Sessant’anni fa veniva pubblicato uno dei lavori più importanti per la scena jazz internazionale da un contrabbassista di colore dell’Arizona, irascibile, dai modi burberi e senza mezze misure nei riguardi di nessuno ma capace di riversare una vasta gamma di emozioni nella sua musica. Il suo nome era Charles Mingus, e il disco “Pithencanthropus Erectus”, primo passo per una carriera che è anche specchio di una vita sempre in bilico fra musica ed eccessi.
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Un bastardo. Anzi, beneath the underdog, peggio di un bastardo. Così si descrive Charles Mingus nella sua autobiografia che come titolo porta quella stessa espressione inglese, scritta per ben vent’anni e pubblicata nel 1971 in forma abbreviata e ampiamente rimaneggiata. Bastardo per motivi anagrafici, figlio di un padre mulatto nato da una svedese e da un nero e da una madre per metà cinese e per metà pellerossa. Ma bastardo anche per il suo carattere difficile, iroso, violento, a volte eccessivamente vittimista ed infantile, ma nello stesso tempo gentile, ingenuo, brutalmente onesto e caratterizzato dalla continua e inconscia, quasi patologica, ricerca di amore. Nessuno meglio di Mingus stesso ha saputo sintetizzare tanta varietà psicologica in poche parole: «Io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni ed emozioni; osserva aspettando l’occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena d’amore e di gentilezza, che permette agli altri di penetrare nella cella sacra del tempio del suo essere. E si fa insultare, e si fida di tutti, e firma contratti senza leggerli, e si lascia convincere a lavorare sottocosto o gratis. Poi, quando si accorge di quello che gli hanno fatto, gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno, compreso se stesso, per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce la fa: e così si rinchiude in se stesso». Queste righe sono per l’appunto l’incipit di “Beneath The Underdog”: dirette, sincere, semplici, che lasciano trasparire una fragilità di fondo che tanto stride con la solita immagine sicura di sé e tutta d’un pezzo che le star e i maggiori personaggi della musica tendono a dare di loro. Ma Mingus ha sempre costituito un’anomalia nel mondo del jazz e della musica occidentale del Novecento, come anche un enigma da un punto di vista umano, e a distanza di sessant’anni, “Pithencathropus Erectus”, il suo primo album da band leader e da compositore vero e proprio, è lì a ricordarlo a chi osa addentrarsi nel suo mondo.
Come spesso accade per le grandi personalità artistiche, vita e arte si riflettono l’una nell’altra risultando molto difficili, se non proprio impossibili, da separare: in questi casi, capire l’una vuol dire capire anche l’altra. Di esempi, il jazz, ne ha forniti a bizzeffe, da Billie Holiday a Charlie Parker, da Miles Davis a John Coltrane, solo per citare i casi più famosi. Al contrario dei nomi appena accennati, come di tanti altri, da un punto di vista musicale Mingus però non è mai rientrato specificatamente in un solo stile ma nel corso della sua ventennale carriera ha saputo porsi a cavallo di più mondi jazzistici. La sua musica così come la sua vita, in sostanza, fanno storia a sé, ponendo il contrabbassista sotto una luce del tutto particolare, caratterizzata da sperimentazioni audaci ed innovative che spesso hanno saputo precedere interi movimenti (il free jazz innanzitutto, ma anche il soul jazz), così come da un profondo conservatorismo verso le radici della musica afro-americana, continuamente percepibili in tutta la sua produzione discografica. Duke Ellington, Art Tatum (col quale arrivò anche a suonare insieme), Charlie Parker, il blues, il gospel e i canti della “Holiness Church” delle congregazioni del suo paese: questi sono i fili che tengono insieme la musica di Charles Mingus, rappresentativa di una sintesi e un equilibrio stilistico che ha pochi eguali nella storia del jazz e non solo, e che lo colloca fra i più grandi compositori e contrabbassisti di sempre. L’anomalia in tutto ciò si annida proprio in una delle caratteristiche che più sono state a cuore al musicista dell’Arizona, ovvero l’aspetto corale e collettivo per quanto riguarda l’improvvisazione nelle sue composizioni, che, unitamente al suo impegno sociale e civile contro la segregazione razziale degli afro-americani, anticipò di qualche anno la corrente del free jazz di Ornette Colemann. Peccato però che Mingus la sentisse del tutto estranea, al limite dell’odio e del disprezzo, quando questa corrente jazzistica fece i suoi esordi all’inizio degli anni ‘60: una beffa che la storia gli ha riservato e con la quale ha dovuto fare continuamente i conti. ![]()
Proprio l’idea della collettività e del mutuo scambio d’idee fra musicisti guidò il contrabbassista nei primi anni ’50 in una New York piena di fervore artistico e di grandi strumentisti. Proprio lui, il burbero Mingus, iniziava radunare intorno a sé un collettivo di musicisti bianchi e neri con i quali iniziare a sperimentare dapprima altrui composizioni e successivamente le proprie. L’insieme di questi talenti prese inizialmente il nome di Jazz Workshop, mutuato in seguito in Composers’ Workshop e anni dopo in Jazz Composers Workshop, facendosi notare nell’ambiente grazie ad una serie concerti ad alto contenuto sperimentale e in cui spiccavano le capacità dei solisti. Più il tempo passava, più l’esperienza di Mingus, già di un certo peso sin dagli anni ’40, cresceva, così come la voglia di saggiare nuovi territori stilistici, mettendone alla prova i limiti. Ecco allora che il musicista approda ad una nuova consapevolezza, anzi a due: la prima è che anche con la scrittura più precisa e minuziosa possibile, la musica come la sente dentro di sé («in my mind’s ear» come dice lui) non può venire riprodotta adeguatamente, sia da jazzisti che da musicisti classici. La seconda, decisiva per la nascita del suo stile, è che il jazz, se ci si attiene ad una parte scritta, non può essere suonato con il giusto feeling che si può ottenere suonando invece senza seguire una partitura; questo significa allora liberare un pezzo da pesanti costrizioni armoniche e ritmiche, lasciando molta più libertà all’interpretazione del singolo musicista, sia collettivamente che in solo. Per Mingus, questa nuova metodologia denota non solo suonare tecnicamente brani di matrice jazz, ma “suonare jazz” nel vero senso del termine: con piglio, sentimento e attitudine jazz. Una semplice idea ma che si rivelerà di lì a poco dirompente e rivoluzionaria, e non solo in ambito jazzistico: si capisce benissimo allora perché una corrente dal nome evocativo come quella del free jazz abbia riscontrato in lui un precursore.
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I primi esperimenti in tal senso si riscontrano nel 1955, durante la permanenza del suo gruppo al Café Bohemia dove furono registrati dal vivo una versione del classico di George Gershwin, A foggy day, e il pezzo Haitian Fight Song, dalle sonorità folkloriche e con forti connotazioni politiche che avrebbero caratterizzato sempre di più alcuni dei brani di Mingus a partire dagli anni ’60, il decennio considerato dai critici più fecondo del contrabbassista americano. Forte di queste e delle passate esperienze, di una capacità di scrittura sopraffina e di una tecnica personalissima sul suo strumento principe, Mingus registra nel 1956 “Pithecanthropus Erectus”, summa del Mingus-pensiero e del suo stile di allora. Nonostante i brani siano stati scritti dal contrabbassista americano e portino quindi il suo nome, “Pithecanthropus Erectus” è anche debitore dell’esperienza del Jazz Workshop di New York, particolare assolutamente non da poco visto l’enorme influenza che quell’ambiente ha lasciato in Mingus, tanto che in copertina, invece che solo il suo nome, è riportata la dicitura The Charlie Mingus Jazz Workshop. Anche il quartetto che lo accompagna prende le mosse da quel collettivo: i sassofonisti Jackie McLean (alto) e J. R. Monterose (tenore), il pianista Mal Waldron e il batterista Willie Jones. L’essenza dell’album risiede nella sua libertà interpretativa lasciata ai singoli musicisti e, nello stesso tempo, nell’improvvisazione collettiva che riescono a costruire insieme: due aspetti complementari che permettono di tenere in equilibrio sia il singolo che il gruppo, senza che l’uno o l’altro prendano il sopravvento. Non è un caso infatti che la musica di Mingus non ha mai utilizzato la figura del solista come determinante e condizionante in assoluto, né che quindi abbia mai sofferto di un radicale cambio di sound quando uno di questi abbandonava il gruppo: Charles Mingus si rivelava essere una fantastica anomalia anche in questo aspetto. D’altronde il metodo di composizione dei brani di “Pithecanthropus Erectus” è molto semplice, almeno apparentemente: Mingus ha già dentro di sé ben chiara la struttura e l’evoluzione di un brano, le quali poi vengono spiegate pezzo per pezzo ai musicisti senza l’apporto di alcun spartito. Con l’aiuto del piano, cerca di far familiarizzare gli strumentisti con la struttura ritmica e armonica e con il sentimento generale che delineerà la personalità di un brano, ma per il resto tutto è lasciato alla libera interpretazione dei singoli musicisti che, anzi, si vedono spronati dallo stesso contrabbassista ad esprimere il loro stile personale. Il pezzo che da il titolo all’album è ormai considerato l’emblema di questa nuova via, un vero e proprio manifesto che dimostra l’equilibrio raggiunto sia dai singoli che dall’insieme: espressionista, piena di cambi di atmosfera ora più delicati, ora più concitati e feroci, lungo i suoi dieci minuti ha un andamento quasi ossessivo, efficacissimo nel raccontare lungo i quattro movimenti in cui è suddiviso l’evoluzione dell’uomo, dalla conquista della posizione eretta alla sua futura autodistruzione, quest’ultima rappresentata da una caotica parte dissonante in cui gli strumenti si rincorrono e si azzuffano fra loro. Gli fa eco Love Chant, posta a chiusura dell’album, capolavoro al pari di Pithecanthropus Erectus per espressività ed originalità nel saper alternare svariate situazioni sonore che sapranno influenzare molte avanguardie jazzistiche nei decenni successivi.
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In mezzo, quasi a fare da cuscinetto, si trovano la rilettura del classico di Gershwin già accennato A Foggy Day (con sottotitolo in San Francisco) e la breve e più classica Profile Of Jackie; la prima prosegue il discorso sperimentale intrapreso nella title-track precedente, un piccolo affresco in musica che descrive l’ambiente urbano in prossimità della baia di San Francisco con gli strumenti che imitano il traffico, i clacson delle auto, il fischio dei vigili o le sirene delle barche, mentre la seconda è una ballata dominata principalmente dal sax di McLean. La cosa interessante da notare di questi due brani, di solito poco considerati perché oscurati dagli altri due, è la capacità di saper evocare delle immagini nella mente dell’ascoltatore, in maniera ben precisa nel caso di A Foggy Day e in modo meno esplicito e più legato allo stile classico jazz per Profile Of Jackie: una caratteristica esplicitata da Mingus stesso che a proposito di Profile Of Jackie dirà: «…a ballad froma a series of musical paintings I have done of various people», e non è un caso che il musicista americano si dedicherà anche alla pittura.
La capacità di “Pithecanthropus Erectus” di risultare ancora fresco e stimolante a distanza di sessant’anni lo colloca fra i classici del jazz e non solo, oggetto inclassificabile che gioca con i generi musicali e con tutta una tradizione che affonda le sue radici sin da quando gli schiavi di colore lavoravano nei campi dei bianchi. Il pitecantropo in evoluzione è sia Mingus che nei due decenni successivi partorirà dischi sempre più ambiziosi e particolari, sia il mondo del jazz che da quel momento non sarà più lo stesso, arrivando infatti a dare nuovi impulsi a generi ben lontani dai suoi confini.
Charles Mingus – Pithecanthropus Erectus (Atlantic, 1956)
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Marzo 2023
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