Rewind è la rubrica musicale dedicata ai dischi e agli artisti del passato, quelli da scoprire per la prima volta o riscoprire perché non hanno ancora finito di dire tutto quello che avevamo da trasmettere. La inauguriamo facendo un salto indietro di vent’anni con “Telegram” del folletto islandese Bjork, artista che ha segnato gli anni ’90 e i duemila con album sempre diversi fra loro.
Basterebbero queste poche ma dirette frasi per descrivere in sintesi l’importanza che riveste “Telegram” nella carriera di Bjork Gudmundsdottir, universalmente conosciuta semplicemente come Bjork: un’importanza non solo a livello artistico ma anche, e soprattutto, a livello personale ed umano, come ogni disco dell’islandese dal 1993 ad oggi.
Era esattamente la metà degli anni ’90 quando il suo secondo album “Post” arrivò sulle scene internazionali, come una lettera inaspettata da una persona conosciuta da poco ma impressa nella nostra mente in modo indelebile. Ed era proprio questa la sensazione che aleggiava nel periodo immediatamente successivo al debutto da solista di Bjork con, per l’appunto, “Debut” del ’93, un disco che, a dispetto della copertina che ritrae l’islandese in un atteggiamento innocente e fragile, mostra già tutta la sua incredibile personalità da compositrice, arrangiatrice ed interprete. Quella personalità così esuberante, infantile, pura e proprio per questo potente che tanto rispecchia la bellezza e l’ambiguità dell’Islanda, terra del ghiaccio e del fuoco, percepiva già di non potersi limitare ad esprimersi esclusivamente entro i classici album in studio, concependoli come capitoli chiusi e conclusi, materia sonora che esauriva solo in quel limitato minutaggio tutto il suo potenziale. Nacque così per Bjork la necessità di espandere le possibilità che le canzoni dei suoi album ufficiali potevano offrire in mano a dj e produttori di varia estrazione, principalmente elettronica. Le basse frequenze del dub, del trip-hop, della dance e dell’hip-hop hanno sempre costituito quel suono “nascosto” fra gli arrangiamenti delle canzoni, costituendo un’impalcatura solida e nello stesso tempo cangiante che, nel contrasto con le linee vocali o con la delicatezza degli strumenti ad arco, da sempre amati dalla cantante, formavano un insieme sonoro unico e immediatamente riconoscibile. Nei dischi di remix, Bjork decide quindi di far emergere questa massiccia impalcatura e, come un bambino con le costruzioni, di smontarla o farla smontare per essere riassemblata in altre forme.
uscito per la Polydor, co-prodotto dall’inglese Nellee Hooper (produttore di U2, Smashing Pumpkins e Sinead O’Connor) e Bjork stessa e contenente sei remix a firma Underworld, Black Dog e The Sabres of Paradise, contiene alcuni pezzi ormai diventati classici del repertorio della musicista islandese come Human Behaviour, One Day, Come to Me e The Anchor Song, completamente stravolti dalle pulsazioni della techno, da ritmiche tribali semi-orientali e da beat riverberati e psichedelici in pieno stile elettronica anni ‘90. L’EP è un piccolo diadema sommerso nella discografia di Bjork che è opportuno riscoprire per comprendere appieno le radici della fascinazione per certe sonorità più ruvide ed elettroniche da parte dell’artista islandese.
Un anno più tardi, “Post” bisserà il successo di “Debut”, spostando l’asticella della sperimentazione per Bjork un po’ più in là grazie a un sound che giocava con il jazz, l’elettronica, il rock e con orchestrazioni classiche. Come da costante nella carriera della musicista, la copertina è la fotografia che mostra non solo quel preciso spaccato della sua evoluzione musicale ma anche della sua evoluzione personale. E mettendo a confronto la cover di “Post” e della sua controparte remixata del ‘96 “Telegram”, la differenza è lampante: colorata, “pop” e pervasa da una forza quasi cinetica l’una, più dark, sfocata e inquieta l’altra. Il volto di Bjork, immortalato dal fotografo giapponese Nobuyoshi Araki, sembra vibrare, immerso in una luce al neon assolutamente spettrale nella quale lo sguardo della musicista sembra scrutare dentro l’ascoltatore in modo severo: starà forse mandandoci silenziosamente a quel paese, come lei stessa confessava nello stralcio dell’intervista? Non è dato saperlo ma la musica può forse aiutare ad interpretare in qualche modo il suo umore (apparentemente) impenetrabile e cangiante, così come sono cangianti i remix contenuti nell’album.
Ad eccezione del remix di Enjoy, tutti i pezzi erano già conosciuti al pubblico inglese per essere stati i b-sides dei singoli di “Post”, ma ascoltarli raccolti tutti insieme costituisce un’esperienza sicuramente molto più interessante, permettendo all’ascoltatore di rendersi conto dell’incredibile varietà e qualità dei remix. Già le prime due tracce lasciano spiazzati: si passa infatti dall’acidissimo remix di Possibly Maybe di LFO agli archi contrappuntistici del Brodsky Quartet che praticamente reinventano Hyperballad in una versione capace di competere con l’originale (e che sembra anticipare di nove anni la musica di “Vulnicura”). Eumir Deodato, storica figura degli anni ’70 per il funky-jazz orchestrale nonché produttore di “Telegram” insieme al solito Hooper, Tricky e Howie B (questi due artefici anche del sound di “Post”), ritorna su uno dei classici da lui stesso composti per la cantante islandese un anno prima, Isobel, rendendola più funky, carnale e sensuale rispetto all’eterea delicatezza dell’originale. I bassi potenti irrompono nel remix di I Miss You, con una cadenza hip-hop che trasforma completamente un pezzo che in origine era molto più da rave; come se già tutto questo non bastasse, sono da sottolineare però le due vere sorprese del disco, ovvero l’inedita My Spine (originariamente pensata per “Post” ma alla fine esclusa a favore di Enjoy) esclusivamente basata sul dialogo fra la voce di Bjork e dei suoni limpidi e cristallini prodotti in maniera percussiva (cinque anni prima di “Vespertine”) e Headphones, remix ad opera di Mika Vainio dei Pan Sonic, che riesce ad asciugare ancora di più il pezzo originario, portandolo ad un grado zero dove i suoni tendono al silenzio, in una dimensione distesa da ambient music.
“Telegram”, nonostante la varietà delle atmosfere e degli arrangiamenti, mantiene un’unità di fondo che dona al disco una sua ben precisa identità all’interno della parallela discografia degli album di remix di Bjork, riuscendo anche in alcuni casi, grazie ad esempio alle già citate My Spine ed Headphone, a competere in minima parte con gli album ufficiali. Vent’anni e non sentirli minimamente: un must imperdibile per tutti i fan del folletto islandese. Bjork – Telegram (One Little Indian, 1996) Tracklist:
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Maggio 2022
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