di Carlo Cantisani
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Jóhann Jóhannsson è sempre stato capace di far respirare la sua musica. Di dotarla di una capacità unica che le permettesse di riempire lo spazio circostante e, automaticamente, di fermare il tempo, comprimendolo nel breve minutaggio di un pezzo il quale, paradossalmente, sembrava poter durare in eterno. Quella del compositore islandese è una musica fatta di crescendo via via più tumultuosi che poi si risolvono in parti più distese e quiete, che dialoga col silenzio per far risuonare ogni singolo suono, stratificando armonie e strutture costruendo eteree ma solide composizioni su un terreno al confine fra tradizione classica e modernismo (lo stesso terreno condiviso con altri grandi musicisti della “nuova” classica, come Max Richter e Nils Frahm). Una narrazione in musica che connota ambienti e situazioni osservati ora con uno sguardo intimo nei momenti più distesi, ora con uno più distaccato e quasi austero in quelli maggiormente incalzanti, ma sempre e comunque attraversati da un’emotività lacerante, totalizzante, assoluta.
Jóhannsson, scomparso lo scorso nove febbraio, era ormai diventato nel giro di pochi anni uno dei più interessanti nonché quotati compositori di musica da film. Dapprima la pellicola di Denis Villeneuve – col quale instaurerà un profondo legame artistico – Prisoners, del 2013, l’aveva fatto notare al pubblico internazionale; seguiranno due altri lavori per il cinema, McCanick e I am Here, sino alla definitiva consacrazione con La Teoria del Tutto del 2014, vincendo anche un Golden Globe. E poi ancora con Villeneuve per le soundtracks di Sicario, Arrival e Blade Runner 2049 (per quest’ultimo film scartato poi a favore di un più ovvio e prevedibile Hans Zimmer). Aronofsky lo vorrà per la sua ultima pellicola, Madre!, per la quale Jóhannsson ricoprirà il ruolo di music and sound consultant, decidendo coraggiosamente di eliminare completamente lo score già precedentemente composto in modo da assecondare al meglio la complessità dell’opera. Mandy, Mary Magdalene e The Mercy (uscito in Gran Bretagna proprio il giorno della morte del compositore) sono gli ultimi tre lavori prima della sua scomparsa, oltre alla musica, rimasta però incompleta, per Christopher Robin, l’adattamento live-action della Disney ispirato a Winnie the Pooh, il progetto più grosso al quale Jóhannsson abbia mai lavorato. A tutto ciò va aggiunta un ulteriore mole di lavori per il teatro, tv, danza, cortometraggi, collaborazioni con artisti gravitanti nell’ambiente musicale più sperimentale come Tim Hecker, Pan Sonic, Sunn O))), Barry Adamson e tanti altri. E, naturalmente, i suoi dischi solisti. I dischi a nome esclusivamente Jóhann Jóhannsson hanno fatto da apripista per la sua futura carriera da compositore di colonne sonore, costituendo la chiave di lettura per buona parte del mondo musicale del musicista islandese. Fordlandia, il quarto album solista uscito per la 4AD nel 2008, può essere considerato come il simbolo del pensiero musicale di Jóhann Jóhannsson. L’album prende il nome dall’enorme proprietà terriera nel Brasile settentrionale acquistata da Henry Ford nel 1929 per farne un impianto industriale per la produzione di gomma per i pneumatici dell’azienda americana. Simbolo del capitalismo rampante e dell’utopia a stelle e strisce, Fordlandia non fu solo uno dei tanti stabilimenti americani ma, nella mente del suo creatore, anche una città a tutti gli effetti, andando incontro a un progressivo declino a causa di errate scelte gestionali e di una rivolta dei lavoratori che ne decretarono il prematuro abbandono. Da questa premessa concettuale, il lavoro di Jóhannsson si snoda attraverso undici brani che però non vanno a costituire un concept vero e proprio ma più che altro delle tappe di più viaggi che si intersecano fra loro. L’intero lavoro è incentrato sulla commistione di sonorità classiche, date dall’Orchestra Filarmonica e dal Coro della città di Praga insieme a un quartetto d’archi, un organista e un clarinettista, ed elettroniche, nella forma di percussioni che impreziosiscono e donano profondità alle composizioni con tocchi solenni e quasi alieni. Un primo nucleo – il più corposo – lo si può individuare nel terzetto Fordlandia, Fordlandia – Aerial View e How We Left Fordlandia: un lungo excursus sonoro guidato dagli archi perennemente intenti a disegnare melodie semplici e affascinanti nel loro essere emotivamente pregnanti, su tappeti armonici che innalzano i brani verso dei crescendo impetuosi e ariosi per aprirle poi in una quiete tendente quasi al silenzio. La title track, in particolare, ricorda i Sigur Ròs e l’andamento di certo post-rock, e non è improbabile infatti che il brano (come il resto del disco d’altronde) possa essere apprezzato da chi bazzica certe sonorità; l’ennesima dimostrazione, inoltre, di come Jóhann Jóhannsson riesca a ottenere molto con poco, puntando tutto sulla potenza sonora e sulla semplicità dei suoi arrangiamenti. Il mix di elettronica e strumenti classici dà vita a uno dei brani più coinvolgenti e interessanti del disco, The Rocket Builder (Io Pan!), che nel bel mezzo del brano si getta in un baratro oscuro grazie ai rintocchi degli accordi di pianoforte. Il suo ideale proseguimento, The Great God Pan Is Dead, sembra celebrarne il requiem, con coro e archi ad annunciare una messa solenne e, al contempo, dall’aria celeste; la stessa solennità riscontrabile in Chimaerica, dove l’organo fa da protagonista incontrastato. Melodia, suddivisa in quattro movimenti più un quinto a fare da sunto agli altri, scandisce l’andamento dell’album facendo da raccordo fra un brano e l’altro, mantenendo compatta l’unità sonora di base del lavoro. Esplicita, inoltre, in maniera ancor più diretta, la natura cinematica del modus operandi di Jóhannsson: una stessa melodia, appunto, viene riproposta e di volta in volta riarrangiata in modo diverso, suonata da differenti strumenti, pratica tipica delle colonne sonore. La capacità di narrare una storia, o più storie, tramite la potenza delle note fa sì che Fordlandia – secondo capitolo di una trilogia incentrata sulla tecnologia e l’archeologia industriale – sia la colonna sonora di un ipotetico film ancora da girare, ponendo così in primo piano il lavoro del musicista islandese nel panorama di quella classica cosiddetta “moderna”. Chi volesse scoprire il percorso artistico di uno degli artisti più significativi apparsi sulla scena cinematografica degli ultimi anni farebbe bene, prima di tutto, a partire da qui. Un passaggio essenziale, che non può che far rammaricare sulla prematura scomparsa dell’enorme talento di Jóhann Jóhannsson, un musicista che conosceva l’importanza del silenzio. Jóhann Jóhannsson – Fordlandia (4AD, 2008)
Immagini tratte da: www.cyclicdefrost.com Potrebbe interessarti anche:
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Marzo 2023
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