio dalle nuove generazioni di musicisti, principalmente vicini all’ambito rock ma non solo. Basti pensare al nome italiano più noto, i Calibro 35, che hanno saputo creare un ponte fra il mondo delle colonne sonore di genere e l’ambiente più alternativo della scena musicale italiana, grazie a dischi che non rinunciano al gusto della citazione e costruiti in maniera fedele al modus operandi di quegli storici compositori tanto nella sostanza che nella forma. In questo filone si sono da poco inseriti anche i Dollaro d’onore, quartetto nato nel 2012 come tributo principalmente alle colonne sonore delle pellicole spaghetti western italiane. Nel 2016 entrano in studio per registrare il loro album di debutto, Il lungo addio, un inno e, soprattutto, un personale atto d’amore verso un genere cinematografico immortale, amore esplicitato sin dal nome del gruppo, preso in prestito dal capolavoro del ’59 di Howard Hawks. È proprio questa, d’altronde, l’impressione che si ha ascoltando le note del disco, dall’iniziale traccia d’apertura E lo chiamarono Giustizia sino alla conclusiva La mano sinistra del diavolo (in memory of Bud Spencer), dove la tracklist composta da sei pezzi originali e quattro cover dispone davanti all’ascoltatore tutte le caratteristiche peculiari e i suoni del genere. Cavalcate, cori, fischi, suoni di armonica e arpeggi di chitarra in tremolo vengono riproposti fedelmente e con grande dedizione alla materia, dando vita a piccoli quadretti sonori di ipotetici film ancora da scrivere. Bastano già le prime due tracce d’apertura, la già citata E lo chiamarono Giustizia e Il lungo addio, per addentrarsi appieno nel mondo dei Dollaro d’onore. La prima apre le danze giocando con le ritmiche e le melodie tipiche del genere western, impreziosita verso la fine anche da una parte echeggiante l’epic metal, grazie alle pesanti tastiere e al groove trascinante; la seconda, invece, ricorda, nell’arpeggio iniziale, il mood sornione dei Ronin, caricando man mano l’atmosfera di epicità con la voce soprano, la tromba e la chitarra elettrica che esplode verso il finale, stemperato poi in un’atmosfera quasi jazzy. Un brano all’apparenza semplice ma molto efficace, altamente evocativo e molto ben costruito, capace di raccontare solo con le note e, proprio per questo, mette in mostra tutte le capacità tecniche e di scrittura dei Dollaro d’onore. Capacità che, se da un lato permettono al gruppo di affrontare, riarrangiandoli con un’attitudine più rock, certi pezzi da novanta della storia del cinema come le morriconiane L’estasi dell’oro, Il mucchio selvaggio e il tema di C’era una volta il west, così come quello di I giorni dell’ira di Ortolani, dall’altro sanno sapientemente impreziosire qua e là i pezzi con tocchi progressive, hard rock e sinfonici, come testimoniano, ad esempio, Duello al camposanto e Un’oncia di piombo nel cuore, due fra i brani maggiormente audaci nel mischiare le carte dei generi e la tavolozza sonora della band. La chitarra solista, in particolare, si ritaglia molti spazi e sembra guidare l’ascolto, dominando a volte la scena rispetto al resto. In ogni caso, il quartetto non perde mai di vista il proprio obiettivo, quello di scrivere canzoni dotate del giusto mood settantiano finalizzato, oltre alla esplicita e ricercata citazione, alla pura e semplice scrittura di pezzi quanto più possibile coinvolgenti. Da questo punto di vista, The Buried Gun, brano ispirato alla pellicola La pistola sepolta nonché l’unico brano cantato, mostra un altro aspetto delle potenzialità dei Dollaro d’onore, imbastendo un brano che, partendo da una classica base western impreziosita dagli svolazzi del violino, in maniera inaspettata si apre ariosamente nel ritornello, con tono quasi lirico grazie alla voce sussurata e trattenuta di Simone Salvatori degli Spiritual Front. La varietà dei registri, se pur accennata e non ancora sistematica, da l’idea di trovarsi di fronte a una piccola orchestra western (e infatti il gruppo si denota come Western Orchestra), capace di variare atmosfere, tempi, melodie e dinamiche.
In sostanza, Il lungo addio, prodotto da Marco Carnesecchi (Francesco Guasti, Silenzio è sexy), registrato presso i Parsifal Studio da Daniele Bao e masterizzato da Giovanni Versari (Muse, Calibro 35, Vinicio Capossela), si pone come un esperimento pienamente riuscito di quel revival intelligente che non venera in maniera cieca il passato ma tenta piuttosto di giocare con il lascito artistico che ha disseminato lungo la sua storia. Proprio grazie all’amore incondizionato che il disco sprigiona a ogni nota per un certo tipo di sonorità, il gruppo può permettersi di osare di più pur nel rispetto di determinati canoni. Se proseguiranno su questa strada in maniera ancora più decisa e personale, i Dollaro d’onore sapranno sicuramente regalare tanta ottima musica. E, visto che l’album è stato pubblicato il dieci novembre scorso in concomitanza con l’89simo compleanno di Morricone, chissà, magari lo spaghetti sound del gruppo potrebbe allungare in futuro la vita al Maestro ancora per un bel po’ di tempo. Dollaro d’onore – Il lungo addio (autoprodotto, 2017)
Pagina Facebook del gruppo: https://www.facebook.com/dollarodonore/ Immagine tratta da: pagina Facebook dei Dollaro d’onore
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Aprile 2023
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