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Secondo la stragrande maggioranza degli specialisti e dei critici, Utopia, il nuovo disco di Bjork, rappresenterebbe il nono album in studio dell’artista islandese. A seconda di quando si inizia a tenere conto della carriera discografica della cantante, questo dato può essere vero o incompleto; in ogni caso, nella mentalità comune di fan e addetti ai lavori, Debut del 1993 è il primo lavoro ufficiale che risponde al nome Bjork. Ma scegliendo questa impostazione si taglia fuori il primo disco in assoluto da lei prodotto, la prima registrazione avvenuta quando aveva undici anni nel 1977 e intitolata semplicemente Bjork, cantata completamente in islandese e composta da brani inediti e da qualche cover (The Beatles, Stevie Wonder, Edgar Winter e Melanie Safka). Una testimonianza certamente ancora acerba di una voce unica che segnerà nei decenni successivi lo scenario pop internazionale, ma che, a distanza di quarant’anni esatti, traccia un filo invisibile e impercettibile con l’ultima fatica uscita lo scorso 24 novembre, Utopia appunto. Non certo per quanto riguarda la musica in sé: soprattutto, quel filo rievoca in noi determinate sensazioni e associazioni mentali che alla luce del nuovo album si rivelano assai interessanti e significative. La prima riguarda l’uso del flauto: in quel primo disco omonimo la precoce musicista lo suona in un brano strumentale, facendogli fare le veci della voce, disegnando una semplice melodia dall’andamento teso e misterioso; in Utopia, il binomio voce-flauto (e quindi le caratteristiche di impalpabilità e intangibilità che essi condividono) è reso probabilmente più esplicito che in altri dischi di Bjork, a partire proprio dalla copertina. La seconda riguarda una sensazione più sottile: un’innocenza e un’idea di purezza che potrebbe collegare idealmente quel disco di debutto con il nuovo album. Si è abituati a vedere Bjork come una “eterna bambina”, simbolo di una spensieratezza un po’ su di giri ma dal cuore leggero, tanto da esserle stato affibbiato il nomignolo di “folletto islandese”. Ma la sua musica è attraversata spesso e volentieri da violente scosse emotive che si tramutano in urla, sussurri, lacrime trattenute e sospiri, rivelando una perenne tensione interiore tesa a cercare (e, soprattutto, a creare) mondi altri e invisibili. Sempre al limite e (s)confinante altrove, la musica di Bjork, nel corso della sua carriera, ha saputo indicare dimensioni ibride e marcate da dicotomie che l’artista ha cercato di superare attraverso una precisa opera di conciliazione: umano/animale, umano/meccanico, umano/divino. Chi opera in questa maniera non può che essere in un perenne stato di agitazione, condizione ulteriormente complicata, fra l’altro, dai recenti fatti personali che Bjork non ha avuto remore di rendere noti, probabilmente perché anch’essi necessari a stimolare nuove ricerche, come testimonia la fine della sua relazione con Matthew Barney alla base del precedente Vulnicura. Utopia, per stessa ammissione della musicista, cerca quindi di andare al di là del dolore e di aprirsi con sguardo universale e quanto più possibile sereno, pacifico e dai tratti infantili: ecco che allora l’immagine di quella piccola Bjork del ’77 emerge in controluce dalla Bjork attuale a distanza di quarant’anni. Ne risente tutto, dalla voce, agli arrangiamenti, alle melodie, in una trasfigurazione quasi totale iniziata proprio col disco di due anni fa e che arriva oggi a un nuovo livello. Bjork si presenta come un essere quasi alieno, dalle fattezze antropomorfe, diviso fra cielo e terra e, proprio per questo, abitante una dimensione peculiare, unica, impossibile, utopica.
Il problema delle utopie non è tanto il fatto che non esistano, bensì che alimentino in noi il desiderio fortissimo che esse debbano in qualche maniera esistere, rendendoci disillusi e privi di ogni certezza ogni volta che le nostre utopie si scontrano con la realtà. La nuova opera di Bjork produce un effetto simile: affiancata dal produttore Alejandro Ghersi, alias Arca (autore fra l’altro di uno degli album di elettronica più interessanti dell’anno), i due costruiscono un’imponente struttura di cristallo dalla quale traspare un caleidoscopio di suoni, tanto affascinante da ammirare quanto ostica da penetrare, almeno all’inizio. Utopia si inserisce nel solco musicale iniziato con Vulnicura ma, per certi versi, va più in profondità, recuperando alcune sue idee ed estremizzandole, bypassandole inoltre attraverso i suoni di Biophilia, passando per quelli di Volta e giù sino al glaciale Vespertine del 2001. Il risultato è, ancora una volta, una dicotomia, che tematicamente si presenta sotto la forma di umano/divino, mentre dal lato musicale presenta la compenetrazione dell’elettronica e degli strumenti classici, quali arpa, violoncello, contrabbasso e una mini orchestra di tredici flautisti. Questi ultimi, in particolare, si distinguono per il loro continuo dialogo con l’ugola della cantante islandese, lì dove invece l’impianto elettronico di Arca è soprattutto focalizzato a creare una sorta di ambiente sonoro dove la voce di Bjork possa di volta in volta instaurarsi oppure volteggiare liberamente. Il producer venezuelano si prende molte libertà, molte di più rispetto a quanto fatto sul disco precedente, con suoni ora spigolosi e ora morbidi, ma comunque estremamente stratificati e raramente regolari e diretti a tessere melodie. In Utopia tutto è astratto e quanto di più concettuale la materia pop possa partorire; di sottofondo si può percepire quella spazialità propria dell’ambient, ma disturbata e sempre sul punto di far esplodere il terreno sotto i propri piedi. La polarizzazione degli elementi sonori in gioco, insieme al modo di cantare di Bjork che trasforma le parole in puro suono, rende l’insieme altamente stimolante e cangiante, battendo strade che non sono solite per gli standard del pop, dell’elettronica o di qualsiasi altro genere che preveda la commistione dei due. Le linee vocali sono così curate e stratificate che all’ascoltatore non è permesso un attimo di distrazione, pena il perdersi all’interno di uno dei quattordici labirinti musicali del disco. Proprio questo senso di straniamento può essere interpretato come positivo o negativo a seconda della sensibilità di chi si approccia a Utopia: chi cerca una melodia o una ritmica più regolare potrebbe rimanere spiazzato mentre chi concederà tempo al disco di aprirsi verrà lentamente inglobato da esso e, attraverso ripetuti ascolti, potrà notare tanti piccoli elementi e particolari che sono sfuggiti a un primo ascolto. Quello che è certo è che le quattordici tracce di quello che Bjork ha definito il suo “Tinder album” (come a ribadire la dimensione altra, di natura virtuale e impalpabile, nella quale si muove la sua ricerca) pongono ancora una volta un solido ponte fra mondi apparentemente opposti. L’utopia di una “musica classica” per l’era digitale non appare così lontana, e questo nuovo album di Bjork ne rappresenta un modello perfetto. Bjork – Utopia (One Little Indian, 2017)
Immagine tratta da: http://theconcordian.com/
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Marzo 2023
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