Di Enrica Manni La celiachia è una malattia che è stata riscontrata piuttosto frequentemente negli ultimi anni per due motivazioni fondamentali: prima di tutto sono nettamente migliorate le capacità diagnostiche che ci permettono di riconoscerla più facilmente; in secondo luogo, le modifiche apportate dall’uomo sul grano per migliorarne gli aspetti qualitativi, quantitativi e proteggerlo da eventuali agenti patogeni, hanno reso più presente il glutine, protagonista indiscusso di questa condizione clinica. Non si tratta tuttavia di una patologia frequentissima, riguarda infatti circa l’1% della popolazione e, poiché molti soggetti sono celiaci pur non presentando manifestazione cliniche della malattia, è tutt’ora e nonostante tutto sottodiagnosticata: si parla infatti di iceberg celiaco, intendendo come i pazienti con diagnosi siano quantitativamente solo una punta rispetto alla totalità degli affetti. Da che cosa dipende? Il fattore scatenante, in soggetti geneticamente predisposti, è la gliadina, ovvero la frazione proteica insolubile in acqua del glutine, del frumento e di graminacee affini come orzo, segale ed avena. La gliadina contiene peptidi ricchi di prolina e glutamina. Questi amminoacidi, negli individui celiaci, vengono deaminati dall’enzima transglutaminasi (gli viene tolto il gruppo amminico -NH2) ed associati agli antigeni DQ2 e DQ8. Si formano in questo modo delle molecole nuove che vengono riconosciute come estranee e presentate dai macrofagi ai linfociti T dell’organismo scatenando sia una reazione citotossica diretta sull’enterocita intestinale, sia una reazione indiretta con produzione di anticorpi contro la gliadina e contro le transglutaminasi, gli enzimi responsabili di tutto. Qual è il risultato? Il risultato può essere talvolta un esteso danno della mucosa intestinale con manifestazioni cliniche di notevole entità. La diagnosi tuttavia non è così immediata come si crede. Nell’immaginario collettivo, infatti, la celiachia è associata alla distruzione della mucosa intestinale e quindi correlata ad una sintomatologia gastrointestinale (diarrea, dolorabilità addominale, calo ponderale con addome globoso). Questo è vero, ma valido soprattutto per le diagnosi fatte in età pediatrica. Gli adulti, purtroppo, non presentano quasi mai sintomi gastrointestinali, ma nell’80% dei casi manifestano sintomi che con il tratto gastrointestinale non centrano nulla come:
Come si fa quindi a sapere se si è o no celiaci?
La diagnosi definitiva spetta al patologo che dovrà valutare dapprima la storia clinica e la sintomatologia (eventuale, perché abbiamo detto potrebbe anche non esserci) del paziente; poi dovrà cercare attraverso delle analisi sierologiche gli anticorpi anti gliadina ed anti transglutaminasi di cui abbiamo precedentemente parlato, ma, cosa più importante in assoluto, dovrà valutare la mucosa intestinale del paziente dopo aver eseguito una gastroduodenoscopia. Come si cura la celiachia? Per quanto la ricerca sia molto attiva in quest’ambito, l’eliminazione del glutine dalla dieta è, ad oggi, l’unica terapia possibile. Gluten sensitivity Ci sono infine dei pazienti che hanno dei sintomi tipicamente gastrointestinali (diarrea, dolore addominale, borborigmi post-prandiali) ma non sono celiaci, sono semplicemente sensibili al glutine. Questa condizione è 6-7 volte più diffusa della celiachia! Tali soggetti vengono messi a dieta per 1-2 anni per poi esser reintrodotti ad un’alimentazione del tutto normale. Immagini tratte da: La celiachia è una patologia immunomediata scatenata dall’esposizione al glutine [http://gds.it/2016/01/31/celiaci-in-aumento-in-italia-la-meta-vive-al-nord-cosi-al-sud_468686/] Sintomi aspecifici e non correlati al tratto gastrointestinale, tipici degli adulti [https://articoli.torrinomedica.it/approfondimenti/dermatologia/dermatite-erpetiforme/] [https://it.dental-tribune.com/clinical/manifestazioni-orali-nel-paziente-celiaco/]
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Di Enrica Manni e Giulia Ritossa Stanchi dell’atmosfera stagnante delle palestre? Non avete più scuse, l’outdoor training è la nuova frontiera del fitness. Il termine “outdoor training” si riferisce ad un allenamento all'aperto la cui efficacia è perfettamente paragonabile, se non addirittura superiore, a quella di un allenamento indoor, soprattutto se ci si lascia guidare dai consigli e dalla supervisione di un trainer qualificato. Si tratta di una vera e propria metodologia di formazione con attività che si svolgono in spazi aperti, nella natura, in luoghi diversi e possibilmente "distanti" dalla realtà lavorativa. È una tecnica che sprona l’individuo a mettersi in gioco, ad uscire dalla sua comfort zone, stimolandone l’apprendimento, la coordinazione e la concentrazione. Il pedagogista tedesco Kurt Martin Hahn viene considerato tra i padri dell'outdoor training: a lui e all’armatore inglese Lawrence Holt si deve la fondazione della prima vera scuola di outdoor training nel Galles, il cui motto “Esci al largo, fuori dalle acque sicure ma stagnanti del porto” lascia ben intendere le finalità del progetto. Naturalmente, che sia in montagna, in spiaggia, al lago o al parco, allenarsi all’aria aperta presenta moltissimi vantaggi per la nostra salute non solo fisica ma anche mentale. L’allenamento outdoor stimola il buon umore Allenarsi all’esterno permette di esporsi al sole, ed il sole determina un aumento del rilascio di “ormoni del piacere” come la serotonina e le endorfine. La serotonina, un neurotrasmettitore sintetizzato a partire dall’amminoacido essenziale triptofano, è per eccellenza “l’ormone del buon umore”: dona serenità, calma interiore e migliora anche il sonno, comportando uno stato di benessere generale. Il legame fra la luce solare e la serotonina sembra passare per il chiasma ottico che potremmo grossolanamente definire come “l’incrocio fra i due nervi ottici”: la luce attraversa la retina, dando l’avvio alla produzione di serotonina. L’esposizione ai raggi solari e la stessa attività fisica sono alcuni dei modi (ma non gli unici) per stimolare la produzione di endorfine, neurotrasmettitori noti come “ormoni del benessere”, dotate di attività analgesica. Queste sostanze non fungono solo da antidolorifico naturale ma anche da euforizzante: è noto, infatti, che si leghino agli stessi recettori a cui si legano morfina ed oppio quando vengono introdotti nell’organismo. Un’endorfina è quindi una sorta di morfina naturale secreta dal cervello. L’allenamento outdoor stimola la produzione di vitamina D Anche la vitamina D è prodotta dalla pelle per l’esposizione alle radiazioni solari di tipo UVB (o viene ingerita con la dieta). Una volta prodotta, la vitamina viene convertita nel fegato in 25-idrossivitamina D, cioè le viene aggiunto un gruppo OH, da cui deriva il suffisso “idrossi”, in posizione 25. Poi nei reni diventerà 1,25-diidrossivitamina D. La 1,25-diidrossivitamina D migliora l’assorbimento intestinale del calcio e del fosforo con effetti di prevenzione su numerose patologie dell’apparato osteoarticolare, specialmente l’osteoporosi. L’allenamento outdoor porta ad un consumo maggiore di calorie e grassi Il nostro corpo, infatti, si abitua facilmente agli sforzi muscolari quando viene sottoposto a movimenti ripetitivi, quali ad esempio le sessioni di allenamento sulla cyclette, sul tapis roulant e così via. Il terreno di un parco, invece, è irregolare e costringe il corpo a sfide sempre nuove e impreviste. Dalle variabili climatiche, come la temperatura e il vento, alle diverse inclinazioni del terreno, tutto all’esterno contribuisce a far spendere dal 5 al 7% di calorie in più rispetto a quelle che potrebbero essere bruciate in una palestra. L’allenamento outdoor protegge il nostro sistema immunitario Stare all’aria aperta, per quanto possa sembrare strano, aiuta a correre un rischio minore di contrarre infezioni. I luoghi chiusi, molto frequentati e molto riscaldati, sono spesso un focolaio di virus e batteri. L’inquinamento indoor, dunque, può essere più elevato di quello esterno. Strano ma vero! In Italia si sono affermate diverse realtà nel campo dell’attività fisica outdoor. Tra queste possiamo menzionare “IMPACTO TRANING” ideato da Fabio Inka, recentemente inserito nella proposta formativa dell’Università Telematica San Raffaele di Roma. A Milano l’asd “URBAN RUNNERS” organizza allenamenti di gruppo per trovare la giusta motivazione e poter avere un confronto con qualcuno che sappia guidare e stimolare. A Bari il giovanissimo Luigi Lavermicocca, laureato in Scienze Motorie, insieme ad altri colleghi ha dato vita all’Associazione A.S.D. Sportiamo, di cui è presidente: questi ragazzi, cui va riconosciuto il merito di esser stati i capifila di un’idea così originale nel sud Italia, hanno avviato il progetto “YESNOW - La tua palestra a cielo aperto” con l’intento di promuovere un corretto lifestyle incentrato su un allenamento total body, e al tempo stesso valorizzare il territorio andando a scovare i luoghi più belli e caratteristici della città di Bari. La sensibilizzazione al connubio sport-ambiente potrebbe far sì che si sviluppi consapevolezza da una parte a livello fisico e personale, dall’altra a livello ambientale, salvaguardando e promuovendo le risorse di ogni territorio. Immagini tratte da:
Uno degli allenamenti di YESNOW in un parco di Bari [https://www.facebook.com/pg/sportiamoASD/photos/?ref=page_internal] L’esposizione al sole stimola la produzione di vitamina D con grande beneficio delle ossa [http://www.sunshinesourdough.com/the-sun-and-vitamin-d/] YESNOW ed i suoi workout vista mare a Bari [https://www.facebook.com/pg/sportiamoASD/photos/?ref=page_internal] di Enrica Manni Le festività natalizie sono probabilmente il periodo dell’anno in cui si consuma la maggior quantità di cibi fritti: baccalà in pastella, pettole, struffoli…come sottrarsi a tutte queste prelibatezze? Come fare per cercare di “limitare i danni” del fritto? Bisogna essere consci del fatto che friggere possa contribuire a creare delle sostanze nocive, quindi essere attenti e meticolosi aiuterà senza dubbio a contenere i pericoli. L’elemento forse più importante è la temperatura dell’olio, se essa è troppo alta si rischia di raggiungere quello che comunemente viene definito punto di fumo. A questa temperatura, attraverso una reazione chimica complessa, l’olio si trasforma in fumo e questo elemento è la base della produzione di un gran numero di sostanze tossiche come idrocarburi policiclici aromatici, ammine eterocicliche, formaldeide, acetaldeide, acrilamide che sono state classificate come "probabilmente cancerogene per l'uomo" dalla International Agency for Research on cancer (IARC). Sarebbe dunque molto utile avere in casa un termometro da cucina con cui poter misurare la temperatura dell’olio prima di procedere con le fritture, qualora non fosse in nostro possesso, si può procedere per tentativi: immergendo un po’ di pastella in un olio non ancora sufficientemente caldo, esso penetra nell’alimento riempiendolo di olio. Fondamentale per una buona frittura è che il grasso non sia assorbito dal cibo! Se la temperatura è tra i 160 - 180°C e il grasso avvolge tutto l’alimento (immersione) si forma subito la reazione di Maillard, in poche parole il cibo si trasforma esternamente formando una crosticina che impedisce al grasso di entrare all’interno di ciò che si sta friggendo. Se la crosticina non si crea subito sull’alimento oppure sulla pastella, la farina o il pan grattato che lo ricoprono ecc., il grasso viene assorbito causando un conseguente aumento delle calorie e un fritto non croccante. Altro elemento fondamentale è scegliere bene la tipologia di olio da utilizzare. L’olio extravergine d’oliva è perfetto, perché costituito per un 70% di acido oleico, acido monoinsaturo, con solamente un doppio legame che gli dà stabilità consentendogli di esser danneggiato meno dall’elevata temperatura. È possibile anche mescolare due differenti tipologie di olii: quello d’arachidi ha una composizione valida per la frittura al pari di quello d’oliva. Si dovrebbero, invece, evitare quelli troppo polinsaturi che possono sprigionare quantità superiori di sostanze nocive. In generale, se ben usati, vanno bene tutti gli oli monoseme perché se ne conosce l’origine, mentre quelli di semi vari possono contenere oli, o aver subito lavorazioni, che li hanno resi meno resistenti al calore. L’olio va inoltre periodicamente cambiato, perché quanto più permane ad elevate temperature, tanto più aumenta il rischio che si producano sostanze tossiche. Ci sono poi degli alimenti, come ad esempio il pesce, che essendo a loro volta composti da acidi grassi polinsaturi, soffrono molto la frittura in termini di salubrità: bisogna considerare che, al pari dell’olio, anche gli alimenti che introduciamo nell’olio potrebbero esser danneggiati dalle alte temperature! Le fritture, inoltre, sono preparazioni tipiche che mantengono il loro sapore se consumate subito dopo la cottura, pertanto non si dovrebbero conservare i cibi fritti per consumarli riscaldati il giorno dopo, infatti oltre a perdere la croccantezza il fritto può formare sostanze volatili responsabili anche di malattie gravi. Fritto e mangiato, come si suol dire! Nonostante tutte queste accortezze la frittura non si trasforma comunque nell’alimento più salubre del mondo ed è quindi lecito domandarsi quante fritture si possano introdurre nella propria alimentazione senza fare danni. Senza particolari problemi di salute è possibile consumare una frittura ogni 10/15 giorni. Ovviamente bisogna sempre considerare le quantità: un piatto di fritto misto può raggiungere l’apporto calorico di un pasto completo. Come fare quindi per mangiare le pettole della nonna senza sentirsi in colpa? La chiave è prevenire! Nei giorni che precedono le festività (così come in quelli che le seguono) bisognerebbe tenersi più leggeri del solito, eliminare il pane dalla tavola, rinunciare agli alcolici e limitare il consumo dei dolci o quantomeno spostarli negli gli intervalli, per lo spuntino di metà mattina/ metà pomeriggio evitando di mangiarne a fine pasto. Immagini tratte da:
http://www.agrodolce.it/ricette/pettole-cucina-pugliese/ http://www.studiovagnetti.com/packaging_40.htm |
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Ottobre 2022
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