A soli due anni da “Popular Problems”, ritorna Leonard Cohen con un album che rimette in gioco il suo stile musicale, “You Want It Darker”. Fra ombre, confessioni, preghiere e sottili osservazioni sull’umano, l’intimità del cantautore di Montreal viene messa a nudo ancora una volta, facendo filtrare inaspettatamente anche una tenue luce dalle sue crepe profonde.
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“If you are the dealer, I’m out of the game/If you are the healer, I’m broken and lame/If thine is the glory, then mine must be the shame/You want it darker, we kill the flame”.
Molta della poetica del nuovo album di Leonard Cohen, il quattordicesimo di una lunga carriera iniziata ormai più di una cinquantina di anni fa, potrebbe essere riassunta nei versi che fanno da incipit alla title track: uno sguardo ormai disincantato sull’uomo e sul suo doloroso destino, lo sguardo di chi ha ricercato lungo tutta la sua vita un dialogo con il divino senza mai giungere a risposte definitive e assolute. Come spesso accade a coloro che provano una profonda inquietudine nel problematico rapporto fra l’uomo e il mondo, il racconto biblico diventa anche parabola personale ed interiore, dove ad un Dio vendicativo, giudicante e lontano dalle cose umane ne viene sostituito un altro, fatto di sangue, dolore, miseria e compassionevole fragilità. I due piani, quello biblico/religioso e quello puramente soggettivo, iniziano quindi a sovrapporsi, divenendo, soprattutto per un autore come Cohen, l’uno specchio dell’altro. Si potrebbero estrapolare numerosi altri versi che costellano le pagine del libretto dell’album a supporto di questa interpretazione. In ogni caso, si tratterebbe di una delle numerose possibili, segno della profondità della poetica di Leonard Cohen e per questo non meno degno di un Nobel per la letteratura del suo compagno di versi Dylan (e proprio l’Italia, fra l’altro, l’ha riconosciuto, assegnandogli il premio per la letteratura Principessa delle Austrie di Oviedo nel 2011). Poco prima dell’uscita ufficiale del disco, il musicista aveva confessato in varie interviste di essere ormai pronto a morire. La sensazione, spesso naturale in chi come lui è arrivato alla veneranda età di ottantadue anni, di dover mettere un punto alla propria vita dopo aver dato ed espresso tanto, l’attesa e la preparazione alla fine: tutte queste sensazioni attraversano le nove tracce di “You Want It Darker” e si cristallizzano in uno sguardo distaccato e pacifico, proprio di chi riflette serenamente sul proprio passato e sul presente. Cohen ha deposto le armi e ha smesso di lottare: ciò che gli accade intorno lo accetta, non con rassegnazione, ma con quel muto distacco di chi ne ha viste e vissute tante sulla propria anima. È arrivato il tempo, sembra suggerire, di fare un punto definitivo della situazione, di provare a tirare le somme senza doversi inutilmente giustificare delle proprie azioni, come canta in Leaving The Table: “I don’t need a reason, for what I became/I’ve got these excuses, they’re tired and lame/I don’t need a pardon, there’s no one left to blame/I’m leaving the table, I’m out the game”. ![]()
Cohen abbandona il tavolo tirandosi fuori dai giochi: non per stupido orgoglio nel voler vincere a tutti i costi o nel non saper accettare la sconfitta. Più che altro perché la partita che si sta giocando forse non gli appartiene più, preferendo seguire un’altra strada. Da un punto di vista musicale, questa strada, una volta intrapresa, stupisce per la capacità di sapersi nuovamente trasformare senza mai perdere la sua integrità. Complici di Cohen in questa avventura sono Patrick Leonard, suo collaboratore da lungo tempo, e il figlio Adam, musicista e soprattutto produttore del disco, al quale viene dedicato un accorato e sentito ringraziamento visto che, in seguito a delle complicazioni di salute del cantante, il lavoro sul nuovo disco rischiava di venire abbandonato del tutto ma che grazie alla perseveranza e al supporto di Adam, “You Want It Darker” ha potuto alla fine vedere la luce. I due comprimari si rivelano essere assolutamente fondamentali per dare un particolare imprinting alle canzoni e per far emergere, nel corso degli ascolti, il profilo ben definito del disco.
La delicatezza e la profondità dei versi, nonché la musicalità semplice delle trame melodiche di Cohen, vengono esaltate da un background strumentale che si avvale dell’apporto di cori maschili dal tono sommesso e crepuscolare (la Congregation Shaar Hashomayim Synagogue Choir) e dall’orchestrazione dal sapore romantico di violini e violoncelli che fanno spesso da contrappunto al piano, al suono caldo dell’organo, ai bassi scuri e pulsanti e alle immancabili voci femminili che accompagnano da tempo il percorso musicale del cantautore. Su tutto questo apparato, perfettamente costruito e minuziosamente arrangiato, si staglia la caratteristica voce di Cohen, baritonale e profonda, vero e proprio marchio di fabbrica che mai come in “You Want It Darker” si trova a suo agio, tingendo essa stessa di un nero elegante l’atmosfera rarefatta e intima della musica. ![]()
La mezz’ora del disco assume i contorni di un rituale, di una messa privata dove Leonard Cohen ne è l’officiante e gli ascoltatori i fedeli pronti a condividere con lui i suoi segreti e le sue idee sul tempo, la morte, l’amore e l’abbandono. Il brano d’apertura ci introduce in questo mondo sacro e profano insieme, dove un profondo giro di tastiera, efficace nella sua semplicità nel dare un pacato dinamismo all’intero pezzo (tanto da essere oggetto di un remix ad opera del tedesco Paul Kalkbrenner), sposta per noi i pesanti tendaggi del teatro umano imbastito dal cantautore. Sembra di assistere, per l’appunto, ad una piccola messa in scena con le ombre cinesi, narrata da Cohen e commentata a più riprese dal coro maschile che tenta di inseguire la voce cavernosa del cantante: si ritroveranno insieme a declamare con giubilo quel “Hineni Hineni”, parola ebraica che sta a significare pressappoco “sono qui” o “sono pronto”. Quanto più si prosegue nell’ascolto del disco, tanto più si rimane ammaliati dal suo elegante fascino dal portamento signorile, ma, nel suo incedere sensuale, anche molto femminile: basti ascoltare ad esempio Traveling Light, brano che irrompe con un romanticismo soffuso e bisbigliato grazie al violino, una piccola dedica ad un amore forse ormai perso (e chissà, magari rivolto alla musa di Cohen, Marianne Ihlen, recentemente scomparsa); o Leaving The Table e If I Didn’t Have Your Love, che recuperano l’essenzialità di alcuni vecchi dischi come “Songs Of Love And Hate” e “New Skin For The Old Ceremony” ma riadattandola alla sensibilità musicale del Cohen del duemila. L’album si avvale di alcuni dei pezzi più intensi mai scritti ed interpretati dal canadese negli ultimi anni, come dimostra il terzetto che accompagna l’album verso la fine: It Seemed The Better Way, Steer Your Way e String Reprise/Treaty. Sono brani, questi, che giocano con i silenzi lasciando risuonare le vibrazioni delicate degli archi, o che affondano nella loro malinconia, nell’inquietudine e nella ricerca di una umana forma di redenzione. Leonard Cohen dispiega il suo mondo dinanzi a noi e non cede neanche per un attimo all’autocompiacimento; pur consapevole di essere uno dei grandi della musica e della poesia messa in musica, il suo sguardo non si fa mai così lontano da diventare ermetico ed impenetrabile ma, anzi, si confessa e non ha paura di farlo.
L’oscurità di “You Want It Darker” è densa ma non tanto da diventare tenebrosa e apocalittica. È l’oscurità di un anima che ha sempre guardato verso quegli spazi invisibili che sono fra le cose: i sentimenti, i corpi, le parole. Nonostante possa essere dotato di sonorità meno varie rispetto al precedente “Popular Problems”, questo nuovo lavoro sfodera in compenso una ricercatezza e un carattere del tutto singolari che lo pongono indubbiamente fra i lavori più interessanti del cantautore. Come molte delle cose complesse che fanno della semplicità il loro cuore pulsante, “You Want It Darker” saprà donare emozioni differenti a diversi ascoltatori. Si era detto prima che Cohen aveva ammesso di essere pronto ad accogliere la morte. Non è del tutto vero, dopo quella iniziale affermazione, infatti, il musicista ne ha rilasciata un’altra, che dice: “Ultimamente ho detto di essere pronto a morire ma penso di aver esagerato. Ho sempre avuto la tendenza a drammatizzare, intendo vivere per sempre. O almeno fino a centoventi anni”. Leonard Cohen e i suoi versi saranno ancora lì dove noi non saremo più. Leonard Cohen – You Want It Darker (Columbia/Sony Music, 2016) Tracklist:
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Aprile 2023
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