di Enrica Manni L’esplorazione dello spazio ha sempre affascinato molto gli uomini. Le numerose esperienze di permanenza di mesi nello spazio e le previsioni di voli interplanetari della durata di alcuni anni nel prossimo futuro, pongono alla fisiologia umana e alla medicina dell’esercizio fisico una serie di “problematiche” da risolvere. La forza di gravità alla quale sono sottoposti sulla terra gli esseri viventi regola in modo determinante la funzione di tutti gli apparati dell’organismo. Il funzionamento del sistema cardiocircolatorio e respiratorio, la distribuzione dei liquidi corporei nei vari tessuti, la struttura dell’osso e la possibilità di mantenere elevato il contenuto minerale, la composizione del muscolo, sono stati per millenni condizionati dalla forza di gravità. Pertanto, la permanenza per periodi più o meno lunghi nello spazio, in condizioni di assenza di gravità, provoca una serie di squilibri a un organismo perfettamente adattato alla gravità terrestre. SISTEMA OSTEOARTICOLARE Sulla terra l’osso è costantemente sottoposto a processi di decalcificazione e ricalcificazione stimolati da vari fattori fra cui l’esercizio fisico, la dieta, il patrimonio genetico. Il mantenimento della posizione eretta, ad esempio, determina la contrazione dei muscoli antigravitari (quelli che ci permettono di rimanere in piedi senza che il nostro scheletro si accasci in avanti, i muscoli del tronco) e questo costituisce un impulso per la deposizione di osso, così come l’attività fisica. Nello spazio, in condizioni di microgravità, la funzionalità dei muscoli antigravitari sarà minima e questo contribuirà a favorire il processo di degradazione del tessuto osseo; a questo bisogna aggiungere che nello spazio è molto difficile lo svolgimento di una regolare attività fisica (anche se questo è uno dei meccanismi con cui gli astronauti provano a rallentare il processo di demineralizzazione ossea). Non tutte le ossa sono uniformemente coinvolte, il cranio, ad esempio, sembra esser risparmiato. Al rientro sulla Terra occorrono mesi perché il tessuto osseo riprenda il suo fisiologico contenuto minerale. SISTEMA MUSCOLARE Nello spazio molti muscoli che sulla Terra usiamo abitualmente, magari anche senza rendercene conto, come i sopracitati muscoli antigravitari, non servono quindi si deteriorano progressivamente, come dopo un lungo periodo di inattività. Dopo un anno nello spazio la forza muscolare può anche ridursi del 40/60% rispetto al valore originario. SISTEMA VESTIBOLARE L’apparato vestibolare, localizzato a livello dell’orecchio interno, ci consente il mantenimento dell’equilibrio e anche questo, in condizioni di microgravità, si disorienta completamente determinando l’insorgenza di una sindrome comunemente definita “mal di spazio”: si configura con una profonda sensazione di nausea per ogni, seppur minimo, movimento della testa, difficoltà di concentrazione, sonnolenza, perdita di appetito. Alcuni astronauti, i più sfortunati, vanno incontro a continui e ripetuti episodi di vomito. Il rientro sulla Terra non è affatto più semplice perché molti continuano ad avere vertigini per qualsiasi movimento, alcuni addirittura non sono in grado di scendere autonomamente dalla navicella. SISTEMA CARDIOCIRCOLATORIO Nello spazio c’è la tendenza ad accumulare sangue nei vasi di grosso calibro della parte superiore del corpo (torace) con conseguente aumento della pressione venosa centrale che, attraverso una serie di meccanismi regolatori, porta a un aumento della diuresi con successiva riduzione del volume sanguigno del 10/20% SISTEMA POLMONARE Aspetto particolarmente preoccupante è determinato dall’accumulo a livello delle vie aeree di microparticelle. Esse, sempre a causa della mancanza di gravità, non possiedono la capacità di sedimentare e quindi il loro accumulo prosegue indisturbato. Possono perfino arrivare agli alveoli e portare a una possibile alterazione della funzionalità polmonare. Tutte queste alterazioni fisiologiche a cui gli uomini vanno incontro in condizioni di microgravità, non limiteranno la curiosità umana né fermeranno la volontà di esplorare l’universo (per fortuna) ma forniranno ai medici un valido strumento per comprendere fino in fondo cosa si modifichi ed eventualmente prevenirlo. Fonti: Fiorenzo Conti, Fisiologia Medica, Vol. II, Milano, Edi.Ermes, 2003. Immagini tratte da: http://www.clinicheblanc.com/chi-siamo/slider-astronauta-3/ Fiorenzo Conti, Fisiologia Medica, Vol. II, Milano, Edi.Ermes, 2003.
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di Pietro Spataro Parliamo di un argomento alquanto spinoso, vi va? Ecco a voi: la fusione dei ghiacci antartici. Come avrete potuto capire dai miei passati post, sono un assoluto sostenitore dell’esistenza e dell’importanza del surriscaldamento globale, ciò però non mi rende un catastrofista di professione. Per questo motivo tenterò di parlarvi, in modo più critico possibile, di due articoli recenti: “Mass balance of the Antarctic Ice Sheet from 1992 to 2017”, uscito su Nature, e “Ice loss in Antarctica is increasingly contributing to global sea level rise”, postato sul portale Eurkalert. Essi ci mostrano dei numeri da far girare la testa: l’Antartide avrebbe perso 76 milioni di tonnellate di ghiaccio ogni anno per il periodo tra il 1992 e il 2012 mentre tra il 2012 e il 2017 la perdita si sarebbe triplicata raggiungendo i 219 milioni di tonnellate di ghiaccio perso ogni anno. Nei 25 anni analizzati la perdita di ghiaccio avrebbe permesso una risalita globale del livello del mare di circa 8 mm. Quello che questi lavori hanno fatto dimenticare sono i valori estremamente positivi degli attuali tassi d’accumulo della neve all’interno del Continente Antartico. Ecco qui, allora, un lavoro datato al 2015 e pubblicato sul Journal of Glaciology intitolato “Mass gains of the Antarctic ice sheet exceed losses” che ci mostra come i tassi d’accumulo eccedono i tassi di perdita del ghiaccio, determinando quindi un bilancio positivo di crescita dei ghiacci. La differenza, secondo questo lavoro, è di circa +82 milioni di tonnellate annue durante il quinquennio 2003-2008 mentre tra il 1992 e il 2001 la differenza era di +112 milioni di tonnellate annue. Quanto detto è totalmente in disaccordo con i lavori recenti sopracitati, ridisegnando l’Antartide come un luogo che tampona, invece che aiutare, la risalita del livello del mare. Questo ci dimostra la difficoltà di calcolare con precisione, mediante l’uso dei satelliti, le piccole variazioni altitudinali e i movimenti dei ghiacciai di una regione veramente vastissima. Altri dati che stridono con i più recenti lavori sono i volumi record del ghiaccio marino invernale al largo del Continente Antartico tra il 2012 ed il 2014. Proprio gli anni nei quali i valori di perdita di ghiacci triplicano. Quello che voglio far capire con questo articolo è che il catastrofismo fa notizia ma risulta troppo semplicistico soprattutto se si parla di un’area così difficile da analizzare. L’Antartico insieme all’Artico, giocano un ruolo fondamentale come veri e proprio condizionatori per il pianeta. Sono inoltre le regioni che maggiormente vengono colpite dal riscaldamento globale e in questo senso l’Artico ci mostra, come da manuale, una continua e sempre più rapida perdita dei ghiacci. L’attività dell’Antartico non è però altrettanto semplice da spiegare, i suoi ghiacci non si contraggono con l’aumento delle temperature globali e tantomeno non si espandono seguendo un modello tipo “altalena climatica”. Capire quali sono i rapporti in gioco tra Artico e Antartico e quali sono i fattori in gioco che determinano l’attività glaciale Antartica sembrano di primaria importanza nella comprensione delle evoluzioni climatiche presenti e future a scala planetaria. Immagini tratte da: https://www.nasa.gov/press-release/nasa-study-shows-antarctica-s-larsen-b-ice-shelf-nearing-its-final-act https://www.nasa.gov/content/goddard/antarctic-sea-ice-reaches-new-record-maximum di Pietro Spataro Qualche giorno fa ho ascoltato il discorso di un mio coetaneo che mi ha fatto pensare molto. Lui affermava di sentirsi apatico nei confronti del Cambiamento climatico, più estesamente si sentiva incapace di provare reale interesse, timore, frustrazione o voglia di agire di fronte al problema. A detta sua questa apatia derivava da una continua “informazione” riguardante quei “problemi che ci uccideranno tutti”. Per fare qualche esempio, tempo addietro si parlava spesso della futura mancanza di acqua e del pericolo che ne derivava, oppure del problema della riduzione dell’ozonosfera o buco dell’ozono che ci avrebbe letteralmente “fritto lentamente pelle e occhi”. A renderlo ancora più scettico erano le parole di molti scienziati che affermavano frasi tipo “ormai il danno è fatto” o “a questo punto non si può tornare indietro” o, ancora, “l’Accordo di Parigi è una bufala e un progetto impossibile”. Non è, quindi, difficile comprendere la sua apatia e la sua mancanza di interesse di fronte all’ennesimo problema. Da qui, la prima osservazione: la buona informazione può danneggiare quanto la cattiva. L’accordo di Parigi, se vi ricordate, ha definito obiettivi di contenimento delle emissioni di gas serra e quindi di aumento globale delle temperature. Si parla di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali. L’azzeramento delle emissioni in pochi anni, affermazione già di per sé quasi fantascientifica, sarebbe sufficiente per rispettare l’Accordo? Fin qui il mio coetaneo ci aveva visto lungo, era informato, e quindi sapeva la risposta: NO. Numerosi gruppi di ricerca hanno studiato a fondo nella questione e la risposta è che la riduzione a zero delle emissioni è un fattore necessario ma non sufficiente. Siamo, a questo punto, tutti spacciati? Per ora no, perché entrano in gioco le famose “emissioni negative” e cioè la rimozione della CO2 dall’atmosfera. Vista quindi la difficoltà di raggiungere almeno in tempi brevi l’emissione zero si necessita dell’avvio su scala globale di ingenti quantità di emissioni negative (negative non nel senso di dannose ma di segno matematico -). Abbiamo un doppio lavoro da fare: modificare radicalmente l’attuale sistema energetico basato sul non-rinnovabile e decarbonizzare (non è una parolaccia e, anzi, deve diventare al più presto un “must” delle discussioni da bar) l’atmosfera dalla CO2 che ormai abbiamo già emesso. L’interesse economico-tecnologico riguardante i metodi di rimozione della CO2 sta salendo esponenzialmente. Si parla sempre più di bioenergia con cattura e stoccaggio di carbonio (BECCS), rimboschimento e re-forestazione, cattura diretta di CO2 dall’atmosfera (DACCS), miglioramento degli agenti climatici, fertilizzazioni oceanica, biochar e sequestro del carbonio nel suolo. Tanto c’è da fare e tanto ci sarebbe da dire ma oggi finiamo con una specie di slogan: la partita non è assolutamente persa. Immagini tratte da: https://www.bloomberg.com/view/articles/2016-10-26/magical-thinking-won-t-stop-climate-change |
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Ottobre 2022
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