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2/12/2016

MUSICALBOX - The Lumineers, "Cleopatra"

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di Enrico Esposito


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Ascoltando "Ho hey", successo clamoroso che li ha portati a vendere due milioni e mezzo di copie in tutto il mondo con l'album omonimo d'esordio, sembra di ritrovarsi immersi tra i fumi e i whiskeys di un pub di Dublino o dintorni. Niente di tutto ciò. Ancora il singolo successivo, "Stubborn Love" (altra grande hit), lascia intendere una derivazione irlandese per i The Lumineers, ma nulla di tutto ciò corrisponde alla realtà, bensì ad un rapido e scorretto abbaglio.
The Lumineers infatti non ripropongono soltanto una nuova ventata di folk sull'onda di una splendida rinascita per questo genere grazie alle produzioni di altre bands anglosassoni come gli Of Monsters and Men, Mumford & Sons, The Strumbellas su tutti. Non soltanto questo quantomeno. C'è rock e ritmi decisi, toni entusiastici di scoperta giovanile, ballate vibranti perfette per essere eseguite in strada a capo di una parata concepite grazie all'attività da buskers (i cantautori di strada per l'appunto) più che decennale che li contraddistingue. Uno spettacolo vivo, trascinante, da brindisi impetuosi, soprattutto dal vivo come ben ricordano ad esempio qui in Italia i fans che li accolsero al Pistoia Blues del 2014. Adesso, dopo quattro anni di tour da un emisfero all'altro, l'ansia dei primi spettacoli soprattutto per il frontman, e il ritiro in sei mesi in un cottage eremitico per la registrazione, i The Lumineers celebrano un distacco ulteriore dall'etichetta maldestra di folksingers e basta manifestando attraverso il secondo album "Cleopatra" un'espressa volontà di maturità e avvicinamento ad un pop votato all'introspezione.


Partiamo dall'origine dei componenti del gruppo. Il cantante Wesley Schultz e il batterista Jeremiah Fraites, amici di lunga data cresciuti a Ramsey, sobborgo a sud di New York, dopo aver militato in altre formazioni decidono di trasferirsi nel più economico Colorado, e per la precisione a Denver, laddove assoldano una violoncellista, Neyla Pekarek, insieme alla quale compongono lo stabile trio dei The Lumineers. Dal 2005 al 2011, anno della svolta con il singolo "Ho Hey", il loro folk-rock è passato dai locali con a stento un centinaio di spettatori alle platee oceaniche di Glastonbury, permettendo ai musicisti di affinare le loro doti e in particolar modo a Wesley Schultz di dedicarsi alla scrittura di testi da un contenuto maggiormente oscuro e riflessivo.
"Cleopatra" consta di 11 brani che non superano mai i quattro minuti, con il risultato di stringare in appena mezzora di ascolto storie vissute da personalità differenti ma unite da un'aria di rimorso forte, da una tristezza e caos interiore dominanti che denotano una netta separazione dai toni più ottimistici del lavoro precedente. Sono i ritratti femminili, attinti dalla letteratura ("Ophelia") e dalla storia ("Cleopatra", title track che in copertina mostra la regina del cinema muto di inizio secolo Theda Bara nei panni della tormentata sovrana egizia), o semplicemente inventati di sana pianta ("Angela") a racchiudere nella prima metà dell'album la profondità di pensieri che vanno molto spesso a ritroso, perchè ritornati alla memoria in un attimo di stasi quando però si è fatto troppo tardi.
Ma attenzione. Non parliamo delle solite crisi di rimpianto buoniste, che mettono in risalto lo smarrimento di un amore per colpa degli altri o della sorte avversa. Come la Cleopatra del I secolo a.C., la sua versione moderna vive nella perfetta consapevolezza di desiderare di far fuori la moglie dell'uomo che ama, di provar goduria nell'essere impura, mentre Ofelia cade nella rete della febbre della gloria sotto i riflettori mettendo da parte tutto il resto. Bontà e cattiveria fanno a cazzotti all'interno del corpo di queste donne, finendo per arrendersi agli errori e spegnendosi con una morte solitaria e di rimpianto. La morte diventa una presenza cruciale, alla quale la conclusione dei racconti arriva sempre, come in "Long way from home" che descrive la perdita dolorosa da parte della voce narrante del compagno di fuga dalla casa natale, e con essa dal peso della famiglia e dal confronto insoluto con la fede.

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Se l'istituzione della Chiesa è presentata in una dimensione oppressiva e integralista da cui occorre scappare per poter finalmente vivere in libertà il proprio tempo come in "Sleep on the floor", d'altra parte il legame diretto con Dio, il bisogno di pregarsi per chi se ne è andato o si è tradito, e la ricerca di una chiarezza spirituale si addensano negli animi dei personaggi senza rappresentare però un traguardo finale da raggiungere, bensì una componente effettiva della vita da non poter trascurare o annullare. Menzione speciale merita la bellissima "Where the skies are blue", che mette in scena l'esaltazione dei pregi di una madre per bocca del figlio, e di legame familiare, questa volta tra un padre e un figlio, parla  "Gun song" in un flashback che porta il protagonista all'infanzia e ad un ricordo del suo genitore. Temi cupi e l'insofferenza ai pregiudizi della società animano altre canzoni, tra cui spiccano "My eyes" e la conclusiva "White lie".
La calma solenne, il rifugio momentaneo nella riflessione espressi dai testi di Wesley Scultz trovano nella musica un partner attivo che produce un affievolimento crescente della strumentazione, quasi come a segnare un lento accompagnamento del pubblico dal folk dei primi due brani derivato dal disco d'esordio ad un'innovativa dimensione pop, acustica, intimistica. L'atmosfera da stornello, il canto collettivo e gli stessi cori, elemento caratterizzante de "The Lumineers", cedono il posto agli assoli di pianoforte, agli intrecci della voce con la chitarra, all' attenuarsi del suono del violoncello da parte di Neyla Pekarek.
Tanto i contenuti, quanto la forma, giungono dunque ad obbedire alla necessità da parte dei The Lumineers di trasmettere con "Cleopatra" un unico centrale messaggio, ossia quello di non voler rimanere ancorati ai fasti di "Ho hey", all'indie-folk disimpegnato, ed essere di conseguenza confinati ad una determinata etichetta. "Cleopatra" costituisce senza dubbio un rischio, ma un rischio calcolato con consapevolezza, una transizione indispensabile per non porsi dei limiti.


Immagini tratte da:
Immagine 1 da www.rollingstone.it
Immagine 2 da www.nytimes.com

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