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31/10/2018

La Fast Fashion

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di Pietro Spataro
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Vi starete chiedendo perché parlare di abbigliamento e di moda all’interno di un settore a carattere scientifico e la risposta, nonché l’incipit di questo articolo, è che il settore dell’abbigliamento è il secondo settore più inquinante e sta subito sotto al settore che comprende estrazione e uso di petrolio, gas e carbone.
Il settore dell’abbigliamento si trasforma in un cancro socio-ambientale con la diffusione della cosiddetta “Fast Fashion” all’interno della quale abbiamo noti brand che modificano il loro catalogo di abbigliamento non più due volte all’anno ma ogni settimana. Per fare in modo che i consumatori siano interessati a tali rapide variazioni di tendenza l’unica soluzione è stata quella di abbassare i prezzi dei capi. Questo ha come conseguenza lo spostamento delle industrie verso i paesi con i minori costi di coltivazione e i minori salari. I requisiti fondamentali di tali paesi devono essere: estrema povertà, arretratezza, governi estremamente instabili, assenza di sindacati e di rosei futuri.
Altra conseguenza della Fast Fashion è la scomparsa della Classe Media, quell’ampia fetta della popolazione dei paesi sviluppati che non è né povera né ricca. Mentre i prezzi di salute, istruzione e assicurazioni continuano a salire, i prezzi dell’abbigliamento stanno diminuendo costantemente. Al contempo, la pubblicità ci ha insegnato che la felicità sta negli oggetti che acquistiamo; per questo motivo, a conti fatti, un consumatore medio (classe media) può permettersi di “essere felice” grazie all’acquisto di 1-2 t-shirt al giorno.
Ad oggi è stimato che ogni anno vengano acquistati nel mondo 100 miliardi di capi d’abbigliamento senza discriminare tra i paesi ricchi e quelli in estrema povertà (i primi comprano ma i secondi no). Acquistiamo il 400% di capi in più rispetto al passato ma al contempo la resistenza dei prodotti è calata drasticamente trasformando un maglione da prodotto durevole (es. lavatrice, frigorifero o sedia) a prodotto “usa e getta” (es. sigaretta o chewing gum). 
E dove finiscono questi maglioni usa e getta? Un cittadino medio (paese sviluppato) butta in media 30 kg di capi d’abbigliamento l’anno, la maggior parte dei quali, essendo non-biodegradabili, é destinata a marcire per 200 anni o più, ammassati gli uni sugli altri. Durante la sosta tenderanno poi a inquinare le falde, oltre che l’ambiente stesso e a rilasciare gas nocivi alla salute.
Qualcuno potrà dire: “io dono i miei vestiti usati in beneficienza”. Anche questa, però, è una triste fine. Solo il 10% dei capi riesce a qessere venduto all’interno dei mercati dell’usato, la restante parte viene spedita ai paesi del 3° mondo. Risultato: la loro industria tessile muore sotto i colpi della nostra “beneficienza” e questi paesi diventano le nostre discariche fuori porta.  
Penso che vi ricordiate quand’è che la Fast Fashion è arrivata alle nostre orecchie per la prima volta. Era il 24 aprile 2013 quando a Dacca, capitale del Bangladesh, crollava il palazzo di 8 piani denominato Rana Plaza all’interno del quale erano localizzate un grosso numero di fabbriche d’abbigliamento. Il crollo portò alla morte di 1.129 lavoratori e al ferimento di altre 2.515 persone. Anche se l’edificio mostrava da tempo segni di fratture e lesioni, i proprietari delle fabbriche tessili ordinarono ai dipendenti di continuare a lavorare. Tale scelta deriva dal fatto che queste industrie sopravvivono grazie agli ordini delle multinazionali dell’abbigliamento che a loro volta non provano rimorso a spostare i propri ordini di produzione verso altre aziende o paesi qualora si alzino i costi di produzione.
Pur di lavorare, queste fabbriche accettano di tagliare i salari ai propri dipendenti che spesso non raggiungono neanche l’1,5 dollari al giorno e a volte nemmeno i 10 dollari al mese. La mancanza di pensioni, diritti dei lavoratori e sindacati è fondamentale nella scelta delle fabbriche mentre la mancanza di controlli da parte delle organizzazioni internazionali deriva dai diritto di “libero mercato” al quale si appellano i famosi brand.
Ultimi punti da tenere in considerazione sono l’uso di tessuti a basso costo derivanti dalla coltivazioni nocive per l’ambiente di produzione, per i coltivatori e forse (questo si vedrà solo nei prossimi anni) anche alla pelle dei consumatori. Questo a partire dall’uso di sementa modificata geneticamente che, promettendo l’immunità dai parassiti e la crescita in terreni contaminati (contaminati dai pesticidi che le stesse aziende avevano venduto prima), viene pagata circa il 17.000% in più di quella tradizionale (vedasi il cotone Bt) e dall’uso di fertilizzanti azotati e pesticidi che in primis inquinano l’ambiente e poi colpiscono la salute delle persone portando difetti congeniti, tumori e malattie mentali o handicap fisici nei più piccoli.
Dobbiamo capire che siamo consumatori e che facciamo parte di un sistema che sta mettendo a dura prova la salute del nostro pianeta; che sta facendo soffrire o peggio sta uccidendo altre persone, persone a noi distanti centinaia o migliaia di chilometri, di cui forse non conosceremo i nomi, ne loro conosceranno mai i nostri, ciò non toglie che stiamo decidendo il loro destino a suon di acquisti. Oggi compriamo sempre più “biologico” al supermercato, dovremo imparare presto a fare lo stesso anche con l’abbigliamento.

Immagini tratte da:
https://thegoodfill.co/blogs/news/fast-fashion-workers-the-environment

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