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2/6/2017

Rewind: Soundgarden – Screaming Life/Fopp

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Prima che il grunge diventasse commercialmente appetibile, prima del successo di Nevermind, prima delle hit da classifica, prima della leggenda postuma costruita intorno a Seattle: i Soundgarden di Chris Cornell furono fra i primi gruppi promotori di un sound sporco, sanguigno, pesante per una generazione che si sentiva costantemente ai margini. Questo era il grunge.
di Carlo Cantisani
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They saw you today as you were leaving/And they run to hunt you down/Dogs lead the chase as you are bleeding/They run to hunt you down

Questi i primi versi originali mai cantati da Chris Cornell. Questa la prima canzone, Hunted Down, che nel 1987 si poteva ascoltare di un gruppo dal nome particolare ed evocativo: Soundgarden, moniker preso in prestito da un’istallazione sonora di Douglas Hollis posta al centro di un parco di Seattle, composta da una serie di colonne metalliche simili ad antenne che al passare del vento producono determinati suoni e rumori. Un’opera definita da Kim Thayil, chitarrista della band, sublime e squallida allo stesso tempo. Due aggettivi che si potrebbero adattare molto bene all’essenza della musica dei Soundgarden e di tutto il movimento che fra gli anni ’80 e ‘90 la stampa battezzò come grunge: musica perennemente divisa fra melodia e dissonanza, con voci che potevano diventare dolci sussurri e subito dopo urla rabbiose, in bilico fra pesantezza e ariosità, perennemente sul punto di spiccare il volo ma cosciente che il suo destino sarà quello di precipitare nel vuoto, senza paura. Solo da qualche anno si inizia a capire che quella strana cosa chiamata grunge non può essere riferita soltanto a un movimento o a una corrente musicale: troppi gruppi diversi per sonorità, influenze, stili; come poter accostare ad esempio gli Alice in Chains con i Mudhoney, i Mother Love Bone con i Green River o i Pearl Jam con i Melvins? La stampa generalista dell’epoca, soprattutto a partire dal successo di Nevermind dei Nirvana nel 1991, iniziò a compiere ciò che di solito gli riesce molto bene in questi casi, ovvero generalizzare senza andare a indagare nel particolare le genesi stilistiche delle varie formazioni di quel piccolo universo, vuoi per comodità di classificazione, vuoi per poter meglio cavalcare il trend del momento attirando così più lettori possibili. Su una cosa però si può essere certi: il grunge, qualunque cosa sia stata, ha saputo dare una voce a un’intera generazione che non sapeva ancora cosa dire e soprattutto come dirla. Le camicie di flanella, i jeans strappati, i capelli lunghi, i giubbotti a coste e le scarpe in stile Converse, prima ancora di arrivare fra le passerelle delle grandi sfilate come succede oggi o fra i negozi di H&M, erano segni distintivi di una generazione che vedeva sé stessa come eternamente perdente rispetto a quella dei propri genitori, di ragazzi della working class delle periferie americane senza grandi opportunità rispetto ai coetanei nati invece in altri contesti e in altre città. I diari di Kurt Cobain, pubblicati per la prima volta in Italia all’inizio degli anni 2000, danno uno spaccato molto interessante di questa situazione, filtrata naturalmente attraverso gli occhi di una persona molto sensibile e fragile, nata nel posto sbagliato. Per molti giovani di Seattle e delle città limitrofe la musica diventò la naturale e più potente valvola di sfogo e di aggregazione che potesse esserci, e l’attitudine “do it yourself” del punk il modo di vedere il mondo, nonché il principale comun denominatore che legava gruppi dalle sonorità e dagli stili così differenti. Una generazione che non era completamente preparata all’ondata di successo che arrivò negli anni ’90 e il martirio di Cobain fu il caro prezzo che si dovette pagare. Ironia del caso (ma neanche tanto): il leader dei Nirvana si suicidò proprio perché avvertiva tutto il peso della notorietà che il mondo del business musicale gli stava costruendo attorno: egli non voleva essere considerato un’ennesima rockstar, un ulteriore feticcio da mostrare nel mausoleo del rock. La sua morte però suscitò proprio l’effetto contrario e con il suo gesto Kurt Cobain si è tramutato in uno degli ultimi martiri (involontari) della musica e dello spettacolo.

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La morte di Chris Cornell ha riportato la mente di molti a quel cinque aprile 1994, come anche alla morte per overdose di Layne Staley avvenuta esattamente otto anni più tardi. Il grunge non ha mai smesso di chiedere il conto di una stagione profondamente dolorosa, allungando le sue ombre sui suoi principali protagonisti nonostante il lungo arco di tempo ormai trascorso: proprio come i versi di Hunted Down, segue instancabile le tracce cacciando tutti coloro che cercano di scappare. Il cantante dei Soundgarden, nonostante i suoi periodici problemi di alcol e droga che lo facevano ricadere in profonde dipendenze, cercava di allontanarsi da quel passato, grazie alla musica innanzitutto, da solista e con gli Audioslave, e poi ricucendo la sua vita tramite gli affetti familiari. Ecco perché è necessario non fare nuovamente ciò che si è fatto con Cobain, cioè creare un nuovo martire. Tanto più se poi, come ha dichiarato la moglie di Cornell in un comunicato ufficiale, le cause del suicidio potrebbero essere imputate a un sovradosaggio di Lorazepam, farmaco usato per curare l’insonnia e l’ansia, che può stimolare, in determinate situazioni non controllate, tendenze suicide.
La voce di Chris Cornell è sempre stata quella energica e sofferta di un’anima alla perenne ricerca di sé stessa. Dai primi versi cantanti dell’ep di debutto Screaming Life fino ai successi di metà anni ’90 di Superunknown e del sottovalutato Down on the Upside, la sua voce è sempre stata perfettamente riconoscibile divenendo sin da subito marchio di fabbrica dei Soundgarden. Screaming Life, pubblicato nel 1987, e il secondo ep Fopp, uscito un anno dopo (e riuniti insieme dalla stessa Sub Pop nel 1990), testimoniano un periodo in cui la parola grunge era sinonimo di sporcizia, marciume, sudore e insofferenza. Un atto irriverente e urlato del quale i Soundgarden furono indubbiamente fra i prime mover insieme a Green River, Mudhoney e Melvins prima che il music business iniziasse a interessarsi a ciò che circolava intorno a Seattle. Se l’energia, la potenza e la compattezza del songwriting sono rintracciabili sin da subito, ciò che spiazza chi conoscesse il gruppo solo per le sue pubblicazioni più famose è il suono: le influenze punk e metal, rintracciabili ad esempio in Tears to Forget e nella trascinante Nothing to Say (quest’ultima quasi un preludio di ciò che si sentirà su Louder Than Love e Badmotorfinger), si mischiano a derivazioni post-punk e gotiche alla Killing Joke, Bauhaus e The Cult. Un mix personale che si incontra col funk sbilenco di Little Joe, all’hard rock di Sub Pop Rock City (contenuta originariamente nella storica compilation Sub Pop 200) e all’inusuale remix dub di Fopp. In questa prima parte della loro storia i Soundgarden sono un gruppo alle prime armi ma dotato di talento e di una seppure acerba personalità che nel corso del tempo emergerà sempre più prepotentemente: un primo vagito, un urlo sgraziato ma potente che accompagnerà sempre Chris Cornell e i Soundgarden.

Soundgarden – Screaming Life/Fopp (Sub Pop, 1990)
  1. Hunted Down
  2. Entering
  3. Tears To Forget
  4. Nothing To Say
  5. Little Joe
  6. Hand Of God
  7. Sub Pop Rock City
  8. Fopp (Ohio Players cover)
  9. Fopp (Fucked Up Heavy Dub Mix)
  10. Kingdom Of Come
  11. Swallow My Pride (Green River cover) 


Immagini tratte da:

Immagini da: http://cdn2.pitchfork.com/
i2.wp.com/www.uselessdaily.com

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