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14/10/2016

The King & The President, ovvero un solo uomo per il presidente

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Il 21 dicembre del 1970 è avvenuto uno degli incontri più impensabili che si potessero immaginare, quello fra il re del rock ‘n’ roll Elvis Presley e il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Come mai? C’entrano i servizi segreti, la minaccia comunista, sostanze stupefacenti e anche una colt .45 d’oro. Elvis & Nixon non è solo un film, uscito il 22 settembre e con Kevin Spacey e Michael Shannon, ma un evento avvenuto per davvero.
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​di Carlo Cantisani
“Egregio Sig. Presidente, per prima cosa vorrei presentarmi. Sono Elvis Presley e La ammiro e ho un grande rispetto per il Suo lavoro. Ho parlato con il Vice Presidente Agnew a Palm Springs tre settimane fa e ho espresso la mia preoccupazione per il nostro Paese. La cultura della droga, gli hippies, l'SDS (Students For a Democratic Society), le Black Panthers, etc. non mi considerano come un loro nemico o, come dicono loro, 'Il Sistema' (nell’originale ‘l’Establishment’ n.d.a.). Io la definisco America ed è il Paese che amo. Signore, io posso e voglio essere di qualsiasi utilità per servire il Paese. Non ho nessun interesse o motivi se non servire il paese. Non desidero che mi venga dato un titolo o una carica ufficiale. Farei molto meglio se fossi un agente federale e aiuterò facendo le cose a modo mio, attraverso la comunicazione con le persone di tutte le età. Prima di tutto e soprattutto, sono un intrattenitore, ma tutto quello di cui ho bisogno sono le credenziali Federali. Sono su questo aereo con il Senatore George Murphy e abbiamo discusso i problemi che il nostro paese sta affrontando. Signore, sarò al Washington Hotel, Stanze 505 - 506 - 507. Ci sono due uomini che lavorano per me i cui nomi sono Jerry Schilling e Sonny West. Sono registrato sotto il nome di Jon Burrows. Resterò qui il tempo necessario per avere le credenziali di agente federale. Ho fatto studi approfonditi sull'abuso di droga e sulle tecniche comuniste di lavaggio del cervello e io sono nella posizione migliore, dalla quale posso e voglio fare il meglio. Sono felice di aiutare per tutto il tempo che la cosa resterà privatissima. Mi piacerebbe incontrarLa per salutarLa se non è troppo impegnato.”
Elvis Presley agente federale dell’F.B.I. e infiltrato speciale che sgomina spacciatori, papponi e la minaccia comunista a colpi di karate e di movimenti pelvici? Sembra la trama di un b-movie scritta da uno dei migliaia di imitatori di Elvis sparsi per il mondo per omaggiare il re del rock ‘n’ roll. E invece, per quanto assurda, questa idea trova riscontro nelle cronache dell’America degli anni ’70, diventando nel tempo non solo uno dei vari aneddoti che costellano la storia del rock, ma anche una piccola fotografia di due uomini, Elvis e il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, consapevoli del loro potere mediatico e di come poterlo usare. Il termine ‘fotografia’ non è neanche tanto casuale, poiché a testimonianza del loro incontro esiste anche quella, divenuta la più richiesta fra le migliaia di immagini custodite nei National Archives.
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Le parole riportate all’inizio sono quelle scritte da Elvis “The King” Presley durante un suo viaggio in aereo per Washington. Essendo cresciuto nel profondo sud degli States, Elvis aveva ricevuto un tipo di educazione assai conservatrice tipica di quelle zone. Nonostante abbia sempre manifestato rispetto per gli afro americani e si fosse sempre apertamente schierato contro la segregazione razziale imperante all’epoca, le sue idee sulla famiglia, le droghe e il sesso erano completamente all’opposto della maggior parte dei giovani e della controcultura degli anni ’60. Non stupisce quindi la sua aperta ostilità nei confronti dei Beatles, demonizzati tanto da divenire ben presto per lui un vero e proprio chiodo fisso e considerati alla stregua di pericolosi sovversivi, venuti in America a fare successo sulla pelle e soprattutto sulle menti di migliaia di giovani ignari americani. Da qui l’idea di agire mettendosi al servizio del suo Paese in qualità di agente infiltrato negli ambienti alternativi e controculturali che, come da lui stesso dichiarato, non lo vedevano come parte del “sistema” da combattere: sarebbe stato facile quindi per lui avvicinarvisi ed entrare in contatto con determinati personaggi per poterne carpire informazioni segrete da riferire poi all’F.B.I. e allo stesso Presidente. Se la sinistra radicale, anarchici, Black Panthers e altri movimenti civili non consideravano Elvis come un possibile nemico probabilmente questo era dettato dal fatto che era visto più come showman e personaggio pubblico di spettacolo che come, ad esempio, un attivista politico: un personaggio che pensava semplicemente a cantare e suonare intrattenendo le folle con il suo rock ‘n’ roll innocuo e anche alquanto vetusto per le nuove generazioni, e che fra l’altro di lì a poco si sarebbe avviato ad un incredibile declino fisico e psicologico.
Ma questo di certo non bastò a frenare Elvis, ma anzi, probabilmente, costituì la premessa per attuare, almeno nella sua mente, un progetto così bizzarro.
Dall’altra parte, l’allora trentasettesimo presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, eletto da un anno dall’incontro con Elvis, era ben presto diventato inviso alla maggior parte degli americani, per non parlare degli ambienti più progressisti come quelli della sinistra e dei vari movimenti civili ormai assai diffusi nel Paese. Scelto dai repubblicani più conservatori per combattere quello che ai loro occhi appariva come un totale disordine sociale, sarebbe stato impensabile vedere al suo fianco personaggi come Jim Morrison, Bob Dylan, Hendrix o Lennon: avere quindi a sua disposizione tutto il peso della popolarità di Presley avrebbe potuto, secondo Nixon, riabilitarlo o, per lo meno, attrarre a sé una certa fetta degli americani. Sarebbe stato un bel colpo per un uomo la cui presidenza fu definita “imperiale” proprio a causa del suo uso spregiudicato del potere e della continua ricerca dello stesso: quale miglior interlocutore con cui intendersi, quindi, se non un uomo come Elvis Presley che si faceva chiamare “The King”?

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Il tutto avviene in fretta e nel giro di una mattinata. Il 21 dicembre del 1970 Elvis si presenta ai cancelli della Casa Bianca, consegnando la sua lettera alle guardie. Nel giro di poche ore, Nixon la legge e decide insieme ai suoi funzionari di accontentare il musicista e quindi di incontrarlo. Lo spettacolo che si para dinanzi all’entourage presidenziale è alquanto sopra le righe, ma in perfetto stile “Elvis Presley”: vestito come se dovesse salire su di un palco, il re del rock ‘n’ roll si presenta con addosso una mantellina dal taglio edoardiano dai bottoni in oro, un catenone anch’esso d’oro sulla camicia aperta sul petto, un grosso cinturone scintillante in vita e, per finire, dei vistosi occhiali da sole ingioiellati. Come se non bastasse a far capire a Nixon e ai suoi con chi si aveva a che fare, Elvis aveva portato un “regalino”, certo che il presidente lo avrebbe apprezzato: si trattava di una colt .45, cromata in oro e cimelio della Seconda Guerra Mondiale.
Quello che le cronache raccontano dell’incontro è stato fedelmente riportato, anche grazie alla mania di Nixon di registrare qualsiasi discussione, privata o pubblica che fosse. Ciò che apparve chiaro ai presenti, fra funzionari, segretari, collaboratori e giornalisti, è che il presidente americano rimase positivamente colpito dal musicista, non solo dalla sua forte volontà di mettere in atto il progetto descritto nella lettera, ma soprattutto dalle sue idee sull’America e la società americana in generale. Nel corso di quella mezz’ora, i profili dei due protagonisti si riflettevano l’uno nell’altro, trovando forti analogie di vedute non solo politiche, ma attitudinali. Nixon rimase stupito e letteralmente affascinato dai modi di Elvis, il quale si aggirava nella stanza ovale come se si sentisse a casa propria. Due uomini che pur provenendo da realtà differenti, la politica e lo star system, si ritrovavano a condividere la stessa visione del mondo. Il dono della pistola lo dimostra: un oggetto non certo scelto a caso ma che rappresentava per entrambi un valore, simbolo di patriottismo e di lotta contro i nemici dell’America. Ciò che è interessante notare è che Elvis non ha “introdotto” nulla di realmente inedito all’interno della stanza presidenziale una volta di fronte a Nixon: la sua figura era fatta su misura anche per quell’ambiente, abituato com’era alle folle ed ad essere considerato un personaggio pubblico. Il rapporto che si stabilì quindi fu completamente alla pari, dove i due interlocutori erano consapevoli dei loro ruoli differenti ma anche di come potessero romperli, e anche abbastanza facilmente. È ancora Presley che ci da modo di capire questo meccanismo: nel bel mezzo di una discussione su come poter arginare le minacce anti americane, il musicista del Mississippi, convinto della sua strategia, affermò nei confronti del presidente: “fai il tuo show che io farò il mio”. Per Elvis la sua musica e la sua stessa vita sono state un lungo e interminabile spettacolo: e perché mai non dovrebbe anche esserlo alla Casa Bianca? Elvis sembra pensare, intelligentemente, che gli obiettivi del music business e della politica saranno anche differenti ma i metodi usati non sono affatto tanto diversi: tutto sta a come ci si presenta alla gente, dando loro ciò che vogliono. Per questo, essere un agente infiltrato dell’F.B.I. non suonava per niente assurdo alle orecchie di Presley: sarebbe stato un travestimento come un altro per uno show come un altro, quello imbastito dalla politica. 

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Alla fine dell’incontro, Nixon era talmente rimasto impressionato che, alla richiesta perentoria del musicista di ottenere il distintivo da agente, acconsentì, dandoglielo di persona; quello fu l’ennesimo di una serie di distintivi che Elvis ebbe ricevuto da altre stazioni di polizia e che, fra l’altro, aveva portato con sé per mostrarli al suo presidente.
Anni dopo, Presley cercò anche di avvicinare il capo dei servizi segreti americani in carica in quegli anni, John Edgar Hoover, da lui definito “il più grande americano vivente”. Ma nonostante la sua disponibilità per la causa americana e le sue solite tirate sui Beatles e altri personaggi dalle idee democratiche (come l’attrice Jane Fonda), Elvis ricevette solo una lettera autografata da Hoover in cui lo si ringraziava e si garantiva di ricordarsi della sua offerta di collaborazione.
Elvis non riuscì mai a porre in atto i suoi intenti, a mettere in piedi il suo ultimo, assurdo, impensabile e, probabilmente, più importante show della sua vita. Di certo però ha lasciato intravedere per un attimo, in maniera del tutto involontaria ma non per questo meno significativa, uno dei mille volti dell’agire politico: un volto che può rendere un’idea talmente tanto assurda assolutamente possibile.
 
Immagini tratte da:
  • altrimondinews.it/
  • hollywoodreporter.com
  • static.dagospia.com
  • dn.images.express.co.uk

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