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31/5/2017

Il rapporto di causa-effetto

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Di cosa si tratta e perché grazie ad esso possiamo dire che i vaccini sono sicuri.
di Francesco Cacciante
La legge sull’obbligo vaccinale è argomento caldo in questi giorni. Vorrei quindi cogliere l’occasione per parlare di un aspetto fondamentale per il metodo scientifico e necessario per poter leggere con maggior chiarezza gli avvenimenti e le discussioni di questi giorni riguardanti i vaccini e le controversie sulla loro sicurezza.
Mi riferisco al cosiddetto “rapporto di causa-effetto”, vedremo avanti perché è così importante e cosa c’entra con la diatriba sui vaccini.
Si parla di “rapporto di causa-effetto” quando un evento B (effetto) si verifica a causa dell’evento A (causa). Per esempio, supponiamo che stiate passeggiando per la strada quando a un certo punto vi sfreccia, davanti al viso, una palla, che per poco non vi colpisce; vi girate a destra, da dove è arrivata la palla, e notate un gruppetto di ragazzini. Potreste concludere, verosimilmente, che il pallone che vi ha quasi colpito (effetto) sia partito da un calcio un po’ maldestro (causa) di uno di questi ragazzini. In effetti la relazione che esiste fra la pallonata che vi ha sfiorato e il calcio maldestro è proprio il “rapporto di causa-effetto”. Esistono però delle condizioni.
Per prima cosa l’effetto deve verificarsi in presenza della causa. Banalmente, se nell’esempio di prima spostiamo i ragazzini dalla vostra destra alla vostra sinistra, diventa poco plausibile che siano stati loro. È vero anche il contrario, ovvero in presenza della causa deve verificarsi l’effetto, ma con una finezza in più. Prendiamo ancora una volta l’esempio dei ragazzi che giocano a pallone; qualche riga sopra sono stati loro la causa della pallonata che vi ha quasi sfiorato, è vero, ma supponiamo stavolta invece che la pallonata non vi sia arrivata. Se passassimo di là senza che ci arrivasse nessuna pallonata potremmo supporre che nonostante la partita in corso, non arrivino pallonate vaganti. Ma in una partita di strada 5vs5 è molto probabile che almeno uno dei giocatori abbia i “piedi a banana” come il sottoscritto, e che quindi possa essere l’artefice di un pallone vagante. Diremo quindi che l’effetto “pallone vagante” si verifica se ci sono ragazzi a giocare a pallone, ma con una certa probabilità, che dipenderà a sua volta da quanti giocatori coi “piedi a banana” sono presenti; sarà una probabilità molto bassa se non ce ne sono, sarà quasi una certezza se lo sono tutti.
Ora quanto detto finora può risultare una banalità, e in effetti lo è. Ma le cose si complicano notevolmente quando si va a parlare di temi molto più complessi, come ad esempio le vaccinazioni.
La preoccupazione maggiore intorno all’argomento, è che i vaccini possano causare danni di vario tipo. Queste preoccupazioni scaturiscono dall’osservazione di numerosi casi di bambini in perfetta salute, ma che poi dopo il vaccino si sono ammalati. La scienza ci dice che per questi casi non esiste un “rapporto di causa-effetto”, ma è solo una coincidenza temporale. Cerchiamo di capire perché.
Prendiamo il più classico dei classici, l’autismo. Di autismo ne esistono svariate forme di cui noi scienziati stessi ammettiamo di capirci fino a un certo punto. Ma su una cosa siamo abbastanza sicuri. Si tratta di una malattia per lo più genetica ed ereditaria. Perché allora molte persone sostengono che i figli siano diventati autistici dopo la vaccinazione?
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L’autismo è una malattia del neurosviluppo che comporta, fra i vari sintomi, disturbi del linguaggio. Il linguaggio però si sviluppa a partire dal 1°/2° anno di età in poi, per cui è difficile diagnosticarne un deficit, prima che inizi la finestra temporale in cui si dovrebbe sviluppare. Per l’appunto è proprio durante questa finestra che vengono somministrati alcuni vaccini ed è questo il motivo per cui molti credono che sia loro la responsabilità di questa patologia. La comunità scientifica è però d’accordo nel definirla una “correlazione spuria”, ovvero due eventi che si verificano uno di seguito all’altro per coincidenza temporale, ma senza un “rapporto di causa-effetto”.
Per dimostrare questa cosa, ovvero che non esista un “rapporto di causa-effetto”, gli scienziati hanno eseguito in semplice esperimento. Hanno preso un gruppo numeroso di bambini vaccinati, diciamo 10.000, e altrettanti non vaccinati. Sono andati poi a vedere la percentuale di bambini che avevano sviluppato l’autismo nei due gruppi e hanno scoperto che la percentuale non è diversa fra questi due gruppi. Per controprova, perché nella scienza una rondine non fa primavera, hanno poi preso un gruppo di bambini sani e un gruppo di bambini autistici per vedere se magari fra gli autistici ci fosse una maggior percentuale di vaccinati. Anche in questo caso le percentuali sono comparabili.
Questo semplicissimo esperimento, che è molto simile all’esperimento mentale di cui sopra con i ragazzini che giocano a pallone, è esattamente un’applicazione pratica di quello che vuol dire andare a cercare una possibile “relazione di causa-effetto” fra due eventi.
Fortunatamente nel caso dei vaccini possiamo affermare che questa relazione non esiste. Ecco perché ogni scienziato si sgola nel dire che i vaccini sono sicuri. Ed ecco perché è così importante aver chiaro cosa significa “causa-effetto”.

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Ps: l’esperimento di cui ho parlato non me lo sono ovviamente inventato. Se qualcuno volesse approfondire, può trovare l’articolo originale a questo link https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24814559. Inoltre, qui si è parlato di autismo per comodità, ma si può estendere il discorso a tante altre condizioni di cui i vaccini vengono additati come colpevoli.


  Per approfondire:
- La nostra intervista sui vaccini al Prof. Pier Luigi Lopalco

  Immagini tratte da:
- Immagine 1 da
http://www.kidspots.ro/wp-content/uploads/2016/12/copilul-nu-vorbeste.jpg
- Immagine 2 da https://i.ytimg.com/vi/kea51-VkPdk/maxresdefault.jpg

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23/5/2017

Il mistero dei Conodonti

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​di Pietro Spataro
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La paleontologia, come tutte le altre scienze, è fatta di misteri ai quali astuti scienziati cercano di dare risposta. Sfortunatamente però la paleontologia ha un limite: devi trovare i fossili e possibilmente in gran numero e buone condizioni.
Un grande mistero della paleontologia che attanagliava le menti degli scienziati tra il 1800 e il 1900 era il ritrovamento di millimetrici “coni bianchi”. Questi piccoli coni erano numerosissimi e ben conservati nei depositi marini antichi ma non vi era modo di trovare l’organismo a cui appartenessero.
Col tempo e lo studio qualcuno propose che si potesse trattare di piccoli denti di qualche pesce preistorico, il problema era che non vi era traccia delle ossa del piccolo pesce.
I dentini, denominati Conodonti, si ritrovarono ravvicinati solo negli anni ‘60, presupponendo la fossilizzazione nel luogo della deposizione dell’animale morto; i dentini erano quindi parte di un apparato ma anche stavolta il proprietario non c’era.
Nel 1983 l’animale fu finalmente ritrovato. Fa sorridere sapere che si trovava in una roccia sedimentaria, già in possesso di un museo in Scozia per l’abbondante presenza di piccole impronte di gamberetti; era quindi rimasta in un angolino dal 1956 al 1983 tenendo tutti all’oscuro del suo prezioso inquilino.
L’animale Conodonte, nome che determina una disuguaglianza con i suoi denti anch’essi chiamati conodonti, era molto particolare e potremmo descriverlo come un vermetto di qualche decina di centimetri, con un’accennata pinna caudale e due grandi occhi che grazie alla muscolatura potevano ruotare con facilità.
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La storia non è così semplice poiché col tempo si sono scoperte tantissime varietà morfologiche di dente, alcuni dei quali molto difficili da riconoscere; sono stati ricostruiti sistemi dentali complicatissimi con forme che passano dalle coniformi, alle ramiformi, fino alle pectiniformi.
I Conodonti sembrano essere comparsi nel Precambriano (600 milioni di anni fa), sopravvivendo fino al Triassico (200 milioni di anni fa), sorpassando 3 delle 5 grandi estinzioni della storia del pianeta.
Analisi accurate hanno dimostrato che si trattava di piccoli cordati, un gruppo che include vertebrati, urocordati e cefalocordati; tale gruppo si distingue per un’importante caratteristica interna: la notocorda.
Altri paleontologi invece hanno ipotizzano che si tratti di uno dei primi vertebrati, in questo caso i Conodonti si dimostrerebbero un “anello mancante” tra gli invertebrati e i primi “pesci”, affermazione che li renderebbe ancor più interessanti.

Immagini tratte da: 
1. conodonte, da Wikipedia Inglese, By Nobu Tamura email:nobu.tamura@yahoo.com http://spinops.blogspot.com/ http://paleoexhibit.blogspot.com/ - Own work, CC BY-SA 4.0, voce "Conodont"
2/3/4. denti, da materiale dell'autore
5. conodonte, da Wikipedia Inglese, By No machine-readable author provided. Haplochromis assumed (based on copyright claims). - No machine-readable source provided. Own work assumed (based on copyright claims)., Public Domain, voce "Conodont"

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9/5/2017

Il Sahara verde

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​di Pietro Spataro
Ci troviamo nell’ultimo interglaciale, intervallo di tempo che va da 12.000 anni fa a oggi; questo periodo comincia con lo scioglimento delle estese calotte glaciali caratterizzanti l’ultima glaciazione. Dopo la deglaciazione il clima del pianeta Terra si avvia verso un periodo privo di grossi sconvolgimenti. La prima parte di questo interglaciale, che viene anche chiamato Olocene, è caratterizzato dall’aumento delle temperature estive nell’emisfero nord, a loro volta collegate a un aumento dell’intensità solare incidente nel periodo estivo sull’emisfero settentrionale.
Questo innalzamento delle temperature comporta uno spostamento verso nord della fascia denominata ITCZ (zona di convergenza intertropicale). L’ITCZ è una fascia prossima all’equatore caratterizzata dalla convergenza degli alisei o venti del commercio. La convergenza di questi venti porta una risalita delle masse d’aria calde e umide che determinano una zona di instabilità meteorologica caratterizzata da abbondanti piogge.
La fascia dell’ITCZ tende a muoversi annualmente verso l’emisfero nord in estate e verso quello sud in inverno (ricordiamoci che stiamo parlando delle stagioni dell’emisfero nord), determinando le aree bagnate dai monsoni e cioè territori coperti da forti piogge stagionali.
Nella prima parte dell’Olocene, l’elevata insolazione estiva produceva uno spostamento dell’ITCZ molto più a nord di dove arriva attualmente, le zone meridionali dell’area sahariana venivano quindi bagnate dai monsoni estivi, comportando una conformazione climatica e ambientale molto diversa dall’attuale.
Quello che oggi è un deserto iper-arido, 8.000 anni fa doveva quindi essere un’area “verde” o più realisticamente un ambiente approssimabile a un’estesa savana, caratterizzata da inverni aridi ed estati molto piovose (il periodo delle piogge).

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Nel 2006 uscì sulla rivista Science un articolo che correlava la variazione climatica con gli sviluppi degli insediamenti umani nell’area sahariana. Tale lavoro mostrava come i villaggi 10.000 anni fa fossero distribuiti lungo le sponde del Nilo e solo dopo la deglaciazione e il sollevamento dell’ITCZ l’essere umano ha cominciato a diffondersi per il Nord Africa.
Tale espansione degli insediamenti è durata fino a 7.000 anni fa circa, dopo il quale l’ITCZ ha smesso di raggiungere tali aree.
A partire da 7.000 anni fa l’uomo, sospinto dall’inaridimento del Sahara, fu obbligato a stabilirsi sulle sponde del fertile Nilo (per la seconda volta) e forse fu proprio questo flusso migratorio e l’elevata densità di popolazione a far nascere la civiltà chiamata Antico Egitto.
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Immagini tratte da:

http://althistory.wikia.com/wiki/Green_Sahara?file=Green_Sahara.png
http://it.tinypic.com/view.php?pic=21o8195&s=9#.WQ-R-RhabpA

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3/5/2017

Isotopi e come usarli

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​di Pietro Spataro
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Spesso nelle scienze si usa parlare di isotopi, essendo utili per le datazioni di ossa, alberi e rocce o per svariati studi ambientali.
Cosa sono gli isotopi?
Per provare a spiegarlo dovremmo cominciare dicendo che la materia che ci sta intorno è fatta di atomi, a loro volta composti da un nucleo con protoni e neutroni e da particelle, gli elettroni, che gli ruotano intorno. Gli elementi della tavola periodica differiscono per il numero di protoni ma è il numero di neutroni che ne determina la stabilità. Ecco allora che entra in gioco la parola isotopo, cioè un atomo di un elemento avente numero di neutroni diverso da un altro atomo dello stesso elemento (cioè con lo stesso numero di protoni).
Facciamo degli esempi: l’ossigeno con simbolo O ha 8 protoni ma può avere 8, 9 o 10 neutroni
Le notazioni chimiche quindi saranno rispettivamente: 16O – 17O – 18O
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Gli isotopi possono essere suddivisi in stabili e instabili (detti anche radioattivi), nel primo caso l’atomo ha tempi di sopravvivenza così lunghi da essere incalcolabili, mentre nel secondo caso l’isotopo sopravvivrà in natura per un tempo definito e limitato, oltre il quale “decadrà”, trasformandosi in un elemento diverso (o figlio).
Esempi di stabili possono essere i sopracitati isotopi dell’ossigeno mentre per radioattivi possiamo citare il famoso uranio, o U, e il torio, o Th.
Il decadimento degli isotopi, dal momento della sua scoperta, è diventato un importante mezzo per studiare l’universo; scoprire che gli atomi decadevano solo dopo un tempo specifico ha permesso di formulare delle relazioni tra l’abbondanza dell’isotopo radioattivo, dell’isotopo “figlio” (quello creato col decadimento) e il tempo trascorso dalla formazione dell’ “oggetto” che li contiene. Questo, tra i tanti riscontri che ha, permette anche la datazione della materia organica grazie all’isotopo-14 del carbonio o 14C.
Per quanto riguarda gli isotopi stabili, questi sono utilizzati con altri tipi di approcci, viene difatti calcolata l’abbondanza di un isotopo rispetto a quella di un altro isotopo dello stesso elemento, per capire se ci sono dei processi che fanno aumentare l’una o l’altra. Normalmente, quando si produce una reazione chimica si ha sempre un arricchimento di un isotopo rispetto a un altro e questo dipende proprio dalla differenza delle loro masse (numero di neutroni nel nucleo).
L’ossigeno risulta utile nello studio della chimica delle acque e dà informazioni relative alla provenienza dell’acqua che beviamo o utilizziamo.
Lo stronzio, o Sr, ci dà informazioni riguardo il percorso che le acque effettuano tra le rocce prima di arrivare in superficie e ci aiutano nella ricerca di inquinanti.
L’azoto, o N, viene invece utilizzato per studiare i suoli agricoli e per discriminare l’uso di fertilizzanti sintetici rispetto a quelli naturali.
L’uso degli isotopi radioattivi è molto rodato poiché viene utilizzato da decenni mentre quello degli isotopi stabili è diventato importante solo negli ultimi anni e se ne scoprono sempre nuovi utilizzi.
Immagini tratte da:
​http://wwwra.ansa.it/webimages/foto_large/2013/6/6/1370505110338_at.jpg
http://www.matefilia.it/arturnet/numero2/fermi/davide/images/fig7.gif

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