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Tutto ha inizio con una domanda, semplice e precisa, per il quarto album da solista di uno dei bassisti più famosi della storia della musica nonché eminenza grigia del rock, a volte in disparte ed altre prepotentemente sotto i riflettori per via dei suoi faraonici tour o per le frecciatine (non tanto velate) verso ex colleghi di una vita. Nonostante siano trascorsi ben venticinque anni dalla sua ultima fatica in studio, Roger Waters non smette ancora oggi, a settantatre anni suonati, di domandarsi e domandare, interrogarsi e interrogare, capirsi e capire. Is This The Life We Really Want? è sin dal titolo un disco intimamente watersiano: provocatorio, inquieto, diretto anche a costo di risultare scontroso e indisponente, quasi burbero in certi casi. Ma più di ogni altra cosa, è indubbiamente un album politico nel senso più ampio del termine, in quanto trae linfa vitale dalla storia recente e da tutta una serie di problematiche sociali e geopolitiche che stanno segnando il nuovo secolo, all’interno delle quali “l’uomo watersiano” cerca affannosamente di trovare un senso e un modo per placare il proprio intimo dolore. Naturalmente gli U.S.A. di Trump trovano una posizione fondamentale all’interno della galassia ideologica di Waters, come ha dimostrato in maniera molto esplicita il suo recente tour Us+Them, elevandoli a simbolo deviato del potere. Al di là di queste considerazioni, si può notare come il neo presidente americano non sia completamente il punto d’arrivo del discorso portato avanti lungo le dodici tracce dell’album, ma piuttosto uno spunto, un pretesto ed anche un passaggio necessario attraverso il quale Waters analizza il presente per mettere in discussione anche il passato ed interrogare il futuro in un’ottica più universale. Nelle parole del musicista, la sua opera vorrebbe essere “un viaggio che parla della natura trascendentale dell’amore. Di come l’amore ci può aiutare a passare dalle nostre attuali difficoltà a un mondo in cui tutti possiamo vivere un po’ meglio”. Sarà l’esperienza o l’età, o magari entrambe, ma Waters sembra aver concesso un’apertura che possa lasciar intravedere un minimo di serenità per l’uomo, una pace probabilmente momentanea ma pur sempre raggiungibile e quanto mai oggi necessaria: i foschi presagi di The Wall, le grottesche raffigurazioni di Animals e i fantasmi di The Final Cut vengono adesso tenuti a bada. Eppure, essi non sono mai completamente messi da parte, esorcizzati o, peggio ancora, dimenticati. Anzi, Is This The Life We Really Want? si ciba delle stesse inquietudini, delle stesse delusioni e della stessa amarezza che Waters ha narrato lungo la discografia dei Pink Floyd e nel suo nuovo album non fa nulla per nasconderlo: il tono e la cifra stilistica sono sempre quelli e sembrano non essere stata scalfiti dal tempo. È scontato quindi stare a sottolineare come lungo le dodici tracce i rimandi al glorioso passato dei vecchi album della sua ex band madre si sprechino, e molto probabilmente non poteva essere altrimenti: quella voce, quelle ritmiche, quelle melodie, quei suoni e quelle voci che fanno da sottofondo o da raccordo fra un brano e l’altro, entrate ormai nell’immaginario collettivo e nel patrimonio musicale, stanno tutte lì, pronte per essere “abusate” dall’ascoltatore che, da questo punto di vista, non troverà assolutamente nulla di nuovo. Una tavola perfettamente apparecchiata dove ogni cosa è lì dove dovrebbe essere, che non riserva particolari sorprese ma, semmai, certezze. Il problema però è che, a differenza degli altri album passati del bassista inglese, quest’ultimo rischia di offrire un menù alquanto deludente, con portate insipide e che non soddisfano completamente l’appetito. Questo è imputabile proprio al taglio che Waters ha voluto dare al disco, dando estremo risalto alle parole e ai testi che risultano essere il mezzo principale attraverso cui viene veicolato l’intero mondo messo in piedi dalle canzoni. Attraverso la parola, infatti, vengono descritte scene e immagini che restituiscono la natura cinematica della musica watersiana e la sua vena polemica contro tutto ciò che non va oggi nel mondo: saltando qua e là lungo la tracklist ci si può imbattere ad esempio nell’ambientazione di una guerra appena terminata in The Last Refugee, nelle incarnazioni del punto di vista di Waters in Dio e in un drone, entrambi personaggi in Déjà Vu, nell’ultima danza fra un uomo e una donna morta durante un’esplosione in The Most Beautiful Girl, nelle invettive contro il passato di Broken Bones e nelle critiche alla società contemporanea e alle accuse contro un certo tipo di politica in Picture That e, soprattutto, nella title track, il cuore rabbioso e polemico del disco. Si può tranquillamente affermare che se non si leggessero i testi si faticherebbe a entrare nel mondo del disco poiché la musica viene quasi del tutto depotenziata. Essa risulta infatti relegata ad un ruolo secondario, di contorno e pressoché ornamentale e quasi a nulla valgono l’ottima, asciutta e compatta produzione di Nigel Godrich, alcuni arrangiamenti d’archi o un brano come Bird in a Gale, dove la voce diviene finalmente strumento fra strumenti e la musica ritrova in parte una via per manifestarsi in tutta la sua ricchezza e varietà d’atmosfera. Rispetto a dischi come ad esempio The Final Cut (ancora oggi molto sottovalutato), parole e musica sembrano viaggiare su binari separati: il risultato, come si è detto, non va a beneficio della seconda ma, paradossalmente, rischia di intaccare anche le prime, facendo a tratti assumere all’intero discorso messo in piedi da Waters connotati meramente retorici e poco incisivi. Dove arriva la musica non arriva la parola, e viceversa: Is This The Life We Really Want? poteva assumere la forma di una raccolta di poesie ma Roger Waters, pur essendo ancora oggi dotato della rabbia di un tempo e di una profonda sensibilità, è un musicista e questa volta ha lasciato la sensazione di un’occasione alquanto sprecata.
Roger Waters – Is This The Life We Really Want? (Columbia, 2017)
Immagini tratte da: ttp://www.rollingstone.it
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Aprile 2023
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