Il mondo della black music è uno degli universi musicali più variegati e multiformi che siano mai esistiti nella musica popolare, nonostante il suo forte retaggio storico non le abbia mai fatto perdere di vista le sue radici. Con l’esplosione dell’hip hop e l’assalto alle classifiche dell’R&B, negli anni ’90 la musica black vede emergere due stelle di prima grandezza: Mary J. Bling e e Erykah Badu.
A differenza della musica “bianca” per eccellenza, il rock, dove le figure femminili non sono state predominanti, ingiustamente offuscate dalle controparti maschili che hanno dominato la sua storia, la cosiddetta black music ha invece spesso e volentieri visto come protagoniste le prime, ergendole a custodi della tradizione di un popolo, quello afro americano, che ha sempre saputo mantenere vivo il legame con la schiavitù, ferita storica mai completamente rimarginata. Per i vecchi lavoratori nei campi di cotone cantare era principalmente un atto vitale, necessario a mantenere integre dignità individuale e memoria collettiva: un canto che nasceva dalla terra, sporco e fragile, per cercare di elevarsi al cielo, invocando l’aiuto divino nella speranza di tempi migliori privi di sofferenze. La figura femminile, direttamente collegata alla terra e alla capacità che quest’ultima ha di donare così come di accogliere, è quindi il simbolo che riunisce tutte le voci degli schiavi, consolandoli come una madre consola il proprio figlio, spronandoli a resistere sino anche a soffrire insieme a loro. In questo contesto simbolico, le donne di colore che hanno segnato la musica popolare assumono un ruolo che va al di là del mero fatto artistico, già di per sé assolutamente fondamentale: da Ella Fitzgerald, Billie Holiday e Sarah Vaughn, alle voci soul di Aretha Franklin e Nina Simone, passando per la queen of funk Chaka Khan, Gladys Knight e Whitney Houston, sino alle contemporanee Beyoncé e Alicia Keys, la cultura afro-americana ha sempre dato enorme importanza alla voce e in particolar modo a quella femminile, capace di essere allo stesso tempo elegante, sensuale, rabbiosa ed energica. ![]()
Un posto d’onore, a partire dagli anni ’90, spetta a due altre cantanti, americane di nascita ma con le radici ben piantate nel continente africano: Mary J. Blige e Erykah Badu. Dotate entrambe di voci uniche e assolutamente riconoscibili all’interno del panorama musicale contemporaneo e marcando profondamente la musica popolare degli ultimi venticinque anni sia con i loro successi - entrambe hanno venduto milioni di copie dei loro dischi e vinto svariati Grammy - che con i rispettivi stili, le due artiste sono legate fra loro non solo per questioni anagrafiche (sono nate entrambe nel 1971) ma soprattutto per la comune attitudine soul verso la black music. I rispettivi album d’esordio, What’s the 411? della Blige e Baduizm della Badu, sono probabilmente i due album degli anni ‘90 che (ri)mettono al centro del discorso musicale proprio la voce, riuscendo a collocarsi in maniera significativa nel florido solco tracciato dalle cantanti/autrici afro dei decenni precedenti, grazie alle indiscusse doti tecniche e interpretative che traspaiono dai brani in esso contenuti. Due voci, quelle della Blige e della Badu, differenti per personalità e colore ma capaci di essere dirette e per questo immediatamente coinvolgenti, anche se su livelli differenti. “Soul” è la parola che lega le due cantanti a partire proprio dai loro dischi d’esordio: la voce guida l’intero comparto musicale imponendosi ed esigendo la massima attenzione dall’ascoltatore, mettendo in ombra tutto il resto e divenendo il perno intorno al quale il groove cresce ed avanza. Non è un caso, infatti, che proprio all’indomani della pubblicazione del suo primo album, Mary J. Blige verrà soprannominata come “Queen of Hip Hop Soul”, mentre Erykah Badu contribuirà con Baduizm a porre sempre più sotto i riflettori internazionali la corrente del neo-soul che, con i lavori di D’angelo e Maxwell, stava muovendo i primi passi e conquistando l’attenzione del pubblico. Parlando di black music, in ogni caso, non si può trascurare l’importanza che i bassi (e in generale le basse frequenze) operano nell’economia generale di questa corrente, divenendo in un certo senso la stessa ragione d’essere per questa musica. Per quanto riguarda la Blige, i bassi si manifestano essenzialmente in classici beat hip hop che servono soprattutto a supportare e a far svettare quanto maggiormente possibile la voce squillante e limpida ma capace anche di graffiare e di lasciarsi andare a certe inflessioni più rabbiose tipiche del rap: un risultato incredibile per maturità vocale se si considera che nel 1992, anno di uscita di What’s the 411?, la cantante aveva solo ventuno anni, capace inoltre di confrontarsi con un’icona come Chaka Khan, reinterpretando uno dei suoi classici, Sweet Thing. Un mix in equilibrio fra ariosità prettamente soul e ossessione ritmica che ammicca continuamente – ma senza abbracciarlo del tutto – al mondo dell’hip hop, delle rime e della poetica della strada. L’attitudine, infatti, è quella, come lasciano trasparire la copertina, la produzione a opera di Puff Daddy e i featuring di Busta Rhymes e Grand Puba, quest’ultimo ospite sulla title-track dove Mary J. Blige si lascia andare a un coinvolgente flow, segno che, se avesse voluto osare di più in questo senso, avrebbe potuto raggiungere ottimi risultati. What’s the 411? rimane comunque un unicum nella carriera della cantante americana, che da questo momento in poi conoscerà un enorme successo commerciale, proseguendo sulla via del pop da classifica: in ogni caso, la qualità vocale di Mary J. Blige attualmente rimane, nel bene e nel male, fra le più importanti testimonianze della black music contemporanea.
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Cinque anni dopo, nel 1997, le vibrazioni soul intonate nell’aria dalla cantante del Bronx riecheggeranno nella voce di Erykah Badu. Una voce, questa, di tutt’altro tipo: la particolare intonazione nasale la rende particolare e riconoscibile al primo ascolto, con un andamento sinuoso, elegante e spesso posato. Baduizm accentua tutte queste caratteristiche che faranno la fortuna dell’artista texana, consentendo nei suoi lavori successivi – come in Worldwide Underground e i due capitoli New Amerykah – di aggiungere ulteriori dimensioni al suo cantato, attingendo a piene mani in particolare dall’hip hop e dal funk. Nel suo esordio, la Badu si muove in maniera più calma, non tralasciando il suo background rap – come dimostrato dalla presenza in veste di produttori dei The Roots in un paio di brani – ma immergendolo in un’atmosfera molto più diluita, intima, dai toni quasi da jazz club. Se il cantato della Blige tendeva all’apertura e al dispiegamento quasi totale della potenza della sua voce, Erykah Badu invece sembra trattenere e cantare senza mai voler esagerare: la sua performance, in quest’ottica, assume quasi l’aspetto di una confessione, ricercando un rapporto più intimo e segreto con chi la ascolta. Mentre canta, la Badu riesce a creare un ponte con i bassi delle tastiere e la cassa della drum machine, facendosi supportare da questi strumenti ma nello stesso tempo supportandoli a sua volta, aumentando così la carica di groove dei brani in scaletta. Baduizm è ormai entrato nella storia dell’R&B proprio grazie alla peculiarità della voce della sua autrice, sapendo inoltre porsi in una posizione di dialogo verso tutta una tradizione musicale che va da Billie Holiday a Stevie Wonder, da Prince a Nina Simone, punto di arrivo di numerose influenze ma anche punto di partenza per nuovi sbocchi per la musica popolare contemporanea, anche nelle sue forme più vicine all’elettronica. Se oggi certe sonorità black sono ritornate prepotentemente alla ribalta lo si deve anche a un disco come Baduizm e alla caratura di livello di Erykah Badu.
Immagini tratte da: pload.wikimedia.org
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Aprile 2023
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