di Carlo Cantisani
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Cypress Hill – Elephants On Acid (BMG)
Pesanti, oscuri e stonati. Questi sono i Cypress Hill che ogni amante dell’hip hop ha conosciuto e ha imparato ad amare. E che aveva perso per strada, come testimoniò Rise Up, album del 2010 che, molto timidamente, cercò di riportare sotto i riflettori il gruppo, con esiti alquanto deludenti. Elephants On Acid fa il suo ingresso ben otto anni dopo, e prepotentemente riporta l’ascoltatore al lontano 1995, anno in cui uscì quel capolavoro corrispondente al nome di III-Temples of Boom. Nel nono album in studio della formazione californiana ritroviamo bene o male gli stessi suoni e soprattutto le stesse atmosfere che hanno contribuito a creare quel profilo così unico e caratterizzate dei Cypress Hill: beats grassi e acidi, tocco psichedelico e sottile vena di follia da chicos latini, il tutto avvolto da un impenetrabile fumo di ganja, com’è d’obbligo aspettarsi. Merito soprattutto del ritorno al timone in veste di produttore di Dj Muggs, che, grazie al suo lavoro sui 22 pezzi del nuovo album, si conferma la vera e propria anima del gruppo, senza nulla togliere alle rime di B-Real e Sen Dog, impegnati a snocciolare versi su trip extrasensoriali e sull’onnipresente marijuana. È grazie a lui che l’album suona convincente, compatto nonostante una tracklist molto lunga, frammentata da numerosi intermezzi strumentali che però non disturbano l’ascolto ma, anzi, fanno da ponte fra una sezione e l’altra del disco, donando ancora più unità al tutto. Classico senza essere retrogrado o inutilmente nostalgico, Elephants On Acid restituisce – finalmente – dei Cypress Hill convincenti e in forma. In alto i bong, e bentornati. ![]()
Noname – Room 25 (auto prodotto)
La stampa americana si lascia andare, spesso e volentieri, a lodi sperticate per questo o quel fenomeno musicale del momento: nel decennio che ormai sta per volgere a termine, il genere a cui è stato riservato questo trattamento è indubbiamente l’hip hop (con i suoi vari stili e diramazioni). Oggi tocca a Fatima Nyeema Warner, in arte Noname, classe 1991 e proveniente da Chicago, patria della slam poetry, all’ombra della quale cresce la giovane e futura rapper sin dal 2010. In Room 25, primo vero e proprio album dopo il mixtape di debutto Telephone del 2016, riunisce l’amore, il rigore e la bellezza della parola, mutuati dai suoi trascorsi durante le competizioni di poesia: da qui al rap, quindi, è un attimo (grazie anche al supporto di nomi importanti come Chance The Rapper). Il disco della Warner è un diario intimo che prende le mosse dal trasferimento da Chicago a Los Angeles che la poetessa e performer ha affrontato negli ultimi due anni, quando ne aveva 25, età in cui, come da lei stesso dichiarato, ha inoltre perso la verginità. In Room 25, il sesso, le relazioni interpersonali, l’identità, di donna e di afroamericana, nell’America contemporanea sono tutti temi che si incontrano e si scontrano con pezzi che raccontano esperienze più personali e soggettive, tutti frammenti di uno sguardo lucido e spontaneo fra ciò che è fuori e ciò che sta dentro, fra mondo e persona, come rappresentato anche dalla caotica copertina. Alla fine, ciò che emerge è sempre la Warner e la sua delicata fragilità - un po’ sulla scia di Blonde di Frank Ocean. I pezzi a base di jazz e neo-soul, graziati dall’ottima e certosina produzione di Phoelix, sono talmente intrisi di groove e di melodie aperte e ariose da risultare immediatamente coinvolgenti e per niente scontati; la voce di Warner ora canta, ora invece recita e declama, sempre in maniera frizzante e accattivante. Sia chiaro, niente che non si sia già sentito negli ultimi anni. Ma la peculiarità di un album come Room 25 non risiede nell’originalità, e qui non ci si sforza neanche più di tanto di raggiungere questo obiettivo. Tutto suona però fresco e interessante, e per certi versi anche incredibilmente maturo per essere il primo full lenght. Una piccola, grande sorpresa, di quelle che non ci si aspetta, e che pone le basi per qualcosa di ancora più grande in futuro. Speriamo solo che il marketing e gli addetti ai lavori non abbiamo sommerso la memoria a breve termine degli ascoltatori con un ulteriore, ennesimo fenomeno della black music. ![]()
Kurt Vile – Bottle It In (Matador)
Ritorna il folletto della Pennsylvania, e come al solito è sempre un bel sentire. Con il nuovo Bottle It In, Kurt Vile raggiunge quota otto album (se si considera anche il lavoro scritto insieme alla sua controparte femminile, Courtney Barnett, ovvero Lotta Sea Lice) in un lasso di tempo relativamente breve. Quasi un disco all’anno, e questo dice tanto sulla dedizione e la necessità di fare musica per il cantante e chitarrista americano. Ogni lavoro un passo ulteriore verso una forma sempre più personale e definita di folk rock con venature lo fi e psichedeliche, un aggiornamento 2.0 di suoni classici risalenti agli anni ’60/’70 ma reinterpretati attraverso una sensibilità che si potrebbe definire, molto generalmente, “indie”. L’atteggiamento un po’ svagato, quasi da eterno bambino, la chitarra sempre sotto braccio e la “fattanza” fanno poi il resto. Al di là di facili etichette, ciò che rimane è la sostanza, e in Bottle It In ce n’è parecchia. Ancora una volta Kurt Vile si conferma un musicista di razza e un songwriter esperto che sa cosa vuole e sa perfettamente quali suoni e quali note andare a toccare. Si intuisce già da subito dall’opener Loading Zones, estremamente catchy e dal flavour tipicamente americano, come se i Creedence Clearwater Revival si fossero ritrovati in viaggio sulla Road 66. Il resto della scaletta si muove fra atmosfere più ovattate e rilassate, come uno dei pezzi simbolo del disco, Bassackwards, dall’andamento cinematico: una chitarra continuamente in reverse solca il cielo azzurro illuminato da un sole pallido, che illumina pigramente una spiaggia semi deserta; altre poi più trascinanti e cariche di groove, come Check Baby, dall’aria western, o Yeah Bones, che non mancherà di far muovere i fianchi. Ma questi sono solo esempi, stralci di una scaletta molto compatta che non conosce cali significativi, perché la chitarra di Kurt Vile - protagonista del disco ma pronta, allo stesso tempo, a mettersi da parte quando è necessario – è abile nel ricamare intarsi su intarsi di arpeggi, accordi e suoni. In definitiva, Bottle It In non aggiunge niente a quanto già fatto in passato dal musicista americano, limitandosi a confermare, quindi, la sua caratura già conquistata nel corso della sua carriera. Questo non toglie però che i pezzi possano riservare più di una sorpresa a ogni ascolto, e la loro bellezza sta proprio nel perdersi dentro di essi, come dei piccoli sentieri per un unico grande viaggio che conduce dritto dritto nella testa stramba e disordinata del loro artefice. Magia di chi riesce a mascherare la complessità sotto un’aura di semplicità. Quel genietto nella bottiglia di Kurt Vile ce l’ha fatta di nuovo e, dalla copertina, sorride sornione osservandoci soddisfatti. ![]()
Manes – Slow Motion Death Sequence (Debemur Morti Productions)
È incredibile quanto un gruppo così originale e personale come i Manes sia continuamente messo da parte, di certo non oggetto di hype esagerato come i connazionali Ulver. Eppure di creatività, sensibilità e voglia di osare il quintetto di Trondheim non è certo sprovvisto, anzi, si potrebbe dire che Slow Motion Death Sequence, il nuovo parto della band, riesca anche a superare The Assassination of Julius Caesar degli Ulver in più di qualche momento, se proprio si vuole insistere sui paragoni. I misteri del marketing. Al quinto e ultimo album dei Manes non manca nulla per essere apprezzato da una platea più vasta, anzi, rispetto al precedente e meraviglioso Be All End All - squarcio cubista di art rock mutevole e sperimentale - qui il comparto melodico è ancora più evidente. Colpiscono immediatamente le linee vocali di Asgeir Hatlen, impegnato a donare pathos e sentimento a ogni nota, così come quelle delle due voci femminili di Anna Murphy e Ana Carolina Ojeda: il comparto vocale è un fiore delicato e fragile che si innesta su una musica gelida e grigia, continuamente cangiante nei suoi riflessi argentei e frastagliati, presi in prestito ora dall’industrial, ora dal trip hop anni ’90, ora dall’electro rock mutuato da dei Depeche Mode ancora più avvelenati e acidi. Chi conosce i Manes sa che ormai da tempo la band ha abbandonato i lidi del metal per avviarsi su sentieri molto più impervi; o che, per lo meno, ha saputo sfruttare una certa sensibilità mutuata dal metal per piegarla a ciò che ha voluto trasmettere. Per tutti gli altri, il gruppo norvegese può essere una scoperta unica, l’entrata in un mondo che all’apparenza mostra un guscio freddo e impenetrabile ma che rivela invece un nucleo caldo, accogliente, fragilmente umano. A patto però che ci si approcci senza pregiudizi e con la giusta apertura mentale. Se non si ha paura di affrontare quell’arte che, anche a costo di essere molto diretta e brutale, mette in mostra i lati più intimi della propria personalità, così come le idee di perdita, lutto e isolamento, allora Slow Motion Death Sequence potrà risultare una sfida intrigante. Immagini tratte da: www.hotnewhiphop.com/ www.stereogum.com/ www.brooklynvegan.com/ dmp666.bandcamp.com
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Aprile 2023
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