di Pietro Spataro L’essere umano ha sempre, dalla sua comparsa sulla Terra, rincorso la felicità. Solo di recente, però, alla parola felicità si è affiancata la parola ricchezza. Oggi crediamo che per essere felici sia necessario essere ricchi. Ci siamo mai chiesti se questa visone delle cose sia corretta o se la ricerca di questo binomio ricchezza/felicità comporti qualche sgradevole effetto sulla società in cui viviamo? Se andiamo a correlare il tasso di realizzazioni personali con il tasso di disuguaglianza economica all’interno di ogni paese scopriamo che laddove è più semplice il movimento all’interno delle scale del reddito, e quindi maggiori sono le probabilità di auto-realizzazione/tracollo finanziario, maggiore è anche la disuguaglianza salariale. Maggiore disuguaglianza salariale significa minore felicità? A questa domanda tenta di rispondere il paper Inequality and happiness di Alesina, Di Tella e MacCulloch. L’articolo mostra l’esistenza di una diversa visione della cose tra cittadini americani (USA) ed europei. I primi sembrano pensare che i poveri siano tali per svogliatezza e che le differenze salariali non siano un problema per quest’ultimi. Al contrario gli europei sembrano invece credere che una parte del tasso di povertà sia da imputare alle differenze salariali all’interno della società. Se chiediamo, mediante sondaggio, se alla base della realizzazione personale ci sia un buon tasso di fortuna i sondaggiati di USA, Francia, Giappone, Corea e Germania risponderanno con un sonoro No mentre a rispondere Si saranno Italiani, Cinesi, Indiani e Bengalesi. Alla domanda “la ricchezza fa la felicità?” risponde il Paradosso di Easterlin che mettendo a confronto il PIL a persona e la percezione della felicità dei singoli, ci mostra come i soldi siano importanti per chi è più povero ma tendano a dimostrarsi ininfluenti sulla felicità all’aumentare della ricchezza personale.
Il paradosso si osservò per la prima volta analizzando i due valori nelle loro variazione storica a partire dal dopoguerra in poi. I due parametri si mossero in parallelo dal dopoguerra fino agli inizi degli anni ‘60 per poi prendere direzioni opposte: il PIL continuò a crescere con relativa regolarità mentre la felicità cominciò un trend di diminuzione. Si può quindi affermare che i soldi fanno la felicità quando sono utilizzati per affrontare fame, malattie, problemi abitativi e spese famigliari ma perdono di importanza al superamento di una soglia funzionale. Se confrontiamo il numero di relazioni interpersonali con il sentimento di felicità vediamo come i paesi col più alto tasso di individualismo siano proprio quelli col minor tasso di felicità. La correlazione tra disuguaglianza salariale e un indice complesso, comprendente aspettativa di vita, analfabetismo, mortalità infantile, tasso di omicidi, imprigionamenti, tasso di nascite da genitori adolescenti, mancanza di fiducia nel prossimo, obesità, malattie mentali, mobilità sociale, mostra come una bassa disuguaglianza salariale comporta un miglioramento in salute e nei problemi sociali. Se però si prova a sostituire al tasso di ineguaglianza il salario pro-capite medio per i cittadini di ogni paese non si riesce più ad osservare alcuna relazione. Ancora una volta possiamo usare la diseguaglianza salariale come fattore di correlazione con altri parametri come il tasso di salute dei bambini nei vari paesi del mondo (prodotto UNICEF) o con il tasso di fiducia fra persone. Entrambi questi confronti mostrano, in effetti, le correlazioni che ci aspettiamo. Interessante è notare come la fiducia diminuisca all’aumentare della disuguaglianza salariale anche tra stati a simil-economia come i 50 Stati che compongono gli USA. In ultima analisi si osserva anche una correlazione tra la frequenza degli stati di stress e depressione e la disuguaglianza. Questi sono i dati, a voi spettano le conclusioni!
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Ottobre 2022
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