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17/3/2017

La solitudine dei Numeri 10

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di Marco Scialpi

Dopo anni di buio, dopo che la maglia azzurra per eccellenza, quella che ogni bambino sogna, è diventata più uno spauracchio, che un obiettivo, qualcosa finalmente si sta muovendo, stanno crescendo talenti che sembrano avere spalle larghe e personalità per indossarla.

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C'è una maglia azzurra, stinta, nuda e senza volto e senza un padrone vero che si aggira per l'Italia. Sulle spalle c'è il numero 10. Si tratta di un simbolo dell'immaginario collettivo, del sogno di ogni bambino.
In un momento dove Belotti e Immobile stanno incantando le platee a suon di gol, ricalcando le orme dei grandi centravanti del passato (Vieri, Riva, Rossi, Schillaci, Inzaghi, solo per citarne alcuni), facendo anche ben sperare per i Mondiali del prossimo anno, forse manca ancora quell'elemento che abbia nelle corde la giocata risolutrice, il passaggio illuminante, capace di cambiare le sorti di una partita in un secondo.
In questo momento il 10 è di Verratti, stella del Paris Saint Germain, mezzala di fantasia, considerato il nuovo Pirlo, ma molto diverso dall' ex Juventino; ai passati Europei è stato indossato da Thiago Motta, più per carisma e per una scelta fatta andando per esclusione, che per reali meriti tecnici e sportivi.
Finalmente però sembra esserci una nidiata di elementi brevilinei, tutti estro e fantasia, forse non ancora con le spalle abbastanza larghe per indossare una maglia così pesante, ma che fanno ben sperare un popolo di allenatori e direttori sportivi, come è da sempre quello del nostro paese.
Bernardeschi a Firenze, con disinvoltura si è preso la maglia che fu di Baggio, prima ancora di Antognoni e poi di Rui Costa, convincendo anche i più scettici a suon di magie, specialmente da calcio piazzato. Una manna dal cielo per i tifosi Viola, che avevano visto un simbolo così importante “profanato” da meteore come Santiago Silva, Aquilani e Ruben Olivera.
Berardi e Insigne, pur con percorsi e caratteristiche differenti, stanno, a loro volta, facendo vedere buonissime cose a Sassuolo e Napoli. Se il primo è stato frenato troppo spesso dagli infortuni e da un carattere difficile, ma comunque ha dimostrato di avere i colpi del campione, il secondo sta finalmente scrollandosi di dosso i paragoni pesantissimi e inevitabili con “El Dies” per eccellenza, ovvero Diego Armando Maradona.
Insomma, tre pretendenti per la maglia più bella e significativa che possa esistere, che dopo l'era Totti – Del Piero, non ha più trovato un inquilino stabile, pensare che solo una quindicina di anni fa, se la potevano litigare i due sopra citati, ma anche Signori, Mancini, Zola e Baggio; altri tempi, altra Italia, altro calcio.
Per mettere quel numero caro ai pitagorici però, il sacro dieci, che ha in sé la chiave di tutte le cose, ci vogliono gli attributi. Forse li avrebbe, per carisma Buffon, forse Bonucci, ma nessuno di loro è un fantasista vecchia maniera. Curioso il caso delle pre-convocazioni per gli europei dello scorso anno, dove i 27 preselezionati, scelsero di lasciare questa maglia libera.
In passato ci hanno provato prima De Rossi, poi l'eterno Peter Pan Cassano, rimasto mestamente a 35 anni senza squadra a pensare a quello che sarebbe potuto essere e non è stato, poi Giovinco, potenzialmente un fenomeno, ma tremendamente discontinuo. Il Bad-Boy Balotelli non ne ha mai voluto sapere, optando sempre per il meno pesante numero 9.
La solitudine dei numeri dieci può essere identificata come l'esito, il frutto di una battaglia culturale. Qui si inquadra quella voglia di rendere gli italiani quadrati, razionali, compatti, quasi come i tedeschi e non sempre in cerca di un miracolo o di un colpo di magia, come è sempre stato nella nostra indole di artisti, poeti, sognatori. Si vuole azzerare tutte le anomalie, vivere secondo schemi precostituiti, tutti uguali, per non creare invidie, perché alla fine dobbiamo assomigliarci tutti: il 10 se non lo catechizzi finisce che ti fa saltare il banco. Il 10 è un ostacolo verso la perfezione. Ma che gusto ci sarebbe ad avere una squadra composta solo da soldatini impeccabili?
Allora ben vengano i talenti, ben venga la naturalizzazione del promettentissimo Juventino Moise Kean, ben venga Bernardeschi che si prende la maglia di Baggio a vent' anni quasi sprezzante della critica. Non scordiamoci che il calcio è soprattutto un gioco, e un gioco è tale solo quando diverte.




Immagini tratte da:
- news.superscommesse.it
- gazzetta. it


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10/3/2017

Tavecchio bis

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Rieletto al comando della F.I.G.C. non senza polemiche.
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​di Vito Rallo
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Carlo Tavecchio, per altri quattro anni, sarà il presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Il suo avversario, Andrea Abodi, resiste fino alla terza votazione quando basta il 50% + 1 per essere eletto e Tavecchio conquista 275,17 voti, pari 54,03%, contro i 234,08 voti, pari al 45,97%. Le prime due votazioni (al primo turno, necessario il 75 per cento dei consensi per essere eletto; al secondo il quorum scende al 66 per cento) erano andate a vuoto: 56,49% per Tavecchio, 42,92% per Abodi nella prima, 53,7% per Tavecchio, 45,41% per Abodi nella seconda. 
FotoIl presedente Carlo Tavecchio
Prime parole felici per il rieletto presidente che dichiara: "Do atto al mio sfidante della correttezza, e ora dico che con la forza con cui ci si divide bisogna ritrovare la stessa forza per unire. Sono sicuro di aver fatto il mio dovere, ho detto quello che potevo fare, gli impegni che possono mantenere, niente di più”. Tavecchio spera in una Federazione più compatta.
Mostra delusione invece lo sconfitto Abodi che ha commentato la sconfitta elettorale: "Entrare nei numeri diventa difficile: mi aspettavo qualcosa di più, ma è una differenza di sette-otto persone. La vittoria di Tavecchio va riconosciuta: mi auguro che faccia tesoro delle cose che abbiamo detto anche noi. Penso che il calcio abbia bisogno di profondi cambiamenti e di un cambio di marcia. Anche una sconfitta può lasciare qualcosa di buono. È importante che il calcio si renda conto del mondo di fuori e dell'importanza dei tifosi. Bisogna che si lavori sulla qualità della competizione e si ritorni a disegnare un progetto italiano". Continua mostrando amarezza nei confronti degli arbitri, che in totale valgono per il 2% totale del voto, i quali hanno votato per Tavecchio quando inizialmente sembrava dovessero astenersi e quindi essere imparziali: "Io non ho mai pensato che gli arbitri votassero per me. Ho sempre considerato quel 2% sacro, tanto più in una contesa tra due soggetti che rappresentano le leghe pensavo che gli arbitri dovessero restarne fuori. Mi ha amareggiato l'assoluta negazione che esistesse un altro candidato, di un lavoro che ho fatto per sei anni e mezzo. Per me l'arbitro è una figura al di sopra delle parti: aver negato anni di lavoro comune mi pare una mancanza di rispetto. Non è una questione dei veleni di questo giorno, solo un po' di ipocrisia non ci fa comprendere che se non manca il senso dello stare insieme è normale che una contesa elettorale porta dei veleni".

FotoLo sfidante Andrea Abodi
A proposito della polemica sugli arbitri è intervenuto il presidente Associazione Italiana Arbitri Marcello Nicchi aggiungendo "Io non sono né soddisfatto né triste. Noi abbiamo fatto quello che sentivamo di fare.  L'AIA ha dimostrato di essere autonoma e leale. L'altra volta abbiamo votato contro, sapendo che avremmo perso. Questa volta abbiamo votato in un modo diverso".
Ecco il programma elettorale di Tavecchio, diviso in 10 punti:
 
  1. Governance
  2. Organizzazione Federale;
  3. Lotta contro la violenza;
  4. Qualificazione del prodotto calcio;
  5. Settore Tecnico;
  6. Centri di Formazione Federale;
  7. Settore Giovanile e Scolastico;
  8. Nuove risorse economiche;
  9. La comunicazione, i grandi eventi, il Club Italia;
  10. La legislazione e i rapporti con il Governo e quelli col Coni;
  11. La riforma dei campionati e regole delle competizioni.
 
Tavecchio punterà così su una Serie A a 20 squadre con 2 retrocessioni, con una B che gradualmente passerà a 20 squadre con 2 promozioni e 3 retrocessioni. Poi una Lega Pro da 40 squadre divise in due gironi. Verrà introdotto il fair play finanziario dalla stagione 2018/2019, saranno aperti altri 180 centri federali con budget annuale da 10 milioni per 1200 tecnici e ci sarà un'apertura alle seconde squadre dei club di A in Lega Pro senza che possano essere però promosse e retrocesse e senza che possano votare.

Immagini tratte da:
  1. www.figc.it
  2. http://www.salernogranata.it/
  3. http://www.calcioefinanza.it/

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3/3/2017

Presentata la nuova Ferrari, la SF 70h, obiettivo: ridurre il gap con le Mercedes, fino ad ora irraggiungibili

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di Marco Scialpi

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Finalmente è stata svelata alla  stampa e ai  tifosi la nuova monoposto del cavallino rampante; telaio e livrea presentano le novità maggiori, con il rosso decisamente predominante sul bianco. Buone indicazioni già dai primissimi test, mentre, alle spalle dei mostri sacri Vettel e Raikkonen, si affaccia un giovane pilota italiano.
 
La SF 70h è la sessantatreesima monoposto concepita e realizzata dalla Scuderia Ferrari per il Mondiale di Formula 1. Il sogno è quello di ripercorrere i fasti della F1 2000 che, a inizio millennio, fece sognare i tifosi della rossa, entusiasti per un duello punto su punto che vide Schumacher prevalere su Hakkinen.
Quest'auto è la diretta conseguenza di un cambiamento regolamentare che ha pochi precedenti nella storia della categoria: in passato, infatti, si è andati quasi sempre verso norme che limitavano le prestazioni delle monoposto (regolamentazione di cambi gomme, rifornimenti, trionfo dell'elettronica). Ora, invece, è stata presa la direzione opposta: ovvero, aumento di carico aerodinamico e aderenza meccanica.
Veniamo però alle specifiche della vettura: SF sta per Scuderia Ferrari, il numero settanta ricorda il settantesimo anno della scuderia, mentre la lettera H si riferisce al motore ibrido. Quest'anno la Ferrari è più rossa del solito, con il bianco che trova spazio solamente sugli alettoni anteriori e sul retrotreno, dove campeggia anche un tricolore. Si noti anche il quadrifoglio verde simbolo dell’Alfa Romeo e un’aletta sulla “pinna” sopra il cofano.
La nuova Ferrari, per ridurre il gap con le super potenze Mercedes e Red Bull, ha deciso di apportare significative modifiche al carico ed alla resistenza aerodinamica, in modo da guadagnarne in prestazioni, sia sul giro secco, che sulla durata di gara. Importanti novità anche sulle gomme, fornite da Pirelli, più larghe rispetto a quelle delle scorse stagioni: sei centimetri per le anteriori, ben otto per le posteriori.


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Anche il telaio si presenta decisamente rinnovato rispetto agli ultimi modelli: muso allungato e ala a freccia sfruttano i regolamenti, così come la vistosa “pinna” sul cofano motore, che la fa sembrare quasi uno squalo, e che si spera sia pronto a “mangiare” in un solo boccone tutti gli avversari.
Il motore 062 ha visto il cambiamento nella disposizione di alcune componenti meccaniche dell'ibrido, mentre altre soluzioni conservano uno schema simile a quello del poco fortunato 2016. Dal punto di vista prettamente sportivo, l'abolizione dei sistema dei “Tokens” (limiti nell'evoluzione ed elaborazione delle Power Unit), o gettoni, permetterà alla squadra una maggiore libertà per gli sviluppi in corso di stagione.
Confermati i piloti Sebastian Vettel e Kimi Raikkonen, che hanno saputo tenere alta la bandiera del cavallino rampante attraverso almeno un paio di stagioni decisamente complicate, nonostante per il finlandese si fossero fatte insistenti le richieste di almeno un paio di team importanti, uno su tutti la Williams, che ha dovuto fare i conti con la sostituzione di Bottas, passato in Mercedes al posto di Rosberg, ritiratosi da campione del mondo in carica.
Terza guida e quindi prima riserva in caso di problemi dei titolari, è finalmente un italiano molto promettente, Antonio Giovinazzi, fortemente voluto in Ferrari da Sergio Marchionne, dopo le positivissime esperienze in GP2, Formula 3 ed Endurance. Binomio rossa – pilota italiano che fa sognare, sperando che le cose possano andare meglio rispetto all' ultima esperienza targata Badoer – Fisichella, che non riuscirono a essere all' altezza di un volante così prestigioso, chiamati in corsa dopo il gravissimo incidente che quasi costò la vita a Felipe Massa.
Sono trascorsi più di dieci anni dalle ultime presenze di piloti italiani in Formula 1, ricordiamo Trulli e Fisichella, ovviamente, ma anche le fugaci apparizioni di Pantano con la Jordan e di Liuzzi con la Jaguar. Chissà che la scuola di casa nostra, che fino a metà anni '90 l' ha fatta da padrone nel circus delle quattro ruote, questa volta non abbia finalmente sfornato un nuovo grande talento; le premesse ci sono tutte.


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Immagini tratte da:
- motorsport.com
- Gazzetta.it

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24/2/2017

Goodbye Claudio

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Ranieri esonerato dal Leicester City.
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di Vito Rallo
Questa volta vi raccontiamo di una favola che non ha il lieto fine. Ieri sera Claudio Ranieri è stato esonerato dalla panchina del Leicester City dopo che pochi mesi prima l’aveva portato sul gradino più alto della Premier League. Un trionfo indimenticabile di un club medio piccolo che batte tutti i giganti inglesi. Guidato proprio dal nostro tecnico italiano, fino a pochi giorni fa osannato da tutti. Ma la nuova stagione è iniziata e sta continuando male col rischio addirittura della retrocessione e l’eliminazione nei primi turni della FA Cup . Nonostante un buon girone di Champions League, che ha visto il Leicester qualificato per gli ottavi come primo del girone, la decisione è stata presa esattamente dopo la sconfitta per 2-1 nell’andata degli ottavi contro il Siviglia. 
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Questo il comunicato della società:  “Questa sera il Leicester City Football Club ha sciolto il rapporto con il suo allenatore della prima squadra Claudio Ranieri. Claudio è stato chiamato ad essere il manager del Leicester nel luglio 2015 ed ha portato le Foxes a raggiungere il più grande trionfo nei 133 anni di storia del club quando la scorsa stagione siamo stati incoronati, per la prima volta, campioni d'Inghilterra. Il profilo di Claudio Ranieri è senza dubbio quello del tecnico di maggior successo di tutti i tempi del Leicester. Tuttavia, i risultati raccolti quest'anno nella stagione in corso hanno posto il club campione di Premier in una situazione di pericolo, e per questo motivo il Consiglio, a malincuore, ha ritenuto che un cambio della guida tecnica, che sicuramente è doloroso, sia necessario per il più alto interesse del club”.
FotoIl vicepresidente Aiyawatt Srivaddhanaprabha
Comunicato a cui si aggiungono le parole del vicepresidente Aiyawatt Srivaddhanaprabha: “Questa è la decisione più difficile che abbiamo preso da sette anni a questa parte. Ma noi dobbiamo pensare agli interessi a lungo termine del club e prendiamo decisioni che vanno anche contro i sentimenti. Ranieri ha portato grandissime qualità: con la sua bravura manageriale e la sua motivazione ci ha dato molto. Ha trasformato le prospettive del club. Gli saremo per sempre grati. Non ci aspettavamo di ripetere i risultati dell'anno scorso. Ma restare in Premier era ed è il nostro unico obiettivo. Ma stiamo facendo fatica e stiamo lottando contro ciò e dobbiamo massimizzare le opportunità da qui alla fine, per le ultime 13 partite”.

FotoIl successo e la felicità di pochi mesi fa
Decisione che le malelingue dei tabloid inglesi dicono sia stata presa in una riunione tra i senatori della squadra e la dirigenza del club. Quindi una sorta di tradimento dei suoi pupilli che devono molto all’allenatore romano.
Ovviamente tanta solidarietà da colleghi e non per Ranieri, anche da parte di José Mourinho che non ha mai parlato bene del tecnico italiano ma che questa volta commenta così l’esonero: “Campione d'Inghilterra e allenatore dell'anno FIFA, licenziato. Questo è il nuovo calcio, Claudio. Continua a sorridere amico, nessuno può cancellare la storia che hai scritto”". Tutti sulla tessa lunghezza d’onda, facendo riferimento all’inesistente riconoscenza verso un tecnico che solo pochi mesi prima aveva compiuto un vero e proprio miracolo sportivo. Luciano Spalletti, appena appreso la notizia, ha detto: “Claudio Ranieri esonerato dal Leicester? Mi dispiace molto, in questo sport si vede che non c'è nemmeno un po' di riconoscenza. Penso avesse molti meriti nell'aver creato quella chimica nello spogliatoio per andare al di là del possibile. E ora invece il ringraziamento è questo qui. Visto che è di Roma lo aspettiamo a casa perché noi gli vogliamo bene. Se viene a trovarci ci fa un favore”. 

Anche una storica stella delle Foxes come Gary Lineker si scaglia contro la società : “Dopo quello che ha fatto per il Leicester, cacciarlo è inspiegabile, imperdonabile e maledettamente triste. Grazie mille di tutto, Mr. Ranieri.”
Sicuramente l’unica cosa che non preoccuperà ora il mister di Testaccio è lo stipendio, visto che a Luglio scorso aveva rinnovato il contratto fino al 2020 per ben cinque milioni di euro all’anno che, fino a quando non accetterà un’ altra avventura su un’altra panchina, si potrà godere da casa o da qualche meta turistica, magari pensando proprio al “miracolo Leicester” e ridendoci su. 
Immahini tratte da: 
  1. http://www.independent.co.uk/
  2. http://radiogoal24.it/
  3. http://www.mirror.co.uk/

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17/2/2017

Va in pensione una delle voci storiche di "Tutto il calcio minuto per minuto" : si chiude un'era per il giornalismo italiano

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Dalla laurea in lettere, al concorso per giornalisti, ai consigli di Ameri, ai ricordi di bambino. Ecco chi è Riccardo Cucchi, storica voce di quel mezzo di comunicazione che è la radio, erede designato e pupillo di Ameri, voce di un mondiale vinto e di svariati trionfi olimpionici.
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di Marco Scialpi

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Riccardo Cucchi, classe 1952, una laurea in lettere ed una vita nelle case, nelle auto, nelle domeniche degli italiani. Chi ha vissuto l' era pre-smartphone non può non avere un ricordo associato ad un qualche fine settimana, magari in giro con amici o fidanzata, ma con la radiolina nelle orecchie, per seguire la squadra del cuore, anche con il rischio di litigare. Bastava sentire questa voce, ormai familiare, per capire di essersi sintonizzati sulla frequenza giusta.

Dopo trentotto anni di onoratissima carriera, la prima voce di Tutto il Calcio Minuto per Minuto, appende il microfono al chiodo ed entra nell' olimpo del giornalismo sportivo radiofonico insieme ad Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Nicolò Carosio, Alfredo Provenzali e tutti gli altri straordinari narratori del calcio.
Cresciuto e formatosi ascoltando i primissimi radiocronisti dell' emittente di stato, quando ancora trasmettevano solo i secondi tempi delle partite, quando ancora dominava la pubblicità della “Grappa Julia” ed il risultato se non si era allo stadio, era praticamente impossibile da sapere, Cucchi ha prima sognato e poi iniziato a fare questo mestiere.

Le porte di Saxa Rubra, si spalancano nel 1979 grazie ad un concorso dove capo della commissione d’esame era Sergio Zavoli, un' istituzione. Durante il colloquio orale, chiese al giovane candidato: “Ma lei, se noi decidessimo davvero un giorno di assumerla, cosa vorrebbe fare?”.
Cucchi rispose che avrebbe voluto fare il giornalista sportivo. “Allora mi faccia vedere come racconterebbe una partita di calcio”, incalzò Zavoli che, però, non poteva sapere che fin da bambino Cucchi giocava a fare la radiocronaca con le figurine Panini davanti.
La Rai era solita affiancare le nuove leve ai professionisti già affermati, così che, spesso si trovava in cabina di commento con Enrico Ameri. La prima volta per un Milan-Juventus. Cucchi era poco più che un ragazzino, anche parecchio emozionato. Si permise di chiedere: ‘Maestro, ma cosa deve fare un radiocronista prima di iniziare una diretta?”. Mettendogli una mano sulla spalla, sorrise e rispose: “Vai in bagno, che dopo non ne hai il tempo”. Un insegnamento semplice, quasi scontato, ma seguito per tutta la carriera.
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Da lì in poi fu una crescita professionale continua, la prima performance ufficiale fu per Campobasso-Fiorentina di Serie B, quasi per caso, visto che Ezio Luzzi, che avrebbe dovuto recarsi in Molise, fu colto da febbre altissima ed improvvisa. Difficile dire quante partite da qui in poi siano state raccontate agli italiani.


Il primo impatto con la Serie A fu un Roma-Ascoli, 2-1, stadio Olimpico. Era il 1982, la Roma vinse poi lo scudetto. La scaletta recitava: Ameri, Ciotti, Provenzali, Ferretti e Cucchi. Sarebbero tremate le gambe e la voce a chiunque davanti a quella parata di stelle, ma andò bene.

Nel 1994, in vista dei mondiali Americani, grazie al suo stile pacato, ma mai banale, Cucchi fu promosso tra le voci di punta di Tutto il Calcio Minuto per Minuto, diventando inoltre il narratore delle partite della nazionale, sostituendo Sandro Ciotti e commentando anni dopo la storica vittoria di Berlino del 2006, ai calci di rigore contro la Francia.

Ha partecipato anche a ben sei spedizioni olimpioniche, come inviato Rai al seguito delle rappresentative azzurre, raccontando sempre con compostezza ed imparzialità le grandi imprese degli atleti di casa nostra.
Ha amato in maniera viscerale Maradona, definito uno spettacolo vivente, ha intervistato centinaia e centinaia di allenatori, ma solo con uno ha stretto un rapporto che sconfina anche dalla sfera professionale, quell' Osvaldo Bagnoli che a metà anni '80 riuscì a vincere un clamoroso scudetto sulla panchina del Verona.

In una recente intervista, Cucchi, parlando della squadra che lo ha divertito di più in tanti anni di carriera, ha fatto un riferimento molto curioso, citando oltre al Milan degli olandesi di Sacchi, il Licata, guidato in Serie B, dall' allora sconosciuto Zdnenek Zeman, all' alba di quella che sarebbe stata poi a Foggia “Zemanlandia”.

Domenica scorsa, da San Siro, in conclusione della sua ultima fatica, al termine di Inter – Empoli, ha voluto chiudere con un semplice: "questa volta è davvero tutto, a te la linea”. Cedendo poi il collegamento alla regia di Roma. Più tardi ai microfoni di Novantesimo Minuto ha rivelato un piccolo segreto: "Mi hanno dato dello juevntino, dell'interista e del milanista. Ma la mia vera passione è per la Lazio e negli anni in cui l'ho commentata per dovere sono stato il più severo possibile nei commenti sui biancocelesti".

Immagini tratte da www.lamiaradio.it


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10/2/2017

Tom Brady “The G.O.A.T.”

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Il più grande quarterback di tutti i tempi
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di Vito Rallo

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Domenica scorsa l’intero mondo sportivo e non ha seguito uno degli eventi più catalizzatori dell’anno. Parliamo del cinquantunesimo SUPER BOWL disputato a Houston, Texas che ha visto trionfare per la quinta volta i New England Patriots contro gli Atlanta Falcons.

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Quinto successo che arriva dal 2001, e non a caso è presente un giocatore che nel 2000 è entrato nel mondo del Football professionistico dalla porta di servizio, perché venne draftato dalla squadra di Boston al sesto giro (centonovantanovesimo assoluto): Tom Brady, considerato “The GOAT” (the greatest of all time), il più grande di tutti i tempi. Oggi vogliamo parlarvi di questo giocatore, arrivato in NFL un po’ in sordina ma che ha riscritto tutti i record possibili di questa Lega.
Classe 1977, californiano di San Mateo, alla fine del suo quinto titolo vinto ha voluto dedicare il trionfo alla mamma che da diciotto mesi lotta contro il cancro “Lei è il mio tutto, la amo così tanto. È stata dura ultimamente per lei e mio padre le è stato vicino in ogni passo del suo cammino. I miei genitori sono un grande esempio per me. Tutte le famiglie attraversano momenti difficili, ma mia madre può contare su tanto sostegno e tanto amore. E sono davvero felice di aver potuto festeggiare questa vittoria con lei”. Dedica anche per la moglie e Top Model Gisele Buendehen e la figlia Vivian di quattro anni “Il merito? Di tutte le "ragazze" della mia vita”. Sedici stagioni, solo il primo anno non da titolare, tutti con la stessa maglia del New England, Brady è il simbolo di una squadra che prima e senza di lui non aveva mai trionfato.
Brady ha cambiato questo sport per la continuità mostrata in questi anni e per la capacità di separare la parte mentale di questo gioco dalla dimensione fisica. La sua forza è il modo di pensare football e di farlo sulla stessa lunghezza d’onda del suo coaching staff, quella intesa perfetta soprattutto col mentore e capo allenatore Bill Belichick che hanno coronato la rimonta perfetta e più bella mai vista di tutti i cinquanta precedenti Superbowl. Ricordiamo che a metà del terzo quarto i Patriots erano sotto per 28-3 e sono riusciti a portare il gioco ai supplementari e dopo a realizzare il touchdown della vittoria.
Successo che ha permesso a Brady di diventare il primo quarterback di sempre a vincere cinque Super Bowl in carriera e, con la nomina a MVP dell'incontro, il primo giocatore a ottenere questo riconoscimento per quattro volte. I yard su passaggio, i passaggi tentati e quelli completati da Brady in questa edizione sono tutti nuovi record per un singolo Super Bowl.


ALCUNE STATISTICHE INDIVIDUALI:
- dodici volte convocato per disputare il PRO BOWL;
- ha lanciato più yard e touchdown di qualsiasi altro quarterback nella storia dei playoff;
- lui e Joe Montana sono gli unici due giocatori nella storia della NFL ad aver vinto sia il titolo di MVP della  NFL sia quello di MVP del Super Bowl più di una volta in carriera;
- unico quarterback ad avere guidato la propria squadra a sette Super Bowl;
- nel 2005 fu nominato Sportivo dell'Anno da Sports Illustrated;
- vinse il premio di "Sportsman of the Year" di The Sporting News nel 2004 e 2007;
- é stato nominato due volte MVP della lega, nel 2007 e nel 2010 (diventando il primo giocatore della storia ad aggiudicarsi il titolo di MVP con un verdetto unanime nel 2010) oltre che Atleta Maschile dell'Anno 2007 dall'Associated Press, il primo giocatore della NFL a ricevere tale premio da Joe Montana nel 1990;


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E non ha intenzione ancora di smettere nonostante l’età e i multipli trionfi. Ha sempre dichiarato riguardo a un possibile ritiro “quando faro' schifo mi ritirero'” e, vista la gara di domenica e le sedici stagioni sempre ai massimi livelli, crediamo che ne avrà ancora per qualche anno. Il caro Tom “The GOAT” si sente ancora un ragazzino con la voglia di scrivere nuove pagine della sua vita dedicata a questo sport che gli ha dato tutto.

Immagine tratte da:
http://www.huddle.org

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3/2/2017

Roger Milla: La storia di un leone indomabile. Quarantadue anni ed un gol per entrare nella storia.  

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di Marco Scialpi

Negli ultimi giorni praticamente tutte le testate giornalistiche hanno raccontato dell' incredibile vittoria di Roger Federer, trentacinque anni suonati, agli Australian Open, gridando al miracolo sportivo. L' impresa del tennista svizzero però non rappresenta un “unicum” nell' abbinamento vittorie-trionfi sportivi: come dimenticare le gesta, per esempio, dei nostri Mario Cipollini,Yuri Chechi e Josefa Idem, chi campione del mondo, chi medaglia olimpica, nonostante l'eta non fosse più così verdissima.

La storia che vogliamo raccontarvi oggi però è quella di Roger Milla, vera e propria icona del calcio africano e più anziano calciatore ad aver segnato in un Mondiale.
Nazionalità camerunense ed esempio più unico che raro di longevità calcistica, nato a Yaoundé il 20 maggio 1952, non fa in tempo a conoscere bene la sua patria, che deve mettersi in viaggio, sempre al seguito del padre ferroviere, in giro per tutta l'Africa, respirando l' aria elettrica di paesi che si stavano ribellando al colonialismo.
La carriera del Milla calciatore inizia ad appena tredici anni, quando nel 1965 firma il suo primo contratto da professionista nell’Eclair de Douala, uno dei club più importanti del Camerun.
Nel 1970, ad appena diciotto anni, passa al Léopard de Douala dove rimane quattro anni. Sarà proprio con questa nuova squadra che Milla coglierà alcuni dei più importanti successi della sua carriera: vincerà infatti due volte il Campionato camerunense. Nei suoi quattro anni di militanza nel Léopard sigla la bellezza di 89 gol in 117 partite.
A nemmeno ventuno primavere, arriva la chiamata in Nazionale, della quale non tarderà a diventare un elemento imprescindibile. Nel 1974, passa al Tonnerre de Yaoundé, con la sua nuova squadra, al primo tentativo, vincerà il suo primo trofeo continentale: la Coppa delle Coppe d’Africa. Conseguenza ovvia è la consegna del pallone d’Oro Africano. Roger ha solo venticinque anni, ma è già simbolo del proprio paese.
Inevitabile arriva la chiamata del grande calcio europeo, in particolare della Francia, in terra transalpina Roger cambia quattro maglie (Valenciennes, Monaco, Saint Etienne e Montpellier) senza mai brillare. La nostalgia dell’Africa è tantissima, talmente forte che gli spenge il sorriso, inducendolo a fughe repentine verso la terra natia.
Il nuovo Camerun indipendente è un Paese fiero del suo figlio, della sua storia e del suo spirito battagliero. La nazione dei “leoni” è finalmente libera da un secolo di dominio europeo ma è ancora attraversata da agitazioni interne, così che prova a riscattarsi anche tramite il calcio.
Nel 1982 la Nazionale gialloverde accede alla fase finale dei Mondiali di Spagna, finendo in un girone eliminatorio durissimo: Polonia, Perù e soprattutto Italia. Ma gli africani non saranno affatto una squadra-cuscinetto. Dopo due pareggi a reti inviolate contro Perù e Polonia, arrivano perfino a giocarsi la qualificazione contro gli azzurri di Bearzot. Incrociano i tacchetti con leggende del calibro di Zoff, Cabrini, Scirea ed Oriali.

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I giganti del campionato più bello e competitivo del pianeta, contro sconosciuti atleti semi-professionisti di un calcio in via di sviluppo. Una sfida sulla carta impari, invece è un sorprendente uno a uno: gli azzurri passano solo grazie alla differenza reti ed il Camerun abbandona la competizione imbattuto. Roger Milla diventa uno dei “Leoni Indomabili”.
Dopo aver trascorso praticamente tutti gli anni '80 in Francia, a trentasette anni abbandona il calcio importante. Nel 1989 si trasferisce nella tranquilla isola delle Réunion, situata nell’Oceano Indiano, per giocare nel club più titolato del Paese, il JS Saint-Pierroise, con uno stipendio decisamente importante per l'epoca.
Sembra avviato al crepuscolo della sua carriera, ma ci sono da scrivere ancora pagine che profumano di leggenda.Anno Domini 1990: dopo aver lasciato la Nazionale per sopraggiunti limiti anagrafici, succede l’incredibile. Pochi mesi prima dell’inizio del Campionato del Mondo il Presidente del Camerun, Paul Biya, gli telefona per convincerlo a ritornare sui suoi passi e rindossare i colori della propria terra per la spedizione italiana. Milla dopo vari tentennamenti accetta.
Sarà il trascinatore del Camerun, ma sarà anche una delle stelle dell’intera manifestazione mondiale, nonostante i trentotto anni. Nei cinque match giocati parte sempre dalla panchina, ma segna la bellezza di quattro gol che portano gli africani addirittura ai quarti con l’Inghilterra, gli inglesi passano in vantaggio, Milla si procura il rigore trasformato da Kundé e poi serve l’assist per Ekéké che vale il vantaggio, ma due rigori per gli inglesi, eliminano i leoni indomabili ai supplementari.
Continua a giocare a pallone ed a gonfiare le reti dei malcapitati avversari di turno in patria, fino a che nel 1994 non decide di scrivere la storia: Mondiali di Usa 1994, ha la fronte stempiata e lo stesso numero nove di sempre, stampato nell' anima più che sulla maglia.
Nella gara del girone eliminatorio contro la Russia, quando il Camerun è sotto di tre gol, allo scadere del primo tempo raccoglie l’assist di David Embé, difende la palla e l’allunga in rete alle spalle del portiere avversario: non basta alla sua Nazionale per rimettere in carreggiata una partita che finirà  con un tennistico 6-1, con ben cinque marcature della meteora Oleg Salenko, ma è sufficiente per consolidare a quarantadue anni il primato di più anziano marcatore nella storia dei Mondiali di calcio.

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- goal.com
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27/1/2017

Roger Federer - 35 anni e mezzo e una nuova splendida finale del Grande Slam

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di Enrico Esposito

Un fenomeno puro. Non un istrione insaziabile, né uno sbruffone da copertina. Un eroe dei timidi, un atleta che ama dannatamente fare il suo sport, giocare a tennis, anche a 35 anni suonati, e dopo essere stato fermo sei mesi per infortunio.
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Signore e signori avrete già capito che stiamo parlando di Sua Maestà Roger Federer, il tennista svizzero che nella giornata di ieri ha compiuto un'altra maiuscola impresa della sua pazzesca carriera. A Melbourne infatti, nell'appuntamento con l'Australian Open (il primo grande torneo dell'anno che compone il Grande Slam insieme al Roland Garros a Parigi, Wimbledon a Londra e l'Us Open negli impianti di Flushing Meadows a New York), il campione ha conquistato l'accesso alla finalissima sconfiggendo in semifinale il connazionale Stanislav Wawrinka in cinque set con il punteggio di 7-5 6-3 1-6 4-6 6-3. Dopo essersi portato sul 2-0, Federer ha subito la rimonta dell'avversario nei due set successivi e accusato un problema alla gamba che per la prima volta nella sua carriera l'ha indotto a chiedere il time out previsto per le cure mediche. Questo stop si è rivelato alla fine decisivo, dal momento che al rientro in campo con un netto 6-3 l'elvetico si è portato a casa il tie-break raggiungendo la finale del torneo australiano dopo sette anni (l'ultima volta fu nel 2010, quando trionfò su Andy Murray).

Un risultato straordinario quanto inatteso per colui che è a tutti gli effetti il tennista più titolato della storia di questo sport con 17 titoli del Grande Slam (4 Australian Open, 1 Roland Garros, 7 Wilmbledon e 5 Us Open) e il record di 237 settimane di fila in testa alla classifica maschile ATP. Soprannominato "Re Roger", Federer ha intrapreso la sua sfolgorante cavalcata a partire dai primi anni 2000, in particolare nel 2003, l'anno che l'ha visto trionfare a Wimbledon a soli 22 anni e polverizzare nella finale della Masters Cup un altro maestro della racchetta dal nome di Andrè Agassi con un eloquente 6-3 6-0 6-4. Il suo tennis è sempre stato contraddistinto da un mix letale di eleganza e concretezza, di precisione chirurgica e di grazia esemplari.

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Nella finale in programma domenica 29 gennaio alle 9-30 italiane (19-30 locali), lo svizzero si ritroverà a vivere quell'esperienza irreale di cui ha parlato a caldo al termine del suo incontro. Ci sarà di fronte il suo rivale storico, lo spagnolo Rafa Nadal, altro meraviglioso interprete della specialità che ha avuto la meglio sul talentuoso bulgaro Grigor Dimitrov nell'altra tiratissima semifinale. Con il punteggio di 3 set a 2 (6-3 5-7 7-6 6-7 6-4) il 31enne maiorchino, formidabile dominatore della "terra rossa" di Parigi con 9 Roland Garros vinti, ha raggiunto in finale Federer per dare vita a un nuovo storico scontro tra titani, che fino all'estate scorsa sembrava alquanto improbabile dati i problemi fisici di entrambi. Con 6 vittorie su 8 finali del Grande Slam disputate tra di loro, Nadal domina ampiamente il confronto con "Re Roger" per la rivalità più longeva della storia del tennis. Una rivalità però puramente sportiva, che ha dato vita a match epocali come la finale di Wimbledon del 2008 in cui, dopo una maratona di oltre 7 ore dovuta ad un'interruzione per pioggia, uscì vincitore lo spagnolo al tie break (6-4 6-4 6-7 6-7 9-7).

A prescindere dal risultato, domenica tutto il mondo assisterà senza dubbio a uno spettacolo autentico, una battaglia senza esclusione di colpi tra due atleti magnifici che grazie alla loro classe innata e ad una passione non comune regaleranno la vera essenza dello sport. "Re Roger" ha dichiarato che affronterà l'incontro al limite delle sue pontenzialità, dando tutto il meglio di sè anche a rischio di non poter poi camminare per cinque mesi. Non un'esagerazione, non una bestemmia. Soltanto la sincera promessa di un uomo che ama il suo mestiere.


Immagini tratte da www.rogerfederer.com

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20/1/2017

L’Università dello sci alpino: Kitzbuehel

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Tre giorni di Coppa del Mondo nella pista storica austriaca
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di Vito Rallo

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Kitzbuehel è un piccolo comune austriaco di 8000 abitanti ed è molto popolare tra i milioni di appassionati di sci alpino. Deve tutta la sua popolarità mondiale alle due piste, lo Streif e la Ganslern.
Le due piste si trovano sul Monte Hahnenkamm dove, oltre alla coppa del mondo di sci, ogni anno dal 1931 viene disputato il Trofeo Hahnenkamm durante il quale si disputano una discesa libera, uno slalom speciale e una combinata.
Su queste piste, invece, il Circo Bianco della coppa del mondo di sci gareggia fin dalla sua fondazione del 1967. E lo farà ancora in questo weekend iniziando proprio oggi con in programma la gara di SuperG sullo Streif. Sabato ancora sullo Streif con la storica Discesa Libera, e domenica si torna sul Ganslern per la prova di Slalom Speciale: tappa di Kitzbuehel che vedrà confrontarsi solo gli uomini.
Tra le tre discipline che saranno protagoniste del weekend sicuramente quella più famosa, storica e affascinante è la discesa libera dello Streif. Chi vincerà questa discesa entrerà nell’Olimpo di questo sport e per questo è anche rinominata l’Università dello sci. Tutto questo perché sullo Streif si trovano tutti gli elementi di una discesa classica: sponde pungenti che con l’alta velocità portano a salti mozzafiato, pendii ripidi, percorsi pendenti, tragitti schuss (tratto di discesa molto ripido), curve, percorsi di scorrimento, innumerevoli spettacolari ondulazioni del terreno e persino brevi tratti in salita come prima del salto Seidlalm.
Il cancelletto di partenza è situato a 1.665 metri di attitudine e si scende fino agli 800 metri circa con delle pendenze che in alcuni tratti tocca l’85% e una velocità di 140 Km/h. Il tracciato è lungo 3.312 metri. Alcuni dei tratti impegnativi dello Streif sono:
-subito dopo la partenza gli atleti hanno a che fare con la Mausefalle (“trappola per topi”) che è un salto di ottanta metri;
- s’arriva sulla Steilhang, doppia curva in contropendenza;



Mausefalle e Steilhang:


-a seguire ecco un tratto di puro scorrimento: il Brueckenschuss, lunga e strettissima stradina che se non presa ad alta velocità può compromettere tutta la gara;
-prima del rettilineo finale ci si trova sull’Hausburgkante, tratto che viene percorso in diagonale, molto ripido;
-lo Zielschuss che fino al 2009 era caratterizzato da un salto spettacolare ma che, dopo l’incidente a Daniel Albrecht, è stato notevolmente accorciato.

Il tracciato:


Ski - La streif di lequipe
Lo sciatore che ha vinto più volte sullo Streif è lo svizzero Didier Chuce con cinque successi seguito dagli austriaci Karl Schranz e Franz Klammer con quattro vittorie. La scorsa edizione fu vinta dal nostro connazionale italiano Peter Fill, unica sua volta su questa pista.
La vittoria di Peter Fill:


Peter Fill 1st place @ Kitzbüel Streif Downhill... di YoshioAmeer

Solo altri due italiani riuscirono a vincere la discesa dello Streif e sono stati Kristian Ghedina nel 1998 e Dominik Paris nel 2013. Nel 1975 l’italiano Gustav Thoeni non vinse la gara per un solo centesimo che ancora oggi è il distacco inferiore tra il primo e il secondo su questo tracciato.
In realtà
con rilevamenti cronometrici successivi, si verificò che il distacco era di tre millesimi di secondo, e gli sciatori sarebbero stati dichiarati vincitori ex aequo se allo scarto in millesimi non fosse corrisposto il passaggio decimale dei centesimi.
Una pista così epica che nel 2015 due registi tedeschi
Gerald Salmina e Tom Dauer decisero di dedicargli il film “Streif-One Hell of a ride”! Ecco il trailer:


Immagini tratte da:


Immagine 1 http://www.fis-ski.com/


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13/1/2017

Marco Pantani avrebbe compiuto 47 anni: L'ultimo grande eroe del ciclismo italiano, ucciso dal linciaggio mediatico e dalla depressione 

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Un campione che ha fatto appassionare l'intero paese alla bicicletta, tanto tenace sulle salite dei passi di montagna quanto fragile nella vita privata. Il ricordo di Marco Pantani attraverso le parole di familiari, amici, colleghi e di quanti hanno seguito negli anni le imprese del "pirata".

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di Marco Scialpi

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Nato a Cesena il 13 gennaio del 1970; venne trovato morto il 14 febbraio 2004, in una camera d’albergo vicino a Rimini, a una ventina chilometri da casa sua, con cento grammi di cocaina in corpo.
Più di un'ombra, a distanza di tredici anni aleggia ancora sulla sua scomparsa: chi gli ha dato tutta quella droga? C’è una inchiesta, che molti dicono essere stata chiusa troppo presto.
Il cadavere venne trovato disteso sul pavimento, accanto al letto, nella confusione di una stanza letteralmente sottosopra. Chi gli era vicino non ha mai creduto al suicidio, non ne sono mai stati convinti né i genitori, né gli amici più stretti, né il “padre sportivo” e primo allenatore, Pino Roncucci.
Pantani è stato l'ultimo grande mito del ciclismo, una delle stelle più luminose, non è fantascienza un accostamento con Coppi e Bartali. Soprannominato “il pirata” per il suo essere sempre all'attacco durante le corse, soprattutto in salita.
Marco è stato campione dallo sguardo sempre triste, forse non ha avuto le spalle abbastanza larghe, ma c'è da dire che è stato lasciato solo, maledettamente solo da quella stampa assassina che l'ha affondato e da tutti quei manager che lo hanno usato come macchina da soldi.
La sua esistenza si è fermata a soli trentaquattro anni, nel giorno di San Valentino, dove forse la solitudine si percepisce ancora di più.
Capace di vincere nello stesso anno il Giro d’Italia e il Tour de France, dopo un duello epico con Jan Ullrich, nel leggendario 1998, condivide questa impresa con Fausto Coppi. Carattere forte, dunque, ma anche fragile, orgoglioso e sfortunato.
La data che segnerà in maniera indelebile la sua vita è il 5 giugno del 1999, quando a Madonna di Campiglio, ormai quasi alla fine del Giro che probabilmente avrebbe vinto, ad un controllo della Federazione  Internazionale (che lui stesso considerava legittimo) gli si riscontra l’ematocrito troppo alto.
Viene fermato, perché continuare la gara comporterebbe rischi per la sua salute. Il Giro è finito, per lui, che incomincia ad essere sospettato di aver fatto ricorso al doping, nonostante le sue dichiarazioni di innocenza (“io avevo la coscienza pulita, non so che cosa è successo”).
Il valore dell’ematocrito, per essere accettato dai controlli, non dovrebbe essere superiore al 50%. Più è alto, più c’è il sospetto del doping. Il suo è al 52%. “Ma è un esame ballerino” dice Pantani “perché il valore dell’ematocrito è condizionabile dallo stress, dallo stato d’animo, dalla disidratazione … Al doping non sono mai risultato positivo”.
Ma intanto, estromesso dalla gara, il corridore viene sospeso per quindici giorni. “Un episodio che è una ferita non fisica ma spirituale”, racconterà la penna sempre raffinata di Gianni Mura, Marco non riuscirà mai a superare quella umiliazione.
Qualcuno dal pubblico gli grida dietro “Vai a casa, dopato!” Molti dei suoi amici si dileguano nel nulla, gli sponsor si allontanano, rimane da solo a combattere la sua battaglia, ma il male più grave è dentro di lui e si chiama depressione.

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Incomincia ad essere sempre più irreperibile, girano voci che sarebbe diventato dipendete dalla cocaina, che ora gli servirebbe a dimenticare quello che sembrava un bruttissimo incubo, a stordirsi.
Chi gli vuol bene capisce che Marco non tornerà più a correre e, forse a vivere a pieno, che si sta rovinando.
La madre in diverse interviste ha raccontato: “Noi due non parlavamo mai di cocaina, ma ormai era circondato dalla peggior specie di gente che esista sulla terra. Io lo convinsi ad entrare in clinica, ma il giorno dopo lo sapeva tutta la stampa”.
La sua manager storica, Manuela Ronchi, interpreta così l’ultimo periodo del campione: “Prima era lui a dominare le montagne, ma poi si accorse che era la droga a dominare lui. Se avesse avuto vicino una donna che lo amasse, questo lo avrebbe aiutato; ma decideva sempre lui, tutto”.
La madre preferisce guardare le fotografie di quando era piccolo, “perché”, dice, “allora era più mio, dopo è diventato della gente”.
Quella stessa gente, quella del popolo che affolla i bordi delle strade durante le gare di ciclismo, quella che cerca eroi ed idoli positivi, che sente Pantani vicino: il campione che si scopre solo quando i riflettori si spengono, la gloria si allontana e lui diventa semplicemente Marco, un ragazzo lasciato morire in una maniera infame, in un momento nel quale avrebbe avuto bisogno d' aiuto.
Una volta ebbe un incidente alla catena della bicicletta, ,bbene, risalì in sella, rimontò settanta corridori che stavano avanti a lui e vinse. Forse semplicemente perché, come confessò una volta, “Vado più forte degli altri, in salita, per abbreviare la mia agonia”.

Immagini tratte da:
Aforismi - Meglio.it
Ubitennis

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