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Il ’68 in Europa e negli Stati Uniti è stato un anno fondamentale per lo sviluppo della cultura occidentale, culmine di una fase dolorosa e nello stesso tempo liberatoria visto il continuo avvicendarsi di eventi che sconvolsero lo scenario internazionale durante gli anni ‘60. Quella parte di mondo era attraversata, in generale, da una voglia di cambiamento che si rifletteva nella radicale messa in discussione dei vecchi principi sui quali si erano fondate le società di quei paesi. In questo contesto, la musica divenne la cassa di risonanza per le nuove generazioni. Ovunque la parola d’ordine era “l’immaginazione al potere” e di questa dirompente idea la sfera musicale si fece carico. Fu proprio la musica il mezzo privilegiato attraverso cui si voleva dare vita a nuove idee e prospettive, per il fatto di essere un linguaggio universale, aggregante e capace di attivare corde emotive profonde. Jimi Hendrix fu uno dei più incredibili e rappresentativi emissari di questo nuovo modo di vedere il mondo attraverso il caleidoscopio multicolore della musica riuscendo, durante un breve ma estremamente creativo percorso artistico ed esistenziale, a cambiare per sempre le carte della musica internazionale. Sin dalla pubblicazione del primo disco Are You Experienced? nel 1967 fino alla morte nel settembre del 1970, bastarono essenzialmente quattro dischi ufficiali, insieme alle tournée e ai concerti fuori dal comune, per far assurgere Hendrix a mito non solo musicale ma anche generazionale. Gli anni ’60 hanno rappresentato un terreno fertile per la creazione e, simultaneamente, la ricezione di nuove icone, specialmente in ambito musicale: Jim Morrison si immolava come un nuovo Cristo decadente per un’intera generazione, Janis Joplin annegava nel blues il lato più fragile ed emotivo di quegli anni, Bob Dylan era il menestrello errante che con chitarra, armonica e una prosa piena di metafore raggiungeva persone lontane e abbatteva confini. Per non parlare poi dei Fab Four, che hanno praticamente creato il concetto stesso di mito popolare moderno. E questo solo per citare i più noti. Ma se c’è qualcosa che la storia di quel decennio ha dimostrato è che un gesto, una parola, un discorso o un pensiero fatti al momento giusto possono assurgere a mito e smuovere migliaia di persone. Jimi Hendrix incarnava probabilmente l’aspetto più selvaggio, folgorante e creativamente travolgente di quel comune percepire negli anni ‘60. L’arte del musicista e chitarrista americano era una vera e propria esperienza, resa totalizzante proprio grazie a un suono, quello della chitarra, che voleva a tutti costi essere fisico, farsi non solo ascoltare ma anche percepire lungo il corpo. Se oggi, con Hendrix, possiamo tranquillamente dire che esiste un prima e un dopo per la chitarra è proprio perché questo strumento, nelle sue mani, è riuscito a diventare qualcosa di più: il prolungamento estremo della propria personalità. Nonostante oggi lo stile chitarristico di Hendrix sia stato assorbito, metabolizzato, integrato e reinventato, quello che rimane insuperato, probabilmente, è l’incredibile sfaccettatura di un suono che riesce a essere estremamente “concreto” e allo stesso tempo impalpabile. Il tocco di Hendrix è continuamente percorso da una necessità irrefrenabile di spostare un po’ più in là i confini che esso stesso crea: perennemente alla ricerca di qualcosa, in fuga e pronto a rinnegare ciò che ha costruito prima. I suoi assoli sono un continuo processo di creazione e distruzione in cui i linguaggi del blues, rock, jazz e della psichedelia vengono fusi insieme in un magma lavico ad alto voltaggio. La chitarra di Hendrix riusciva a dare vita a visioni, che poi erano quelle di un’intera generazione: la libertà, le utopie, il pacifismo, l’immaginazione, le fughe della mente, le alterazioni di ogni tipo, il corpo, il sesso, l’amore. Un’esperienza, quindi, e un inno ai sensi che non a caso prese il nome di The Jimi Hendrix Experience, uno dei power trio più famosi di sempre, composto insieme ai britannici Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Dopo i successi di Are You Experienced? e di Axis: Bold as Love, nel settembre 1968 il gruppo dà alle stampe il suo terzo (e ultimo, per quanto riguarderà la formazione con gli Experience) album, Electric Ladyland, ennesimo capolavoro dove si continuavano ad abbattere i confini all’interno del rock. La pubblicazione del doppio vinile aveva avuto solo un mese prima la “benedizione” di un evento molto importante, divenuto anch’esso simbolo di quegli anni: il festival di Woodstock. Durante l’ultimo giorno della manifestazione, Hendrix maledì l’America razzista, imperialista, perbenista e guerrafondaia con la sua versione stuprata dello Star Spangled Banner, l’inno nazionale americano, ponendo una dolorosa pietra tombale su un decennio di grandi speranze. Gli anni delle rivoluzioni stavano tragicamente volgendo al termine, ma la musica non voleva ancora arrendersi, continuando ad essere ben presente tramite i vari capolavori pubblicati lungo tutto l’arco del ’68. Insieme all’esibizione di Woodstock, Electric Ladyland, per Hendrix, sembrava essere uno degli ultimi ma potenti scossoni di quell’immaginazione che non voleva cedere il potere. Anzi, il musicista americano rilanciò ancora di più la sua sfida con un disco la cui portata si rivelò rivoluzionaria. Questa volta, oltre alla solita sulfurea base di blues e rock, Hendrix radicalizza la sua visione psichedelica della musica e inizia a giocare anche con altri generi, forse non in modo preponderante, ma comunque in maniera sufficiente per poter aprire nuovi scenari alla sua musica. Insieme ai musicisti, è l’intero studio di registrazione, con strumentazione per l’epoca all’avanguardia, a partecipare alla riuscita dei pezzi, con un lavoro di produzione certosino e curato sin nei minimi dettagli, com’era d’altronde d’abitudine per Hendrix. Sonorità funk come in Crosstown Traffic o più virante all’R&B e al soul in Have You Ever Been (To Electric Ladyland) dimostrano ancora di più la versatilità del suo songwriting che, se sin dagli esordi aveva manifestato già una piena maturità, in questo album non fa altro che andare oltre i suoi stessi limiti. Voodoo Child (Slight Return), Gypsy Eyes e la cover, completamente stravolta, di All Along The Watchtower di Bob Dylan, drammaticamente coinvolgente grazie ai soli di chitarra e al ritmo sostenuto, diventarono dei classici istantanei. Il cuore elettrico e visionario dell’album risiede, però, in due lunghi brani: Voodoo Chile e 1983… (A Merman I Should Turn To Be). Il primo, di circa quindici minuti, è una lunga panoramica omnicomprensiva dell’universo blues di Hendrix come non ne aveva incisi prima, dandone prova solo ai concerti. Non a caso, il chitarrista volle ricreare l’atmosfera di un live invitando degli ascoltatori in studio, e inoltre facendosi accompagnare per l’occasione da Jack Casady, basso dei Jefferson Airplane e Steve Winwood, mente dei Traffic, all’organo. Il secondo è il pezzo più sperimentale di Hendrix, dove la compenetrazione di testo e musica è fondamentale. Raccontando la fuga da un pianeta sconvolto dalla guerra, l’artista e la sua compagna trovano nella profondità del mare il loro rifugio, un nuovo pacifico Eden. La musica segue questo simbolico viaggio attraverso suoni, rumori e feedback che imitano la discesa negli oceani, anticipando di un anno le sperimentazioni dei King Crimson che daranno vita al filone del prog. Un brano dal mood onirico, tanto più se si considera che i due pezzi Rainy Day, Dream Away e Still Raining, Still Dreaming fanno da prologo ed epilogo a 1983…
Il sogno si spezzò nel settembre 1970, lasciando aperto il dubbio su ciò che avrebbe potuto continuare a comporre e sperimentare se non se ne fosse andato così presto. Dopo gli Experience, Jimi Hendrix aveva fondato la Band of Gypsys e sognava collaborazioni con Miles Davis e chissà quali altre direzioni verso cui spingere la sua musica. Con la morte di Hendrix, l’utopia del potere dell’immaginazione aveva completamente perso la sua forza. The Jimi Hendix Experience – Electric Ladyland (Experience Hendrix, MCA Records, 1968)
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Marzo 2023
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